novembre 2011

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Another Earth, Mike Cahill 2011

Another Earth
di Mike Cahill, 2011

Dopo aver festeggiato l’ammissione al MIT, la giovane Rhoda, guidando verso casa, sente una notizia alla radio: il puntino blu che è apparso nel cielo quella notte è un vero pianeta, finora rimasto nascosto, e del tutto simile alla Terra. Distratta dal tentativo di scorgerlo dal finestrino, Rhoda si schianta contro una macchina ferma causando la morte di una donna e di un bambino.

La premessa di Another Earth – sarebbe un peccato rivelare molto di più sulla trama, ma anche sulla natura del pianeta gemello (attenti ai trailer spoilerosi) – fa capire piuttosto bene quale sia il meccanismo del film, che affronta la fantascienza da una prospettiva singolare quanto la sua ambientazione nella periferia del Connecticut, distante dalla spettacolarità hollywoodiana (dopotutto il film è costato solo 200 mila dollari), per raccontare una storia di errori, rimpianti e impossibili riscatti, dolorosa e intensa, visivamente originale e quasi impressionista. Per Cahill, e per la bravissima protagonista e co-sceneggiatrice Brit Marling, il genere serve soprattutto allo scopo di rivelare l’intimità dei personaggi, ma questo non impedisce ad Another Earth di essere all’occorrenza anche uno dei film di fantascienza più curiosi, affascinanti e sorprendenti degli ultimi tempi. Come nell’improvviso e beffardo finale: un vero colpo di genio che riesce a trascinare l’inquietante mistero del film, delle sue domande sull’identità e sulle seconde occasioni, ben oltre i titoli di coda.

Presentato all’ultimo Sundance, il film uscirà in dvd negli states alla fine di novembre, e in queste settimane è prevista l’uscita in sala in mezza Europa. In Italia dovrebbe uscire il 18 maggio 2012.


appendice al pube / guida non esaustiva alle nuove serie tv (ottobre/novembre 2011)

Dove eravamo rimasti? Ah, sì. Un mese fa vi ho raccontato i pilot di un po’ di nuove serie tv di settembre. Adesso possiamo terminare l’infornata autunnale con quelle iniziate tra ottobre e l’inizio di novembre – alcune delle quali sono cominciate da settimane, permettendoci di giudicarle non soltanto dall’episodio di apertura.

Homeland (Showtime) è, molto brevemente, la migliore nuova serie della stagione. La protagonista è un’agente della CIA convinta che il Sergente Brody, ritrovato in un buco in Iraq dopo otto anni di prigionia, sia stato convertito e sia diventato un terrorista. Dal canto suo, Brody deve affrontare il ritorno in famiglia: i figli non l’hanno quasi conosciuto, la moglie si stava rifacendo una vita – e con il suo migliore amico. La serie riempie in qualche modo il vuoto lasciato dalla compianta Rubicon, ma riesce a sorpassarla giocando in modo perverso con i punti di vista dei suoi personaggi: dopo 6 episodi non ha conosciuto un momento di stanca, e c’è già una seconda stagione all’orizzonte. Claire Danes è incredibile, il resto del cast non sta certo a guardare. Recuperatela subito.

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Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno, Steven Spielberg 2011

Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno (The Adventures of Tintin: The Secret of the Unicorn)
di Steven Spielberg, 2011

Prima di Tintin ho sempre guardato con sospetto all’utilizzo massiccio della performance capture nel cinema d’animazione, forse per questioni di gusto estetico, forse perché ha allontanato dalla strada maestra la carriera di un regista del calibro di Robert Zemeckis. Ma è proprio con un film realizzato in questo modo che si realizza un desiderio inespresso ma covato nel nostro cuore da tempo: non soltanto il ritorno di un gigante come Steven Spielberg alla sua forma migliore, ma anche di un genere puramente avventuroso, quasi dimenticato e da tempo favolosamente nostalgico, di cui lo stesso regista aveva scritto una pagina memorabile con la trilogia di Indiana Jones.

Si intenda, Tintin non era un film “rischioso”: una macchina produttiva da 135 milioni di dollari, l’egida di Peter Jackson, la penna di tre fra i migliori sceneggiatori britannici in circolazione, un personaggio che – per ammissione stessa del regista e anche dell’autore Hergé, scomparso nel 1983 – sembrava fatto apposta per diventare il protagonista di un film di Spielberg. La sorpresa non è dunque che Tintin sia riuscito, divertente, ben scritto e realizzato, ma che sia così maledettamente irresistibile, che sia all’incirca il miglior Spielberg degli ultimi 10 anni e quello più “meraviglioso”, forse, dai tempi di Jurassic Park, un film dove si ritrova quello stesso senso di incanto e la capacità di restituirlo sullo schermo che ha “passato” ad Abrams in Super 8, ritrovato nel proprio passato per quello che diventato è a tutti gli effetti – dimenticando quel quarto fallimentare capitolo – l’unico Indiana Jones possibile.

Partendo da spettacolari titoli di testa firmati Weta che aggiornano quelli, già classici, di Catch me if you can, il Tintin di Spielberg è un film che non lascia allo spettatore un attimo di tregua e di respiro, inanellando un’invenzione dietro l’altra in un’autentica giostra dinamica – di cui il 3D funge da propagatore e non da alimentatore – ma senza il pericolo che si tratti di horror vacui: lo scopo dell’orchestra animata organizzata da Spielberg e Jackson è quello di sbalordire e rilanciare di continuo, ed è un obiettivo raggiunto e superato. Anche perché le sequenze migliori del film, come quella del deserto che in un flashback si trasforma in un mare in tempesta oppure l’incredibile, quasi impensabile piano-sequenza dell’inseguimento del falco mostrano che dietro Tintin c’è non solo il talento narrativo e commerciale che nessuno oserebbe negare a Spielberg, ma la sua capacità prettamente geniale di piegare tutto, le esigenze tecnologiche, economiche, tecniche, artistiche, a una poetica di rara schiettezza e a una passione nel fare cinema che lascia negli occhi uno stupore ubriacante. Ne vogliamo ancora. E ne avremo ancora.

Una separazione, Asghar Farhadi 2011

Una separazione (Jodaeiye Nader az Simin)
di Asghar Farhadi, 2011

Nader e Simin sono una coppia borghese benestante di Teheran, dove vivono con la figlia undicenne e il vecchio padre di Nader. Simin ha ottenuto dopo anni il visto per lasciare il paese, ma il marito non se la sente di lasciare il padre malato di Alzheimer; così la donna decide che la separazione è l’unica soluzione possibile, e Nader rimasto solo con la figlia è costretto a prendere in casa Razieh, una religiosissima donna incinta che baderà all’anziano in sua assenza, ma all’insaputa del turbolento marito Houjat.

Asghar Farhadi, aggirando la censura (il film era stato temporaneamente bloccato a causa di alcune dichiarazioni del regista, in favore di colleghi esiliati e imprigionati, che l’avevano costretto a fare pubblica ammenda pur di continuare a lavorare) costruisce una storia di personaggi che apparentemente non scava nel tessuto sociale dell’Iran di oggi, ma finisce in verità per raccontarlo come pochissimi altri sono riusciti a fare – attraverso proprio le armi del dramma, asciuttissimo e spietato, più che attraverso quelle del film di denuncia. Nella storia raccontata da Farhadi i personaggi non sono infatti mossi soltanto dalle enormi contraddizioni sociali e religiose del paese ma da pulsioni invividuali, da un’umana, universale e “normalissima” quotidianità sotto cui si intravedono a ogni passo trame sociali che forniscono l’innesto narrativo di gran parte del film, e che sono di base le radici del contrasto tra le due coppie di protagonisti.

E la forza del film è proprio in questo formidabile quartetto di personaggi, i cui interpreti non a caso sono stati premiati collettivamente a Berlino, costruiti su dialoghi martellanti e un crescendo tesissimo che, da mezz’ora circa fino alla fine del film, mette a dura prova i nervi dello spettatore – soprattutto perché gioca con calcolata severità sul ribaltamento morale, con il risultato che si finisce a fare il tifo per tutti e (più probabilmente) per nessuno. Farhadi, che si dimostra un regista di grande sensibilità ma anche di grande fiuto, è riuscito in un vero colpo da maestro: un film estremamente specifico (su un paese spezzato a metà, in balia di se stesso e alla ricerca disperata di una propria normalità) ma anche terribilmente universale, comprensibile a tutti, su quattro persone che assistono all’implacabile combustione del proprio mondo, e che lottano contro di essa buttandoci dentro i propri valori pur di uscirne indenni.

Nota: il trailer è molto bello ma anche molto spoileroso; il mio consiglio è quello di guardare il film senza sapere della trama niente di più di ciò che vi ho detto lassù.

Melancholia, Lars Von Trier 2011

Melancholia
di Lars Von Trier, 2011

Se diamo per accertata la scaltrezza che lo contraddistingue, Lars Von Trier nel suo ultimo film sembra voler applicare alla lettera una considerazione sul cinema più diffusa di quanto non si voglia ammettere – e cioè, che la gran parte del pubblico si ricorderà soprattutto l’inizio e la fine del film. Così, il regista danese apre Melancholia con una sequenza di spaventosa bellezza, una decina di minuti (forse meno) composti da autentici tableau vivant (non a caso utilizzati massicciamente nella pubblicistica del film) con un uso del ralenti che ne moltiplica esponenzialmente l’intensità – uno stile che però viene immediatamente abbandonato all’apertura del film vero e proprio. Allo stesso modo, Trier chiude il film in modo tragicamente emozionante, con una ventina di minuti che svolgono alla perfezione lo spunto iniziale in funzione, finalmente, dei suoi due personaggi principali – peccato che per arrivare a tutto questo si debba passare attraverso un’ora di insostenibile celebrazione nuziale che va a scatafascio e che, se pure ha certamente lo scopo di costruire il personaggio di Justine, appare a giochi fatti come un’evitabile e lunghissima digressione, utile semmai al regista perché si muove su territori a lui più consoni. La sorpresa del film è che in realtà Melancholia risulta più interessante quando si sposta sul genere, anche se osservato da una prospettiva trasversale: se tra i due capitoli che compongono il corpo centrale del film il secondo funziona decisamente meglio non è soltanto a causa della radicalizzazione del contrasto tra Justine e Claire, né perché Charlotte Gainsbourg è più brava di una bellissima e stranamente acerba Kirsten Dunst, ma anche perché il film si riappropria di un senso di minaccia più comprensibile e universale, rimettendo in campo il gigantesco e ineffabile Melancholia – destinato a divorare questa Terra e i suoi piccoli stronzi uomini – e con esso una potenza e un mistero tale da trasformare l’infelicità umana nel sogno passeggero e malinconico di un piccolo pianeta già fantasma. Un film spezzato a metà, quindi, tra la suggestione e la tensione dei primi e degli ultimi minuti e uno studio di personaggi inefficace quando non irritante. Un’indecisione programmatica, ma che impone al film anche un freno emotivo non indifferente: forse era quello che voleva suggerire Trier, giunto ad una sorta di epitome nichilista, ma per questa umanità non è rimasta nemmeno una lacrima da versare.

Faust, Aleksandr Sokurov 2011

Faust
di Aleksandr Sokurov, 2011

Una delle più grandi ovvietà che si possano dire sul Faust di Sokurov, vincitore del Leone d’Oro all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, è che non è un film per tutti. Ma è anche una verità. Non ci si riferisce però, come potrebbe sembrare, alle capacità intellettuali dell’autore e spettatore, ma all’accettazione di un patto. Un film, ogni film, nasce da una sorta di stipulazione, oserei dire diabolica a questo punto, che può esaurirsi con il tempo della visione o durare una vita intera, tra il film stesso e lo spettatore: il primo presenta una visione del mondo, un sistema di valori e di leggi, che il secondo dovrà accettare per riuscire a far parte dell’esperienza filmica. In questo, e non tanto nella sua intelligibilità, sta la differenza, soltanto relativa, con il cinema a cui siamo abituati: il Faust è un film che chiede al suo spettatore qualcosa in cambio. Una possibile chiave per eliminare questo scarto, che provoca certamente timore – ce ne sono molte altre: la bellezza del film sta anche nella sua capacità di essere qualcosa di completamente diverso per ciascuno, inclusa la possibilità che per qualcuno sia soltanto un film terribilmente noioso – la propone lo stesso Sokurov all’inizio del film, con una spettacolare e inquietante inquadratura a volo d’uccello che mette la sua ben nota storia all’interno di una cornice tutt’altro che realistica, aliena, onirica: l’esperienza inconscia prima ancora che razionale è forse la modalità più semplice per affrontare il film, e i suoi personaggi che promettono di essere padroni del loro destino quando non fanno che schiacciarsi l’uno con l’altro, sballottati come in una teca di vetro o in una palla di neve. E non c’è dubbio che per Sokurov l’impianto visivo sia di principale importanza: la sua riflessione sul desiderio passa sì anche attraverso esacerbanti monologhi filosofici, insistite bizzarrie surrealiste e consuete provocazioni formali, ma già dalla scelta del formato è l’immagine pura – al tempo stesso meravigliosamente pittorica e arditamente sperimentale, antica e moderna come la storia che racconta – a imporsi come il filtro attraverso cui osservare il mondo. Che poi Sokurov riesca o meno a comunicare attraverso la sua ricerca esacerbante un significato compiuto e autentico, quello è un altro discorso: ma il suo magnifico film è prima di tutto un’esperienza ipnotica da cui ciascuno trarrà conclusioni differenti, e che lascia una forte traccia del suo passaggio. Si tratta senza dubbio di un patto impegnativo, a tratti più sacrificale che mutuale, ma è un contratto su cui sono felice di aver messo la firma.

Midnight in Paris, Woody Allen 2011

Midnight in Paris
di Woody Allen, 2011

“What is it with this city? I need to write a letter to the Chamber of Commerce.”

Chi ha dato per scontato, a causa di qualche titolo poco riuscito, che Woody Allen fosse del tutto bollito e che fosse ormai capace di funzionare – il caso di Whatever Works - solo su copioni vecchi di trent’anni, si dovrà probabilmente ricredere di fronte a Midnight in Paris: un’opera insieme colta e semplice, poetica e divertentissima, sul potere avvincente e stordente della nostalgia, in cui Owen Wilson, alter ego dell’autore perfetto come pochi altri prima di lui, interpreta uno sceneggiatore hollywoodiano con ambizioni da romanziere che finisce per incanto nella Parigi dei suoi adorati anni ’20, a bere con Hemingway, Fitzgerald e Cole Porter – e a innamorarsi di una bellissima musa di Picasso che a sua volta sogna di vivere nella Belle Époque.

Ricco di suggestioni che vanno al di là del gioco spassoso dei riferimenti e dei riconoscimenti (con un cast spettacolare in cui spiccano l’incredibile Dalì di Adrien Brody e la Zelda Fitzgerald di Alison Pill), tra cui una riflessione profonda e inestimabile sul valore artistico assoluto della città come opera d’arte in continua mutazione, il film di Allen riesce a raccontare una Parigi talmente bella e formidabile da saper spezzare la linearità del tempo riducendolo a strati, e insieme al bravissimo Darius Khondji riesce a fotografarla – fin dai seducenti titoli di testa – sfuggendo sempre con grande naturalezza, anche nei suoi aspetti più “turistici”, al pericolo dell’effetto-cartolina. E grazie ai suoi dialoghi magnifici, prima cinici e poi totalmente stregati, Allen trova proprio nella necessità di liberarsi della nostalgia, di guardarla semmai con ammaliato distacco, un rimedio impareggiabile per sopravvivere al presente.

“That’s what the present is. It’s a little unsatisfying, because life is unsatisfying.”