febbraio 2012

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Like Crazy, Drake Doremus 2011

Like Crazy
di Drake Doremus, 2011

La bella e giovane londinese Anna incontra Jacob a Los Angeles, si innamora perdutamente (e misteriosamente, ndr), passa con lui l’estate violando la scadenza del suo visto; così, dopo il suo ritorno in Inghilterra, le viene impedito l’accesso negli Stati Uniti. I due dovranno decidere se restare insieme nonostante l’obbligata distanza – e soprattutto a quali patti. Lo scopo di Doremus è quello di restituire spontaneità e naturalezza al cinema romantico con le armi più affilate del cinema indipendente: racconta una storia autobiografica, gira a bassissimo budget con una reflex della Canon da duemila dollari, affida gran parte dei dialoghi all’improvvisazione – conquistando, anche in questo modo, i favori della critica e della giuria del Sundance che gli assegna il Gran Premio. Purtroppo dietro i trucchetti esperti del filmmaker c’è poca, pochissima sostanza: nonostante una conclusione che possiede una sua strana, malinconica quanto deprimente coerenza, Like Crazy è un film di una banalità sconcertante, terribilmente noioso (un’impresa arrivare alla fine dei suoi 90 minuti scarsi), a tratti persino irritante nella sua malcelata presunzione, che fallisce già di partenza nel ritratto dei suoi due innamorati, il cui comportamento totalmente sciocco e irresponsabile ha ben poco a che fare con la cecità amorosa (più con il fatto che sono sciocchi e irresponsabili in prima battuta) e con cui è quindi davvero difficile se non impossibile immedesimarsi. E non basta qualche idea già vecchia buttata qua e là (come i time-lapse) per nascondere il fatto che la regia di Doremus sia completamente assente, nel migliore dei casi. Allo stesso modo, per definizione, gli attori sono lasciati a briglia sciolta; Jennifer Lawrence e tutti i personaggi secondari sono solo figurine abbozzate in funzione dei due protagonisti, Anton Yelchin è spaesato, fuori ruolo e sembra quasi sempre che stia provando la sua parte per la prima volta; Felicity Jones, invece, se la cava piuttosto bene: quasi dispiace vederla in questi panni, sostanzialmente sprecata.

La fuga di Martha (Martha Marcy May Marlene), Sean Durkin 2011

La fuga di Martha (Martha Marcy May Marlene)
di  Sean Durkin, 2011

Dopo molti mesi passati in una comune-setta tra le montagne dell’Upstate, la giovane Martha riesce a trovare il coraggio di fuggire e trova rifugio nella casa di villeggiatura della benestante sorella Lucy, con cui aveva troncato ogni rapporto prima di partire. Ma liberarsi dei segni lasciati dagli abusi e dal lavaggio del cervello non sarà affatto semplice.

Presentato lo scorso anno al Sundance, dove ha vinto il premio per la miglior regia, l’esordio dell’ottimo Sean Durkin si muove su opposizioni ben note al cinema indipendente americano, ma da un certo punto in poi sembra ispirarsi (anche visivamente) più alla tensione chirurgica di Haneke, trasformando verso la fine in una sorta di thriller in levare quello che sembrava essere solo un dramma psicologico e violento sulla dissoluzione della società borghese. Il film utilizza la narrazione a flashback in modo costante, preciso e molto intelligente, rivelando soltanto gradualmente – e soltanto quando è necessario per lo svolgimento della trama – ciò che è accaduto a Martha durante il suo soggiorno nella casa; peccato che Durkin finisca per segnare con eccessiva chiarezza i confini e le distanze tra i due mondi, osservando la vita nella setta con un distacco che forse ci impedisce di comprenderne del tutto il fascino nella fragile psiche di Martha. Ma si tratta di un limite ben circoscritto all’interno di un’opera prima intensa e dolente, a tratti spietata e terrificante, con una bella fotografia inquietante e un cast perfetto.

E il merito maggiore del film è stato indubbiamente presentare al mondo la bellissima e sorprendente Elizabeth Olsen: sorella minore di due celebri gemelle della tv, illumina il film con un’interpretazione sofferta e davvero memorabile. Una delle più belle rivelazioni del cinema americano dello scorso anno.

Il film esce nelle sale italiane il 25 maggio 2012.

L’edizione in dvd americana (Regione 1) è uscita in questi giorni.

I Muppet, James Bobin 2011

I Muppet (The Muppets)
James Bobin, 2011

Quale che sia l’origine produttiva del nono lungometraggio dei Muppet, il primo dopo 12 anni, appare evidente che si tratti, in definitiva, di un capriccio di Jason Segel. Scritto proprio dall’attore insieme al sodale Nicholas Stoller, il film è infatti l’occasione per sfoggiare molte delle ossessioni di Segel, prima di tutto quella per il musical (la bellissima Man Or Muppet non poteva che vincere un Oscar, anche se non è l’unica canzone meritevole d’attenzione) ma anche per il suo personale stile recitativo – una sorta di “figlio perbene” della famiglia di Judd Apatow da cui effettivamente proviene. Segel, dal canto suo, sembra divertirsi come un pazzo, e il modo con cui ha seguito la genesi e la promozione del film non è che una conferma della sua travolgente passione per il progetto. Per nostra fortuna, tutto questo entusiasmo si sposa alla perfezione con il mondo dei pupazzi creati da Jim Henson e ancora di più con la coloratissima e impeccabile co-produzione della Disney, che possiede i Muppet Studios dal 2004. La trama del film è il più classico e oliato dei canovacci (per salvare il loro teatro di posa, i Muppet devono “rimettere insieme la banda” e raccogliere una somma di denaro) ma la sua deliberata e quasi ricercata ingenuità è compensata dalla quantità e dalla qualità delle invenzioni visive, narrative, musicali, dalle apparizioni numerosissime e spesso irresistibili (Jim Parsons, Donald Glover, Feist, Dave Grohl) e più in generale da una pulsante necessità, più inusuale e aliena di quanto sembri, di mettere il proprio pubblico a suo agio, di farlo stare bene; magari coccolandolo in una bambagia di nostalgia e zucchero filato ma, permettetemi di dirlo, il fine giustifica i mezzi.

Mee mee mee mee.

War Horse, Steven Spielberg 2011

War Horse
di Steven Spielberg, 2011

Pur nel contesto bellico di uno dei più drammatici spartiacque della storia dell’umanità, quella tra Albert e il cavallo Joey è di fatto una storia d’amore. Un amore travolgente e a prima vista, capace di volare sulle ceneri della fine del mondo saltando di trincea in trincea, di perdersi e ritrovarsi sfidando il caso con la potenza magica del sogno e, perché no, della speranza. In fondo i “buoni sentimenti” che il film veicola e che, come spesso accade nel cinema di Spielberg, possono trarre in inganno se isolati dal contesto, non sono che una reazione davvero violenta e incisiva a una Storia tutt’altro che gentile, sono l’ultimo baluardo che ci permette di rimanere umani. Spielberg racconta l’ennesima storia sulla perdita dell’innocenza – che non torna a casa con i sopravvissuti, no, lei rimane nelle trincee vuote, e nell’accampamento violato tra decine di cavalli sacrificati – rimettendosi ancora una volta allo stupore di fronte alla bellezza del mondo, unica arma contro la corruzione dello spirito. E utilizzando il cavallo e la sua imperitura e testarda grazia, quasi più che come metafora, come perno narrativo di un’epica profondamente e deliberatamente inattuale, di una messa in scena spettacolare e di uno stile fiammeggiante che si rifanno ai classici, tra silhouette stampate su tramonti rosso fuoco e commoventi dolly che aprono lo sguardo su pianure e colline destinate a diventare terra bruciata. Facile storcere il naso di fronte a un’operazione così meravigliosamente anacronistica, ma la verità è che Spielberg qui è davvero all’apice della sua forma: usando la rarità e il coraggio di essere “gentili” come motore pulsante della storia, riesce sempre a regolare i toni di un racconto assolutamente lineare eppure ambizioso e complesso per come moltiplica le storie e i personaggi con una sapienza magistrale (basti pensare a come si alternano l’intensa sequenza della fuga di Joey nella terra di nessuno a quella, così lieve eppure così terribilmente sublime, della sua liberazione da parte dei due soldati nemici) ma sa anche regalare momenti di cinema semplicemente grandissimo, bilanciando con professionalità inattaccabile (coadiuvato dai soliti Williams, Kaminski e Kahn) l’istinto innato alla grandiosità e il pudore di fronte al dolore e alla morte. Ovviamente è necessaria una certa predisposizione: ma del resto, non è necessaria per qualunque film? War Horse , nella sua spudoratezza, nella sua vigorosa e virulenta emozione, è un film sostanzialmente perfetto.

Tyrannosaur, Paddy Considine 2011

Tyrannosaur
di Paddy Considine, 2011

Uno dei più interessanti volti del cinema inglese degli ultimi anni si sposta dietro la macchina da presa ed esordisce alla regia con un film che, come davvero pochi altri in tempi recenti, riesce a mettere a dura prova lo spettatore; l’incipit, in cui il protagonista uccide con un calcio in uno scatto d’ira il suo amato cane, vale quasi come una dichiarazione d’intenti: nel mondo di Tyrannosaur non ci sono semplici scappatoie, tra le strade di un’Inghilterra abbandonata da Dio e dal mondo la redenzione non si vende mai a buon mercato. L’incontro e l’amicizia tra un vedovo alcolizzato con il vizio del gioco e una caritatevole commerciante cristiana è per entrambi una rivelazione che però non fa sconti, illuminando fiocamente la misantropia nichilista e rassegnata del primo ma spalancando allo stesso tempo sotto i piedi della seconda una voragine ancora più profonda e cupa. Il percorso di Joseph e Hannah verso la consapevolezza della propria disperata condizione, e della strada verso la salvezza, è di conseguenza tra i più autenticamente sofferti e che si possano immaginare; Considine reinterpreta con micidiale lucidità i concetti di pietà e giustizia alla luce di una follia che sembra aver divorato la periferia del mondo, e sceglie di raccontare la violenza, psicologica e poi fisica, a tratti quasi indicibile, con un distacco a tratti impressionante, ma che non rende il suo Tyrannosaur meno intenso e umano – anche grazie alla bellissima fotografia di Erik Wilson (lo stesso di Submarine) e soprattutto alla bravura di Peter Mullan e Olivia Colman, davvero fuori dal mondo. Un film spaventosamente bello e doloroso.

Il film è stato presentato al Sundance 2011, dove Considine Mullan e Colman hanno vinto un premio a testa, e ha vinto il BAFTA come miglior debutto britannico dell’anno.

Nel Regno Unito è uscito lo scorso ottobre, in Italia è passato a Roma ma al momento non mi risulta sia prevista un’uscita nelle nostre sale. Il dvd inglese è già in vendita.

In Time, Andrew Niccol 2011

In Time
di Andrew Niccol, 2011

“Don’t waste my time.”

Una delle costanti del cinema di Andrew Niccol in passato, se si esclude il ben differente (e deludente) caso di Lord of War, è stata l’esasperazione di tematiche contemporanee nella forma di rappresentazioni distopiche, più o meno futuristiche: le minacce eugenetiche di Gattaca (tutt’oggi il suo film più bello), la digitalizzazione e/o morte del cinema nel sottovalutato S1m0ne, senza dimenticare la sceneggiatura di un capolavoro come The Truman Show di Peter Weir. In questo suo ultimo film Niccol parte da una brillante idea fantascientifica – compiuti i 25 anni non invecchi più ma devi guadagnarti il resto del tempo, divenuto unica moneta corrente – per rappresentare una sorta di satira delle diseguaglianze economiche che parte appunto dall’ossessione per la conservazione del corpo: perché gli esseri umani non sono tutti 25enni, ma sono anche (quasi) tutti belli o bellissimi. Il problema è che Niccol è bravo a mettere i pezzi al loro posto – e gli si riconosce il merito di essersi ostinato a fare “l’autore” all’interno del genere, almeno fino a questo film – ma decisamente meno a suo agio quando si tratta di mettere in moto la partita. La sceneggiatura compiaciuta ma involuta è senza dubbio l’aspetto più deludente del film (quanti altri giochi di parole sul lemma “time” possono esserci nei dialoghi di un film che si intitola in questo modo?) e né la cura spettacolare dell’apparato visivo, con il grande Roger Deakins alla fotografia, né l’insistenza di Niccol a giocare in modo divertito e inquietante con il paradosso (“queste sono mia suocera, mia moglie e mia figlia”) bastano ad allontanare la sensazione di meccanicità, o meglio ancora di massacrante pigrizia. Più che una partita a scacchi è una pista di macchinine già montata, di cui conosciamo non solo la destinazione ma la forma del tracciato. Delle riflessioni ambiziose sul presente che Niccol nascondeva dietro la sua apparente freddezza analitica qui non è rimasto molto: gli spunti sono assenti oppure, peggio ancora, sbattuti in faccia allo spettatore; per il resto rimane un luccicante e a tratti incantevole involucro vuoto – allo stesso modo in cui gli attori, di folgorante bellezza e fascino, vengono lasciati a sé stessi, a vagare imbambolati sulla scena.

L’arte di vincere (Moneyball), Bennett Miller 2011

L’arte di vincere (Moneyball)
di Bennett Miller, 2011

Il film sul baseball, si sa, vogliono sempre dire un’altra cosa. La vera distinzione è semmai tra i film comprensibili a chiunque passi di lì (il primo esempio che mi viene in mente è L’uomo dei sogni, che infatti è un capolavoro), quelli in cui la comprensione è desiderata ma non necessaria (Bull Durham, per dirne uno) e quelli che chiedono obbligatoriamente un’infarinatura delle regole dello sport*. Estendendo la richiesta ben oltre il formulario del gioco sul campo, Moneyball rientra in quest’ultima categoria, pur se è ben chiaro dove voglia andare a parare e quale sia la metafora di turno. Vantaggioso per la qualità dell’ottima sceneggiatura (a cui Aaron Sorkin ha contribuito, immagino senza metterci granché di suo), uno script intelligente che non vuole certo perder tempo in spiegazioni – perché quella sul baseball è una conoscenza nazionale condivisa, ergo data per scontata – ma un po’ meno per il povero cristo che del manuale del baseball è arrivato a pagina tre, come il sottoscritto. Ciò detto, messi da parte tutti i dialoghi e i passaggi che per colpa di un’eventuale scarsa conoscenza (più che delle regole in sé, intendo del sistema cognitivo e sociale che regola il baseball negli states, quello che Billy Beane è andato a intaccare) non si è riusciti a decifrare, resta una storia di riscatto personale e seconda possibilità tanto ben realizzata quanto prevedibile, diretta da Miller in modo pressoché invisibile quando non piatto, ben congegnata ma in definitiva non proprio stimolante. L’aspetto più interessante di Moneyball sta nel paradosso per cui l’applicazione di una cosa fredda come la matematica fa risaltare l’umanità delle sue parti, ma non si può dire che l’esperimento si rispecchi in modo compiuto nel film; la formidabile performance di Brad Pitt contribuisce a rendere il film più appassionante, ma non a renderlo meno inoffensivo.

*considerazioni iniziali suggerite da un thread su Facebook di UdP, che ringrazio

Mission: Impossible – Protocollo Fantasma, Brad Bird 2011

Mission: Impossible – Protocollo Fantasma (Mission: Impossible – Ghost Protocol)
di Brad Bird, 2011

I film ispirati alla serie tv Mission: Impossible sono stati sempre caratterizzati da un approccio curioso, e piuttosto inusuale per i cosiddetti blockbuster, per il quale a una costante produttiva (Tom Cruise, Paramount) si è accostata una variabile artistica rappresentata dalla “firma forte” dei registi coinvolti: Brian De Palma, John Woo e J.J.Abrams hanno trasferito di volta in volta nei film precedenti la loro poetica in modo molto evidente, ma è stato forse l’incontro tra quest’ultimo e Cruise a segnare un cambio di rotta.

L’arrivo di Brad Bird dietro la macchina da presa, sempre sotto l’egida della Bad Robot di Abrams, riporta infatti l’attenzione sul puro entertainment, allontanandosi da ambizioni autoriali per abbracciare in toto la ricchezza produttiva: in tal senso, Ghost Protocol risulta forse il meno personale dei quattro film, il meno originale, peculiare e riconoscibile; ma d’altra parte è indubbiamente il più onesto, e forse persino il più divertente: non è un caso la scelta di Bird, che in passato ha sfornato due capolavori dell’animazione ma all’interno di una struttura davvero industriale (pur se illuminata) com’è la Pixar. Qui il regista di Gli Incredibili e Ratatouille se ne sta infatti perlopiù schiscio, tirando fuori il cuore soltanto quando non te lo aspetti più – cioè, negli ultimi 5 minuti.

La scelta ha ripagato immediatamente: quasi 600 milioni di dollari incassati su un budget di circa 150 ne hanno fatto il più redditizio della saga. Ma tolta di mezzo la curiosità stilistica, qual è il punto di forza di questo quarto capitolo? Prima di tutto, il cast: certo, Tom Cruise si prende ovviamente il grosso della torta, ma Jeremy Renner è una spalla action perfetta e merita la nomea di co-protagonista; Paula Patton è meno immediatamente irresistibile di una Thandie Newton, ma alla fine porta a casa una prova assai convincente; infine Simon Pegg, promosso in tutti i sensi rispetto al terzo capitolo, è un comic relief che per una volta funziona a dovere, supportato da dialoghi adeguati (i due autori della sceneggiatura, come al solito terribilmente intricata, vengono da AliasHappy Town) che a volte giocano con i cliché della saga e più in generale dell’action spionistico (“Il conto alla rovescia non è d’aiuto”, “La prossima volta il riccone lo seduco io”) ma anche con la consapevolezza del pubblico – nonostante spesso si scelga semplicemente di fidarsi della cara, vecchia, sana sospensione dell’incredulità.

Perché con la giusta dose di ingenuità spettatoriale, sequenze come quella del Burj Khalifa di Dubai o quella nel parcheggio automatico verso la fine del film sono in assoluto le cose più clamorosamente spassose che vi capiterà di vedere questa stagione: roba da saltare sulla sedia e battere i piedini, e senza nemmeno bisogno di mettersi un paio di occhiali. Se invece non state al gioco, si fa presto: nella sala accanto proiettano un altro film. Dopotutto, mica si chiama Missione Plausibile.

A Very Harold & Kumar 3D Christmas, Todd Strauss-Schulson 2011

A Very Harold & Kumar 3D Christmas
di Todd Strauss-Schulson, 2011

Sono passati sette anni dal primo film di Harold & Kumar, tre dal secondo. Nel frattempo, così come John Cho e Kal Penn sono andati avanti con la loro carriera (il primo con Star Trek e Flashfoward, il secondo con House, la Casa Bianca e How I met your mother), anche i due personaggi hanno preso strade diverse; inoltre, il budget è duplicato ed è arrivato il trend del 3D a dare il La a un terzo capitolo. Che fa infatti molta leva sull’effetto: innumerevoli gli oggetti liquidi e solidi lanciati verso il pubblico, e non a caso il primo di essi è un anello di fumo.

Ma al di là di queste gag (che si perdono inevitabilmente nella visione casalinga), la carta vincente di A Very Harold & Kumar 3D Christmas è che si tratta in tutto e per tutto di un “film natalizio” con tanto di intervento di Santa Claus e messaggio edificante – Harold e Kumar erano inseparabili, si sono persi di vista, riscoprono la loro amicizia spinti dallo spirito delle feste – ma i suoi singoli elementi, ovviamente, non potrebbero essere più distanti dal canone del film di Natale, tra cannoni magici, vendicativi gangster ucraini con figlie vergini ninfomani, Patton Oswalt spacciatore vestito da Babbo Natale, e una povera bambina trasformata dalle circostanze in una tossicodipendente. Il gioco, nella buona tradizione della stoner comedy, è sempre lo stesso: portare alle estreme conseguenze le premesse iniziali (un prezioso albero di Natale da sostituire per accontentare Danny Trejo, l’aggressivo suocero di Harold) spingendo senza troppi freni sul tasto del politically incorrect, ma grazie alla bravura e alla simpatia dei due protagonisti (che sono attori veri: per il genere non è una cosa scontata) la “saga” riesce a conservare, pur nella sua deliberata e rovinosa scempiaggine, una sua evanescente ma irresistibile umanità.

Non poteva mancare Neil Patrick Harris nel ruolo di se stesso – o meglio, del NPH alternativo della serie, donnaiolo e drogatissimo: non era morto, si è fatto cacciare dal paradiso da Gesù in persona, e stavolta gioca con il suo recente coming out coinvolgendo persino il suo compagno David Burtka nell’ennesima favolosa auto-parodia.

Il film è uscito negli USA lo scorso novembre, nel Regno Unito a dicembre. A naso, non lo vedremo nelle sale italiane: per dire, “Harold & Kumar Escape from Guantanamo Bay” da noi non è mai uscito, nemmeno in dvd.