dicembre 2011

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#duemilaundici – il classificone dei film

[la lista si riferisce alla distribuzione italiana nell'anno solare, e quindi include soltanto film usciti nelle sale italiane di prima visione tra il 1 gennaio e il 31 dicembre 2011]

Top 15
I miei film dell’anno.
1. Drive di Nicolas Winding Refn
2. The Tree of Life di Terrence Malick
3. Super 8 di J.J. Abrams
4. Il Cigno Nero di Darren Aronofsky
5. Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno di Steven Spielberg
6. Il Grinta di Joel & Ethan Coen
7. Faust di Aleksandr Sokurov
8. Kick-Ass di Matthew Vaughn
9. La donna che canta (Incendies) di Denis Villeneuve
10. 13 Assassini di Takashi Miike
11. The Artist di Michel Hazanavicius
12. Una separazione di Asghar Farhadi
13. Poetry di Lee Chang-dong
14. Midnight in Paris di Woody Allen
15. Habemus Papam di Nanni Moretti

Menzione speciale: the others
Altri 15 film davvero bellissimi che però non ci stavano, in ordine alfabetico.
Boris – Il film / Blood story (Let me in) / Crazy, stupid, love / Easy Girl (Easy A) / Fast & Furious 5 (Fast Five) / The Fighter / Un gelido inverno (Winter’s bone) / I guardiani del destino (The Adjustment Bureau) / Harry Potter e i doni della morte – Parte 2 / Monsters / Non lasciarmi (Never Let Me Go) / Rango / Ruggine / Super / Thor

Menzione speciale: the latecomers
I migliori film usciti in sala ma con anni di ritardo e quindi li metto qui perché sì.
1. Bronson di Nicolas Winding Refn
2. This Is England di Shane Meadows
3. Il buono, il matto, il cattivo (The good, the bad and the weird) di Kim Ji-woon

Menzione speciale: gli invisibili
I 10 migliori film visti quest’anno tra quelli che non sono usciti in sala.
1. Confessions di Tetsuya Nakashima (2010)
2. Submarine di Richard Ayoade (2010)
3. Attack the Block di Joe Cornish (2011)
4. Killer Joe di William Friedkin (2011)
5. Meek’s cutoff di Kelly Reichardt (2010)
6. Outrage di Takeshi Kitano (2010)
7. Another Earth di Mike Cahill (2011)
8. It’s Kind of a Funny Story di Anna Boden e Ryan Fleck (2010)
9. The man from nowhere di Lee Jeong-beom (2010)
10. Rare Exports di Jalmari Helander (2010)

Risponditore automatico: “Ehi, come mai non hai messo tal film?”
a) non l’ho visto
b) non mi è piaciuto
c) non mi è piaciuto abbastanza

Come ogni anno: nessuna classifica è la vostra tranne la vostra, questa è la mia.

Buone feste, ci ribecchiamo nel 2012. Fate i bravi.

Le Idi di Marzo (The Ides of March), George Clooney 2011

Le Idi di Marzo (The Ides of March)
di George Clooney, 2011

Un giovane e ambizioso consulente per le campagne elettorali del Partito Democratico diventa prima la pedina e poi il motore di un implacabile gioco di potere durante il voto per le primarie in Ohio. Arrivato al suo quarto film da regista e dopo la mezza delusione di Leatherheads, Clooney torna in gran forma con un film complesso ma piuttosto robusto ambientato dietro le quinte di un momento decisivo per la politica americana, raccontato con disilluso cinismo – ancora più duro se si considera il ruolo decisamente ambiguo che Clooney ha scelto per se stesso. La densa sceneggiatura scritta insieme a Grant Heslov e Beau Willimon non lascia troppi spiragli di luce: se l’ideologia è morta da un pezzo, l’idealismo rimane una tattica di facciata dietro cui si nasconde l’ipocrisia più spregiudicata, la lealtà privata di traguardi etici è un valore fine a se stesso, e l’unico modo per non farsi divorare è rispondere con le medesime armi, sporcare quel che resta del proprio candore, e prepararsi al cesaricidio. Il talento di Clooney, come già in Good Night and Good Luck, viene fuori soprattutto nella direzione degli attori: i momenti migliori sono infatti i tesissimi confronti psicologici tra i personaggi, tra cui gli abitualmente bravissimi Hoffman e Giamatti e un’ipnotica Evan Rachel Wood (mai così brava?), anche se Clooney affida tutto il cuore del suo film all’interpretazione trattenuta e dolente di Ryan Gosling.

Fright Night, Craig Gillespie 2011

Fright Night
di Craig Gillespie, 2011

Si può dire ciò che si vuole sul remake di Ammazzavampiri, cult movie di Tom Holland datato 1985 probabilmente assai diverso da come ve lo ricordate, ma non che si trattenga dal fare sforzi notevoli per svecchiare l’originale alla luce della consapevolezza e delle tendenze dell’horror contemporaneo – come quella che lega sempre più spesso il genere alla commedia. Si spinge molto, nella prima parte, sul personaggio geek di Christopher Mintz-Plasse, che interpreta un’altra variante più incattivita e antipatica di McLovin; d’altra parte, da un certo punto in poi, il perno dell’attenzione diventa invece il Peter Vincent di David Tennant.

Ed è lui, indubbiamente, il punto di forza del film: nelle mani dell’indimenticabile time lord di Doctor Who, Vincent diventa uno straordinario pavido showman rinchiuso in un decadente reliquiario vampiresco a Las Vegas che sembra rispecchiare la degradata tradizione stessa del film di vampiri: quando è in campo, come previsto, si mangia tutto il film – con buona pace del grossissimo Colin Farrell e dello spaesato Anton Yelchin. Lo stesso si può dire in qualche modo di Imogen Poots, splendida giovane attrice inglese già vista in 28 settimane dopoCenturion, ennesimo caso di out-of-his-league (come già Sarah Roemer in Disturbia o Haley Bennett in The Hole, per dirne due) che però grazie al suo carisma riesce a non cadere del tutto vittima dei cliché che le hanno ricamato intorno.

Uno dei maggiori limiti del film è il suo essere girato e pensato per il 3D: non sorprende che, di quando in quando, qualcuno lanci un oggetto verso gli spettatori, e la visione casalinga ne vanifica l’effetto circense. Un altro riguarda gli effetti visivi della nuit américaine, con le riprese diurne “scurite” in post-produzione per restituire l’idea del vespro che danno a gran parte del film una sensazione di fastidiosa artificiosità. Ma se si può fare il pelo allo stile o alla scarsa freschezza di tutto il progetto, il divertimento non manca affatto: Gillespie manovra il film con professionalità, tenendo per sé un paio di numeri da primo della classe (il long take durante la fuga in macchina come ne La guerra dei mondi di Spielberg), ma conservando un piglio leggero e onesto: basta guardare gli effetti speciali, sempre il meno realistici e plausibili possibile, perfettamente in linea con un film piuttosto sciocco ma, per nostra fortuna, ben conscio di esserlo.

#duemilaundici – i miei 12 dischi dell’anno




1. PJ HarveyLet England Shake
2. The DecemberistsThe King is Dead
3. Jay-Z & Kanye WestWatch The Throne
4. Florence and the MachineCeremonials
5. Beyoncé4
6. I CaniIl sorprendente album dei Cani
7. FeistMetals
8. Anna CalviAnna Calvi
9. Bon IverBon Iver
10. RadioheadThe king of limbs
11. VerdenaWow
12. Lisa HanniganPassengers

Bill Cunningham New York, Richard Press 2010

Bill Cunningham New York
di Richard Press, 2010

Bill Cunningham è un celebre fotografo del New York Times che, nel corso degli ultimi decenni, ha imposto il suo personalissimo stile diventando un punto di riferimento della cultura newyorkese e della fotografia di moda – anche perché ha contribuito a diffondere l’idea, ora sempre più riconosciuta, che la moda non stia sulle passerelle bensì sulla strada. Il coinvolgente documentario di Richard Press si concentra soprattutto sul paradossale rapporto tra la sua attività pubblica e la sua vita privata: l’ultrasettantenne Cunningham, che viene indicato come un’icona dall’intero mondo della moda, vive (o meglio viveva, ai tempi delle riprese) in un minuscolo appartamento nell’edificio della Carnegie Hall dove l’enorme archivio di tutte le sue foto mai scattate lascia appena il posto a una piccola branda, gira solo in bicicletta, si veste sempre nello stesso modo (il più pratico, a detta sua), conduce dunque un’esistenza quasi ascetica, comunque disinteressata all’universo bizzarro e colorato che rappresenta nelle sue foto. Nell’indagare le motivazioni di questo stile di vita, Press si tiene quasi sempre a una debita e rispettosa distanza, racconta la storia di Cunningham con un misto di ammirazione e tenerezza – ma alla fine tira un’inevitabile stoccata che, alla luce di quanto visto durante il film, apre uno spiraglio malinconico e doloroso sulla sua intera esistenza. Ma uno dei lati più interessanti del bel documentario riguarda il contrasto tra l’evoluzione inarrestabile della città di New York e la rigida inflessibilità del suo protagonista, che in un mondo digitalizzato e perfezionato si ostina a scattare foto con apparecchi analogici, cambiando rullini in corsa, scattando sulla sua bici verso il prossimo evento mondano, per poi sparire nel nulla, verso la sua rassegnata e sorridente solitudine.

Ho visto il film in un piccolo cinema di Akaroa, nel sud della Nuova Zelanda. Negli USA è uscito nel marzo 2010, mentre nel Regno Unito dovrebbe arrivare la prossima primavera. Al momento non sono a conoscenza di una data d’uscita italiana.

The Artist, Michel Hazanavicius 2011

The Artist
di Michel Hazanavicius, 2011

Ciò che mi ha davvero conquistato di The Artist, film muto in bianco e nero che negli ultimi mesi è diventato un vero “caso” (tanto da diventare uno dei favoriti per i Grossi Premi Americani del prossimo anno) è che funziona, benissimo, quasi a prescindere dall’impressionante ingombro del suo progetto. Il rischio di un film simile era, chiaramente, quello di un’operazione ironica che ammiccasse ai cinefili (non necessariamente agli “esperti”: agli amanti del cinema) dimenticando il pubblico, risultando velleitaria, presuntuosa o – peggio ancora – fredda e sterile. In verità Hazanavicius utilizza l’artificio insieme scaltro e coraggioso della riproduzione quasi-filologica del cinema degli anni del muto per restituire un’esperienza di un’onestà e di una semplicità semplicemente rinfrescanti; non mancano i pezzi di bravura, come la citatissima e irresistibile scena onirica in cui il sonoro “invade” il sogno di Valentin, ma il risultato è emozionante, autentico, quando non commovente – penso al montaggio parallelo che introduce la risoluzione finale, o alla sequenza meravigliosa in cui Bérénice Bejo si nasconde nel camerino di Valentin e ne abbraccia l’abito. La configurazione narrativa ricorda, per ovvie ragioni, quella di uno dei massimi capolavori del cinema americano, Singin’ in the rain, ed è difficile non pensare a Gene Kelly di fronte alla mimica e al corpo del favoloso Jean Dujardin, ma la bellezza di The Artist è proprio nella sua capacità di non trincerarsi dietro una facile nostalgia fine a se stessa, né per quella del muto nello specifico né per l’inevitabile mutamento che il cinema attraversa e continuerà ad attraversare lasciando alle spalle i detriti del passato: quella che vuole raccontare Hazanavicius è una storia d’amore e di orgoglio, di ossessione e di rinascita, che prescinda dai linguaggi con cui viene raccontata per andare dritta al cuore – ma mantenendo come perno inamovibile una passione vitale e travolgente per il cinema e per le sue storie.

#planewatched: The Help, The Beaver, Contagion

Come i più attenti avranno notato, a novembre sono stato via qualche giorno. Sono andato lontanuccio. E ho fatto dei lunghi, lunghissimi voli aerei. Durante i quali, a dire il vero, non avevo molta voglia di vedere film – infatti ne ho visti solo tre. Questi tre. La nota puntigliosa è che la qualità e la grandezza dello schermo permetteva una visione di discreta qualità, ma trattandosi di una condizione così peculiare (e non volendo più rimandare) per stavolta ho deciso di venir meno alla rigidità del format e di metterli tutti insieme.

The Help
di Tate Taylor, 2011

Il problema, nello scrivere di un film come The Help, è che i suoi elementi più interessanti stanno al di fuori del film; argomenti che non ho tempo, né voglia, di toccare qui. Per dirne uno: quanto c’è di veritiero, quanto di onesto, e quanto di sottilmente offensivo da un punto di vista storico-sociale nella storia della ragazza emancipata che aiuta le “governanti” di colore nel sud degli Stati Uniti a sfogare letterariamente gli ultimi (tra virgolette) retaggi dello schiavismo? Il film in sé, va detto, è assai meno stimolante delle polemiche che può suscitare, ma preso a sé stante funziona alla perfezione: si tratta di un “Oscar Movie” fatto e finito, ma è tenuto in vita per tutta la sua (notevole) durata dal suo eccezionale cast tutto al femminile, tra cui spiccano l’ottima Viola Davis (l’unica a recitare con un po’ di understatement, e infatti è la migliore del gruppo), un’adorabile Jessica Chastain e una fantastica Octavia Spencer, mentre Emma Stone per una volta risulta un po’ fuori posto. Bryce Dallas Howard spinge sul pedale dell’eccesso e della macchietta, finendo però per regalare un personaggio autenticamente irritante – ed è un complimento.

The Beaver
di Jodie Foster, 2011

Potrei ricopiare quanto ho scritto per The Help, e stavolta riguarderebbe, ovviamente, lo scontro tra attore e personaggio. Ma in questo caso il paratesto, diciamo così, fa parte del gioco: non c’è dubbio che la scelta di Jodie Foster di raccontare l’esaurimento nervoso di Mel Gibson alla luce delle vicende personali dell’attore contribuisca non poco a rinforzare il suo film – un dramma psicologico dalle venature bizzarre che riesce a riportare però, con il giusto dosaggio di ironia e patetismo, una trama quasi irraccontabile su binari sostanzialmente digeribili. Al minutaggio del film però non basta il ben definito e coinvolgente percorso di ascesa e caduta di un mostruosamente bravo Gibson, a cui affianca quindi quello del figlio Anton Yelchin, che occupa un buon terzo del film pur essendo del tutto accessorio – se si esclude la solita, incredibile Jennifer Lawrence.

Contagion
di Steven Soderbergh, 2011

Non ho certo visto tutti i film di Steven Soderbergh, scaltro e altalenante regista per cui – lo ammetto – non provo particolare simpatia, ma ho l’impressione che Contagion possa davvero essere il suo film migliore. La cosa certa è che si tratta di uno dei thriller migliori dell’anno: un’Apocalisse sanitaria orchestrata con classe e cinismo, accompagnata dalla colonna sonora perfetta di Cliff Martinez (in stato di grazia, tra questa e quella di Drive) che sfrutta alla perfezione gli elementi base della paura del contagio e un cast assurdamente ricco – spezzando però la più tradizionale coralità: i personaggi non si incontrano quasi mai tra di loro, sono perlopiù isolati, perduti o disperati, quando non propriamente vittime del sadismo del regista. La grande differenza che rende ancora più efficace Contagion è che qui non è “l’errore umano” a scatenare il contagio, ma un’incontro tra il Caso e il sistema globale – un incontro che ci scopre molto più fragili di quanto pensiamo, al di là della nostra scienza e della nostra volontà. Soderbergh non nasconde di fatto un certo interesse per una riflessione quasi satirica (la burocrazia farmaceutica, lo sgradevole blogger di Jude Law) ma il suo interesse è altrove, concentra tutte le sue energie sulla messa in scena, e il risultato è un horror teso ed entusiasmante, con un finale che è uno schiaffo in faccia, una risata beffarda e un presagio oscuro.

L’alba del Pianeta delle Scimmie (Rise of the Planet of the Apes), Rupert Wyatt 2011

L’alba del Pianeta delle Scimmie (Rise of the Planet of the Apes)
di Rupert Wyatt, 2011

L’ultima volta che qualcuno ha provato a riportare la saga di Planet of the Apes al cinema, lo sappiamo, non è andata nel migliore dei modi: il film di Tim Burton uscito ormai 10 anni fa, un blockbuster cupissimo e non proprio equilibrato, ebbe (in pochi lo ricordano) un enorme successo commerciale, ma venne anche universalmente (e spesso ingiustamente) maltrattato – e i fan più intransigenti del regista non gliel’hanno mai perdonato. Questo reboot, che prende lontanamente spunto da alcuni capitoli della saga originale, cerca di riportare, non con un prequel ma con una compiuta “storia delle origini” su cui impiantare una nuova serie, l’interesse del pubblico sulla storia della conquista della Terra da parte dei primati, proprio allontanandola da velleità (e aspettative) autoriali; e riuscendo in definitiva nell’impresa non facile di confezionare un film avvincente e intelligente capace di accontentare pubblico e critica. Parte di questa riuscita la si deve ovviamente all’evoluzione tecnologica che permette al film di Wyatt di essere anche una sorta di showcase della Weta, esemplificazione strabiliante dello stato dell’arte per quanto riguarda l’integrazione tra live action e CGI; ma è proprio nell’interpretazione (epocale, nel suo ristretto genere) del solito Andy Serkis che si trova la chiave del successo dell’operazione: a costo di non essere certo esente da qualche ingenuità, Rise è un film che nel turbinio dell’azione hollywoodiana e della meraviglia binaria non dimentica mai di curare e accarezzare il suo lato umano. Anche se ha le fattezze di uno scimpanzé.

30 minutes or less, Ruben Fleischer 2011

30 minutes or less
di Ruben Fleischer, 2011

Il secondo film di Ruben Fleischer nasceva sotto i migliori auspici: la sua opera prima Zombieland era stata una delle commedie horror più sorprendenti degli ultimi anni; il cast comprendeva non soltanto lo stesso Jesse Eisenberg, ormai lanciatissimo, ma anche un talento comico indiscusso (e in netta ascesa) come Aziz Ansari oltre all’ormai irrinunciabile Danny McBride; e il plot sembrava rifarsi approssimativamente al modello dell’ottimo Pineapple Express di David Gordon Green. Purtroppo 30 Minutes or Less, nonostante sia un film sufficientemente gradevole e davvero ben realizzato, stenta a spiccare sulla media e sembra accontentarsi di un minimo sindacale di divertimento. Gli si riconosce il merito di voler tagliare davvero corto (il film dura circa un’ora e 20, ma sembra persino più breve) senza tirarla per le lunghe come spesso accade nella commedia americana odierna, ma per quanto riguarda il disegno dei personaggi la cosa non va del tutto a suo vantaggio, e al di sotto del ben calibrato mix di generi e della bravura degli interpreti mancano completamente il carattere e l’inventiva che avevano reso così indimenticabile l’opera precedente di Fleischer. La questione Danny McBride è più particolare: la star della magnifica serie Eastbound and down subisce un deciso calo di carisma e interesse se si priva il suo personaggio-stampino ignorante e vanaglorioso (con tanto di spalla) ogni accenno di redenzione, trasformandolo di fatto in un villain vero e proprio. E questa sottile ma radicale differenza toglie al film un’ambiguità morale che, forse, gli avrebbe giovato.

Il film dovrebbe uscire anche in Italia con WB, prima o poi.