The Artist
di Michel Hazanavicius, 2011
Ciò che mi ha davvero conquistato di The Artist, film muto in bianco e nero che negli ultimi mesi è diventato un vero “caso” (tanto da diventare uno dei favoriti per i Grossi Premi Americani del prossimo anno) è che funziona, benissimo, quasi a prescindere dall’impressionante ingombro del suo progetto. Il rischio di un film simile era, chiaramente, quello di un’operazione ironica che ammiccasse ai cinefili (non necessariamente agli “esperti”: agli amanti del cinema) dimenticando il pubblico, risultando velleitaria, presuntuosa o – peggio ancora – fredda e sterile. In verità Hazanavicius utilizza l’artificio insieme scaltro e coraggioso della riproduzione quasi-filologica del cinema degli anni del muto per restituire un’esperienza di un’onestà e di una semplicità semplicemente rinfrescanti; non mancano i pezzi di bravura, come la citatissima e irresistibile scena onirica in cui il sonoro “invade” il sogno di Valentin, ma il risultato è emozionante, autentico, quando non commovente – penso al montaggio parallelo che introduce la risoluzione finale, o alla sequenza meravigliosa in cui Bérénice Bejo si nasconde nel camerino di Valentin e ne abbraccia l’abito. La configurazione narrativa ricorda, per ovvie ragioni, quella di uno dei massimi capolavori del cinema americano, Singin’ in the rain, ed è difficile non pensare a Gene Kelly di fronte alla mimica e al corpo del favoloso Jean Dujardin, ma la bellezza di The Artist è proprio nella sua capacità di non trincerarsi dietro una facile nostalgia fine a se stessa, né per quella del muto nello specifico né per l’inevitabile mutamento che il cinema attraversa e continuerà ad attraversare lasciando alle spalle i detriti del passato: quella che vuole raccontare Hazanavicius è una storia d’amore e di orgoglio, di ossessione e di rinascita, che prescinda dai linguaggi con cui viene raccontata per andare dritta al cuore – ma mantenendo come perno inamovibile una passione vitale e travolgente per il cinema e per le sue storie.
A me è parso all’opposto una futile – anche se sincera – operazione nostalgia da e per chi il muto non sa cosa sia. Sarà che sono troppo innamorato di Murnau, Lang e Dreyer per apprezzare un ammiratore tardivo di Buster Keaton.