marzo 2012

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Biancaneve (Mirror Mirror), Tarsem Singh 2012

Biancaneve (Mirror Mirror)
di Tarsem Singh, 2012

Se c’è una cosa che ti puoi aspettare da un film di Tarsem, è l’inventiva scenografica che ha caratterizzato tutta la sua carriera, prima musicale e pubblicitaria e poi cinematografica. In realtà nel suo quarto film, ispirato alla favola dei Grimm, i cui elementi vengono “rimescolati” più che reinventati, questa impronta è limitata a una sola vera invenzione à la Tarsem, violazione delle leggi della fisica inclusa (lo specchio magico) e sostituita perlopiù dal lavoro dell’art department e della straordinaria costumista giapponese Eiko Ishioka, scomparsa da un paio di mesi e a cui il film è doverosamente dedicato.

La differenza sta tutta lì: come ai barocchismi si sostituiscono scenografie sontuose e abiti spettacolari, così la messa in scena è tutt’altro che fiammeggiante e risulta al contrario priva di vita, sterilizzata da fondali asettici e dall’eccessiva importanza del set rispetto alle istanze di regia. Dopotutto, stiamo parlando di un film asciugato di qualunque autentica inquietudine e unicamente volto a un innocuo anche se – ammettiamolo – gradevolissimo divertimento (al di là del giudizio assoluto, come live action cartoon non fa mezza piega), un film per cui vale la pena di estrarre dallo sgabuzzino l’espressione “per tutta la famiglia”: aspetto indiscutibile che se lo rende potenzialmente appetibile per qualunque fascia d’età, allo stesso tempo ne fa un film straordinario per nessuna di esse.

Mirror Mirror è infatti pieno di idee dall’enorme potenziale che però funzionano per poco, o solo fino a un certo punto: come i sette nani, simpatici ma per nulla memorabili, oppure le diverse meta-riflessioni sul mondo delle fiabe che non vanno molto oltre quanto già detto da Shrek e dai suoi innumerevoli epigoni – anche se tutta la riappropriazione dell’indipendenza eroica di Biancaneve, per quanto sbattuta in faccia al pubblico, è decisamente interessante. Il meglio lo darebbe Julia Roberts, ferocemente brava nel ruolo della stronza (un peccato perdersela in lingua originale), se non fosse che tutta la prima parte del film è troppo concentrata su di lei e sulla mansueta perfidia del suo battutario; molto meglio la seconda, in cui la protagonista diventa Lily Collins – che è una gran bella scoperta: deliziosa e perfetta per il ruolo, non le si chiede granché ma lo fa alla grande.

Nei cinema dal 4 aprile 2012

Sound of Noise, Ola Simonsson e Johannes Stjärne Nilsson 2010

Sound of Noise
di Ola Simonsson e Johannes Stjärne Nilsson, 2010

Amadeus è nato in una famiglia di grandi musicisti, ma è completamente privo d’orecchio e così è stato costretto a diventare un poliziotto. La sua carriera e il suo fastidio nei confronti della musica vengono messi alla prova da una banda di batteristi anarchici la cui missione criminale è trasformare la città (i suoi oggetti e i suoi luoghi, ma non solo) in una performance senza precedenti, allo scopo di liberarla dalla sua bruttura musicale.

Pur essendo tratto da un cortometraggio del 2001, diretto dagli stessi autori, in cui i batteristi “suonavano” le diverse stanze di un appartamento, non si tratta di un  pretestuoso allungamento. Al contrario, con uno stile assolutamente esaltante, un’ironia formidabile e (va da sé) uno spaventoso senso del ritmo, Simonsson e Nilsson sono riusciti a trasformare la brillante ma ovviamente limitata trovata originaria in un vero film, con una vera storia, personaggi autentici e un’idea di cinema tanto precisa quanto allegramente delirante. Il risultato è uno dei film più bizzarri, elettrizzanti e divertenti del cinema europeo recente, un’irresistibile operetta anti-musicale che funzionerebbe anche soltanto come spassosa e irriverente parodia o rilettura del film di rapina se non fosse un vibrante e allucinato manifesto di ribellione surrealista.

Un film talmente anomalo (e talmente figo) che non sono nemmeno sicuro di averlo visto sul serio. L’unica soluzione: vederlo un’altra volta.

Il corto originario di Simonsson e Nilsson si intitola “Music for One Apartment and Six Drummers” e potete vederlo interamente qui su Vimeo.

Presentato alla Semaine di Cannes nel 201o e in Svezia nel Natale dello stesso anno, “Sound Of Noise” è uscito un po’ ovunque. Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

L’edizione dvd svedese ha i sottotitoli inglesi.

 

Happythankyoumoreplease, Josh Radnor 2010

Happythankyoumoreplease
di Josh Radnor, 2010

Scritta durante le riprese delle prime due stagioni di How I Met Your Mother e presentata al Sundance nel 2010 (dove ha vinto il premio del pubblico), l’opera prima di Josh Radnor rispecchia una personalità non del tutto dissimile da quella del suo più noto alter ego televisivo Ted Mosby, ed è un’ennesima variazione sul tema dei trentenni in colpevole o involontario ritardo sull’età adulta.

Il protagonista, interpretato ovviamente dallo stesso Radnor, è uno scrittore messo di fronte alle sue responsabilità dopo aver accolto in casa un orfano incontrato in metropolitana e dopo essersi preso una cotta per Mississippi, una barista del Mississippi; la sua migliore amica Annie (Malin Akerman), malata di alopecia, nasconde le sue insicurezze dietro un’ottimistica esuberanza; la cugina Mary Catherine (Zoe Kazan) non riesce a mettere una cornice precisa al suo lungo rapporto col fidanzato Charlie. In sintesi, i personaggi condividono un’inquietudine comune: la difficoltà e la paura di essere amati.

Radnor, regista piuttosto modesto ma sceneggiatore abile e scaltro, modera l’inevitabile banalità che le storie e il contesto newyorkese si portano dietro con un indiscutibile talento per i dialoghi, e bilancia in modo gradevole la sua (ricercata) ingenuità con un pizzico di presunzione che si riscontra in alcune frasi e scene “a effetto”. Ma in fin dei conti la sua fiduciosa e spudorata gentilezza non lascia indifferenti, anche perché può contare sul notevole rinforzo di un ottimo gruppo di attori – tra cui inevitabilmente spicca la Akerman, ma anche la Kazan: due facce così valgono da sole mezzo film.

Il film non è mai arrivato in sala in Italia e non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

Update: il film non è uscito in sala né in dvd ma come mi fa gentilmente notare Luca una versione italiana del film esiste eccome, nel listino del canale satellitare Mya. Per la cronaca, dovrebbe andare in onda il prossimo 6 aprile.

L’edizione dvd britannica, d’altro canto, costa pochi euro.

La colonna sonora prodotta dagli stessi curatori di “How I Met Your Mother” include molti brani della cantautrice Jaymay ma anche pezzi di band come Shout Out Louds, Cloud Cult e Blind Pilot. Potete sentirli tutti qui.

Il secondo film scritto, interpretato e diretto da Radnor si intitola “Liberal Arts” ed è stato presentato a gennaio, sempre al Sundance. Accanto a lui stavolta c’è Elizabeth Olsen.


Life Without Principle, Johnnie To 2011

Life Without Principle (Dyut meng gam)
di Johnnie To, 2011

Una delle cose che mi piacciono di più in Johnnie To è il suo essere del tutto riconoscibile anche quando gira film diversi dai suoi film più famosi, in particolare quei gangster movie che l’hanno reso uno degli autori più amati del cinema di Hong Kong e tra i quali ci sono alcuni dei massimi esempi del genere degli ultimi 15 anni. Life Without Principle è un film dalla struttura più complessa e intricata che fa incrociare con abilità e ironia tre storie sulla “crisi economica” apparentemente separate (un poliziotto restio ad aprire un mutuo per comprare una casa con la fidanzata, un malvivente di mezza tacca costretto a trovare soldi per pagare la cauzione al suo “fratello di sangue”, una giovane e frustrata impiegata di banca) e accomunate da due denominatori narrativi ben precisi: una sacca piena di denaro e il crollo della borsa, che diventa il pretesto e l’avvisaglia di un’inarrestabile decadenza morale, con i personaggi costretti a venir meno ai “princìpi” del titolo (etica, onestà, amicizia) pur di sopravvivere in un mondo allo sbando. Ma nonostante la gravità del tema, To racconta e mette in scena con una leggerezza che si avvicina più alla commedia che al noir – anche se di fronte al suo cinema non ha poi così senso la riduzione alle convenzioni: Life Without Principle è l’ennesimo esempio di un autore che si è impossessato dei generi e poi li ha superati, con una libertà assoluta e a volte persino straniante. Basti come esempio tutta la parte dedicata all’impiegata interpretata da Denise Ho: mezz’ora di film ambientata quasi unicamente in un minuscolo ufficio, una parte la cui apparente inconcludenza si rivela gradualmente necessaria sia per gli sviluppi della storia che per le tematiche del film. Che in definitiva si rivela cinico e allegramente disilluso come il mondo che ha dipinto e temporaneamente minacciato: l’ineluttabilità delle conseguenze delle nostre azioni per mano del fato o del karma non è che un ricordo del passato.

Il film, se ho ben capito, è nel listino 2012 di Fandango. Prima o poi uscirà?

L’edizione honhkonghese (regione 3) si trova su Yesasia.

The Myth of the American Sleepover, David Robert Mitchell 2010

The Myth of the American Sleepover
di David Robert Mitchell, 2010

“It’s a myth. Being a teenager. They trick you into giving up your childhood with all these promises of adventure. But once you realize what you lost, it’s too late. You can’t get it back.”

Periferia di Detroit, ultimo weekend estivo prima che inizi la high school. Le ragazze organizzano “sleepover”. I ragazzi pure, ma si vergognano a chiamarli così. Rob incontra una bionda al supermercato e passa tutta la sera a cercarla e schivarla, senza accorgersi che qualcuno è da tempo innamorato di lui. Maggie è improvvisamente sbocciata, a differenza della sua inseparabile amica, e vuole assolutamente baciare qualcuno prima che l’estate finisca. Claudia è arrivata da poco in città e proprio durante uno sleepover scopre un segreto sul conto del suo fidanzato. E poi c’è Scott, un “fratello maggiore” che ha mollato il college dopo una delusione d’amore, e che ritrova una scintilla di speranza in una vecchia foto del liceo.

Lo sleepover, che da noi si chiamerebbe al massimo “pigiama party”, è presentato fin dal titolo come calzante metafora di un momento formativo essenziale e irripetibile, ed è il perno narrativo intorno a cui si danzano le storie di questo racconto corale, vincitore del Premio Speciale della Giuria al SXSW un paio di anni fa. Con questo suo leggiadro, garbato e freschissimo esordio, grazie a piccoli e semplici tratti, spesso senza bisogno nemmeno di aprire bocca (come nella bellissima scena in cui Maggie e la sua amica pedalano per la città accompagnate da Elephant Gun di Beirut), e all’aiuto di una manciata di attori giovani e bravissimi, quasi tutti esordienti o non professionisti, David Robert Mitchell riesce a raccontare molte verità sull’adolescenza, vista come un contrasto evanescente tra la voglia di diventare grandi e la paura che il tempo stesso passi troppo in fretta sfuggendoci tra le mani, come se nell’agognato passaggio all’età adulta fosse già contenuta la malinconica consapevolezza della sua irrevocabilità.

Un bellissimo piccolo film che non ha paura di essere comune pur di essere autentico.

Il film è uscito da tempo in dvd negli USA: ovviamente è Regione 1. C’è anche un’edizione olandese, che è Regione 2 ma purtroppo è priva di sottotitoli inglesi.

Il film è passato anche al Festival di Torino nel 2010. Per il momento non mi risulta sia prevista una distribuzione italiana.

R.I.P. Tonino Guerra

Tonino Guerra, sceneggiatore (16 marzo 1920 – 21 marzo 2012)

Margin Call, J.C. Chandor 2011

Margin Call
di J.C. Chandor, 2011

“If you’re first out the door, that’s not called panicking.”

Chiedetemi quello che volete, ma non chiedetemi di raccontarvi per bene la trama di Margin Call. Perché non sono del tutto sicuro di aver capito bene cosa diavolo succeda, nel dettaglio, in Margin Call.  Un problema del tutto personale del mio cervello, che ha una profonda idiosincrasia per il lessico economico; e se anche i personaggi invocano spesso il più classico degli “adesso spiegamelo come se fossi un bambino di otto anni” a vantaggio dello spettatore neofita, l’esito del dialogo mi fa sentire come un bambino di quattro. Ciò nonostante, con mia stessa sorpresa, Margin Call è un gran film: in fondo, lo specifico meccanismo che porta l’azienda sull’orlo del baratro (ispirato ufficiosamente al caso Lehman Brothers) non è che un ingranaggio, l’innesto di un dramma feroce e compattissimo (si svolge tutto nel corso di circa 24 ore) che getta un’ombra quasi apocalittica sul mondo della finanza – e per estensione sul mondo del lavoro, di cui la struttura narrativa restituisce la conformazione piramidale – ma che sposta molto presto la sua attenzione sui personaggi, affiancando la storia di una sopravvivenza ai danni dell’etica alle piccole o grandi ossessioni personali dei suoi protagonisti. Loquace ma non verboso, più che sulla messa in scena asciutta e comunque precisa, l’esordio del promettente J.C. Chandor (nominato all’Oscar per il suo script) fa leva soprattutto sulla ricchezza dei dialoghi e sul lavoro di un cast assolutamente eccezionale, con Kevin Spacey e Jeremy Irons in testa e Demi Moore in un ritorno imprevisto e sbalorditivo; la produzione indipendente e il budget ridotto (tre milioni e mezzo di dollari: un’inezia) sono tutto l’opposto di un ostacolo. Un’opera prima davvero notevole. Che voi sappiate o meno cosa diavolo siano i livelli di volatilità.

Nelle sale italiane dal 18 maggio 2012.

Young Adult, Jason Reitman 2011

Young Adult
di Jason Reitman, 2011

Young Adult è un film ricco di conferme. La prima è la bravura di Diablo Cody, che dopo il successo di Juno aveva fatto un mezzo passo falso con lo svagato e inconcludente Jennifer’s Body e con la deludente serie tv United States of Tara. La seconda è la definita statura d’attrice di Charlize Theron: una che ha vinto un Oscar, ma per il film sbagliato, forse troppo presto. La terza, tra le altre, è il valore di Patton Oswalt, non solo uno dei migliori stand up comedian americani né tantomeno solo un doppiatore, bensì un attore bravissimo e “completo” di cui Hollywood dovrebbe cominciare ad accorgersi.

Chi non aveva nemmeno bisogno di conferme è invece Jason Reitman, che continua a non sbagliarne una: dopo il sorprendente esordio di Thank You For Smoking che allontanava ogni possibile accusa di ingiustificato nepotismo, dopo il caso eclatante del sopracitato Juno e le sei (vane) nomination agli Academy Awards di Tra le Nuvole, il regista canadese azzecca in pieno anche il suo quarto film. Quello meno attraente e vendibile (per dire: una sola nomination ai Globes, nessuna agli Oscar) ma forse quello più onesto, maturo, più coraggioso e – prendendo in prestito un termine troppo spesso abusato – più “cattivo”. La trama del film, di suo, si stende su terreni conosciuti, ma Reitman lascia campo libero ai dialoghi appuntiti e spassosi, crudeli e perfetti, e all’interpretazione eccezionalmente sgradevole della Theron, che riesce a risultare bellissima (come non mai, forse) e al tempo stesso ripugnante.

Forse si perde un po’ dell’empatia che estendeva e universalizzava la parabola sociale di Tra le Nuvole, e nella brutale risoluzione di questo film non c’è traccia del “cinismo gentile” di Juno, un dato che rende Young Adult più difficile da digerire, un dramma psicologico doloroso e spietato travestito da commedia indie: si potrebbe pensare che sia una nuova direzione nella filmografia di Reitman, oppure che, in fin dei conti, è un aspetto da sempre presente nei suoi film. La sua acuta professionalità ci fa ipotizzare che, semplicemente, questa storia e questo personaggio non si potessero raccontare in altro modo.

Bisognerebbe scrivere un post a parte sul trattamento inglorioso che i distributori hanno riservato al film per la sua uscita italiana, limitata a una dozzina di sale in tutto il paese: di fatto, è quasi come se non fosse nemmeno uscito. Le spiegazioni sono diverse, e non tutte simpaticissime, non è la prima volta né sarà l’ultima che accade, ma è davvero un peccato.

Game Change, Jay Roach 2012

Game Change
di Jay Roach, 2012

Tra le performance femminili più applaudite della stagione, come spesso accade, ci sono alcune fedeli interpretazioni di personaggi storici di enorme riconoscibilità: la Margaret Thatcher di Meryl Streep, per esempio, o la Marylin Monroe di Michelle Williams, capace di rileggere l’icona pop novecentesca per eccellenza senza incappare nel rischio della sterile imitazione.

Il caso di Game Change è persino più clamoroso: in questo film per la tv trasmesso dalla HBO che racconta l’intensa campagna di Sarah Palin per la vicepresidenza degli Stati Uniti nel “lontano” 2008, Julianne Moore veste i panni dell’ex governatore dell’Alaska calandosi nella parte con una furia mimetica che ha davvero pochi precedenti – o che forse colpisce più del solito a causa della ridotta distanza temporale dal modello – e che rappresenta in qualche modo l’opposto del metodo della Williams: riportandone sullo schermo il look, i tic, il particolarissimo accento, persino dettagli come il ritmo della parlata, l’attrice scompare completamente  in una formidabile quanto inquietante fotocopia.

Una prova mostruosa che però non aiuta il film a decollare, o forse contribuisce a determinarne il fallimento: purtroppo Game Change è un film terribilmente piatto e noioso che tradisce l’origine e la destinazione televisiva molto più di quanto ci si potesse aspettare dalla sua prestigiosa sede. E non sono d’aiuto né l’univocità della prospettiva democratica da cui la campagna repubblicana è narrata, né d’altra parte la scelta di ritrarre John McCain e Steve Schmidt con visibile rispetto – perché toglie al film ogni possibilità di infilare davvero le unghie nelle pieghe della storia. La tracotanza della Moore, invece, la distacca da qualunque tentativo di contenimento: è una specie di organismo autonomo che si muove a prescindere dal film, da cui esce un ritratto spietato, disturbato, umano e tridimensionale, ma che finisce per rosicchiare i pochi motivi di interesse rimasti attorno a lei.

Il meglio sta quasi sempre ai margini o fuori dal testo: non è un caso che l’esito migliore del film sia il video amatoriale che confronta le apparizioni pubbliche della Palin con la “versione” della Moore, o che la sequenza più bella del film sia quella in cui la Sarah Palin di Julianne Moore guarda sconvolta in tv la Sarah Palin di Tina Fey nel celebre episodio del Saturday Night Live. Una fiammata di genio, benché necessaria, all’interno di un film davvero limitatissimo.

A Simple Life, Ann Hui 2011

A Simple Life (Tao jie)
di Ann Hui, 2011

L’impressione è che i tempi siano cambiati, ma in verità non è ancora così semplice dalle nostre parti vedere i migliori film asiatici, tantomeno al cinema. Per fortuna esiste chi ne ha fatto una missione, come quelli di Tucker Film (per chi non lo sapesse, sono gli stessi che organizzano il Far East Film Festival di Udine) che da qualche tempo stanno cercando di distribuire in sala e in dvd alcuni titoli davvero interessanti oppure, in alcuni casi, indispensabili.

Rientra indubbiamente in quest’ultima categoria A Simple Life, che la regista 65enne Ann Hui ha presentato in concorso lo scorso anno a Venezia dove, tra le altre cose, la straordinaria protagonista Deannie Yip ha vinto la prestigiosa Coppa Volpi. Il film racconta il rapporto tra un produttore cinematografico e l’anziana domestica che ha lavorato per la sua famiglia per 60 anni, e che in seguito a un infarto è costretta a trasferirsi in una casa di riposo. Come suggerisce il titolo, A Simple Life è talmente “semplice” da rendere quasi impossibile spiegare cosa lo renda così speciale: un film di inusuale delicatezza e irresistibilmente perbene sul potere degli affetti, che affronta temi universali quanto rischiosi come la vecchiaia e la morte con un piglio sobrio, riflessivo ma sottilmente ironico, pudico ma indiscutibilmente ncommovente, che schiva ogni sentenza morale sul senso della vita lasciando semmai che il messaggio traspaia da tanti piccoli momenti di impalpabile onestà, e che sa rappresentare la dolce l’implacabilità del passare del tempo con una naturalezza narrativa impareggiabile.

Magari non l’avete notato, ma il film è uscito in sala in Italia. Andate a vederlo.

John Carter, Andrew Stanton 2012

John Carter
di Andrew Stanton, 2012

È successo qualcosa di curioso, con l’uscita di John Carter: molti l’avevano già condannato – artisticamente ma soprattutto commercialmente – ben prima che uscisse o semplicemente esistesse; un po’ per la peculiarità di condizioni produttive che l’avevano spinto fino a un budget di (si dice) oltre 200 o 250 milioni di dollari, forse perché l’industria ha bisogno, ogni tanto, di un capro espiatorio da trasformare in esempio per registi o produttori troppo ambiziosi.

L’ambizione di Stanton, tra i registi di punta della Pixar, già responsabile infatti della regia di film come Alla ricerca di Nemo e WALL-E, era in verità piuttosto trasparente: portare sullo schermo una storia letteralmente secolare (e sul tavolo di Hollywood più o meno da quando c’è il sonoro) com’è la “saga di Barsoom” di Edgar Rice Borroughs e renderla appetibile a un pubblico che nel frattempo ha divorato e digerito ogni possibile derivazione, clonazione e mutazione di quel tipo di storia.

Il problema maggiore del film non è però, come temevano, uno sfoggio eccessivo di mezzi votati al caos o, peggio ancora, al vuoto, ma ha a che fare con la sua quasi obbligata struttura: John Carter è un film che parte almeno tre o quattro volte prima di partire sul serio, e la revisione di Michael Chabon non sembra alleggerire affatto una prima parte che stenta a ingranare e interessare. Una volta innescato il meccanismo e messo piede a Barsoom, impostate le regole del gioco, ci si comincia a divertire.

E del resto del film, una sua buona parte, è quasi impossibile dire o pensare male: Stanton racconta la storia del soldato disilluso catapultato suo malgrado su un altro pianeta (dove finirà invischiato in un’altro tipo di guerra) cedendo spesso alle angherie degli stereotipi narrativi – non c’è nulla di male se lo fai con questa franchezza – ma il suo tentativo di trasportarvi anche il pubblico si può dire del tutto riuscito: John Carter è un film di avventure ingenuo e appassionante messo in scena con semplicità ed enorme professionalità.

Se c’è un film che questo John Carter mi ha ricordato è Stargate: al di là di una certa assonanza della colonna sonora di Giacchino e della somiglianza del percorso narrativo di Carter con quello del colonnello interpretato da Kurt Russell, parlo dell’idea di un cinema che sceglie di essere naif e puramente avventuroso senza passare, come accade per esempio molto spesso in Spielberg (dai Predatori a War Horse), dall’operazione-nostalgia o dalla malinconia prettamente cinefila, quasi del tutto assente in questo film.

Stanton, dalla sua, ha fatto tesoro della lezione in Pixar e forse più in generale in Disney: lo si vede nella costruzione delle sequenze più movimentate (quasi sempre eccellenti), nell’accenno palese a tematiche generalmente ecologiste, ma anche nel tratteggio delle figure secondarie, assai meglio scritte della media (in primis la Dejah di Lynn Collins) mentre il “cane” Woola sembra in tutto e per tutto uscito da un film d’animazione – non a caso è una delle trovate migliori del film, nonché il suo unico, irrinunciabile comic relief.

Tutt’altro, dunque, che il disastro che molti avevano annunciato e che alcuni hanno pure confermato, forse per ansia da prestazione – o forse più semplicemente perché non è stato di loro gusto. E se il debutto di Stanton non è all’altezza dei suoi risultati animati, ci rimane una sequenza – quella battaglia furiosa alternata al tragico flashback sulle “origini” di John Carter – in cui si vede tutta, ma proprio tutta la sua bravura: una sequenza temeraria, bellissima, commovente, da applausi a scena aperta.

Millennium – Uomini che odiano le donne, David Fincher 2011

Millennium – Uomini che odiano le donne (The Girl with the Dragon Tattoo)
di David Fincher, 2011

Nonostante un adattamento del best seller di Stieg Larsson, peraltro già avvenuto in Svezia pochi mesi prima, potesse sembrare da una certa distanza un’opera di passaggio, non solo minore ma meramente alimentare, in verità Fincher è riuscito ad appropriarsene, a farlo suo per l’ennesima volta: dopotutto, uno dei massimi pregi del regista è sempre stato quello di saper annullare i confini tra il cinema d’autore e quello commerciale, tra il valore artistico e la commissione, e quest’ultimo lavoro non fa eccezione. Quindi, nonostante non sia certo da annoverare tra i suoi lavori più riusciti in senso assoluto (ma il confronto con The Social Network sarebbe schiacciante per chiunque, o quasi) il primo capitolo della “saga americana” di Millennium è davvero un gran bel film: appassionante, violento e implacabile, permette a Fincher di riprendere il suo lavoro sul thriller d’indagine tornando sul percorso Se7en e Zodiac, e di prendersela ancora una volta con molta calma, superando le due ore e mezza di durata (più del già lungo film di Oplev) per concentrare tutte le energie delle prima metà sulla costruzione dei personaggi con un uso magistrale del montaggio parallelo – un procedimento che molti thriller sono costretti a saltare a pié pari per esigenze di minutaggio. Ma al di là della messa in scena di Fincher, come al solito ossessivamente millimetrica e perfetta, e dell’interessante anche se tutt’altro che rivoluzionaria costruzione narrativa che porta al puntuale svelamento del mistero, è inevitabilmente Lisbeth Salander il fulcro del film, il suo cuore pulsante, fino a divenirne quasi la ragion d’essere. E la spettacolare, bellissima, inquietante  Rooney Mara la rende indimenticabile con un procedimento diametralmente opposto a quello del suo regista: annullando la propria personalità nel personaggio con un’autentica mutazione, fisica e probabilmente in parte anche psicologica. La sua è una prova d’attore impressionante che riesce a dare al pur robusto e riuscito film di Fincher un nuovo significato, una disturbata e disperata anima nera.

I visionari titoli di testa del film sono stati creati da Blur Studio. La canzone è una cover di “Immigrant Song” dei Led Zeppelin reinterpretata da Trent Reznor e Atticus Ross (autori della bellissima colonna sonora) e cantata da Karen O degil Yeah Yeah Yeahs.

My Week with Marilyn, Simon Curtis 2011

My Week with Marilyn
di Simon Curtis, 2011

Era facile intuirlo, ma il film di Simon Curtis (al suo esordio al cinema dopo una lunga carriera televisiva), uscito dopo un’interminabile gestazione, riesce a stare in piedi o forse persino a farsi sopportare quasi esclusivamente grazie all’interpretazione di Marilyn Monroe fatta da un’incredibile Michelle Williams. Non era un’impresa da poco, vestire i panni di una delle più grandi e ingombranti icone del novecento senza cadere nell’imitazione fine a se stessa: lo dimostra la prova, piuttosto forzata e sempre a un passo dalla macchietta, di Kenneth Branagh in quelli di Laurence Olivier. Un compito svolto dall’attrice con una bravura davvero straordinaria, non solo o non tanto per l’impressionante fotocopia di Marilyn in cui è riuscita a trasformarsi, ma per la sua naturalezza e per la sua spontaneità; il resto del film, al contrario, è di un’ordinarietà abbastanza sconfortante: nonostante i tentativi di una regia piatta, senza idee e di una sceneggiatura che sceglie comunque e sempre tutte le strade più facili affidando unicamente al cast (impegnato in una tiepidissima gara di somiglianze) il compito di stupire il pubblico, il film soffre dello stesso comprensibile incanto nei confronti del mito di cui è vittima il personaggio di Colin, e in definitiva racconta l’incontro con una specie di distacco che la trasforma, di nuovo, in una figurina fascinosa ma bidimensionale: un vero spreco. Provoca quindi un fastidio ancora maggiore quella spiccata presunzione del film, forse ereditata dai testi d’origine, di aver trovato una chiave del mistero di Marilyn; meno male che la Williams, tutta da sola in barba alla mediocrità del film, riesce con una punta di ironia a suggerirci che anche quello di Colin, e per estensione del film, è l’ennesimo tentativo fallito di svelare il suo segreto.

Tiny Furniture, Lena Dunham 2010

Tiny Furniture
di Lena Dunham, 2010

“My horrible secret is that I hate foreign films”

Sentiremo sempre più spesso parlare di Lena Dunham: la 25enne newyorkese è infatti l’autrice, regista e interprete di Girls, serie co-prodotta da Judd Apatow che andrà in onda su HBO a partire dal prossimo aprile. Ma la sua carriera è iniziata con questo piccolo e applaudito film presentato nel 2010 al South by Southwest, dove ha vinto il premio come miglior lungometraggio narrativo. Una vera e propria istantanea autobiografica dell’autrice: per confessare lo stallo emotivo e professionale seguito alla fine degli studi all’Oberlin College, la Dunham mette in scena una versione romanzata ma terribilmente sincera della propria vita, usando la madre (che è davvero una nota fotografa a New York) e la sorella nella parte di loro stesse. Le ossessioni e i patemi sono quelli di una generazione viziata che affronta per la prima volta il vuoto che si cela dietro la cultura velleitaria in cui è stata coccolata, ma la Dunham riesce a superare il potenziale più irritante dell’autoreferenzialità da “first world problems” con un umorismo sottile e imbevuto di citazioni, colto e consapevole della propria arguzia ma spesso ugualmente irresistibile, sopperendo ai tratti più snob con una rigida e intransigente autocritica. Quello che colpisce di più è infatti il modo spietato con cui la Dunham guarda e racconta il proprio senso di inadeguatezza, psicologico ma anche fisico, puntandosi addosso la macchina da presa senza troppi pudori – ma anche tutti i personaggi secondari (soprattutto la Charlotte di Jemima Kirke) sono davvero centrati, rappresentati con un misto di affetto, impotenza e cinismo. Leggerissimo e impalpabile, Tiny Forniture è un film che di fatto non va e non vuole andare da nessuna parte, ma se dalla distanza sembra seguire i dettami improvvisati del mumblecore, nasconde in verità una notevole precisione di messa in scena, un’innata predisposizione per i dialoghi e per il disegno dei personaggi. Se ne tenga a distanza chi ha un’idiosincrasia per il cinema americano cosiddetto indie, di cui sembra possedere tutte quante le caratteristiche; tutti gli altri troveranno nell’esordio di Lena Dunham il seme di un gran bel talento, sicuramente da coltivare. In ogni caso, come dicevo, ne sentiremo parlare sempre più spesso.

Negli states il film è uscito in dvd niente meno che nella Criterion Collection. L’edizione britannica (Regione 2) arriva invece il prossimo maggio.

Nelle nostre sale? Non fatemi ridere.

50 e 50, Jonathan Levine 2011

50 e 50 (50/50)
di  Jonathan Levine, 2011

Un tranquillo giornalista radiofonico 27enne scopre di avere una rara e aggressiva forma di cancro alla spina dorsale e di doversi sottoporre alla chemioterapia: il titolo fa riferimento alle possibilità di sopravvivenza che il protagonista legge su Wikipedia dopo la diagnosi. Ma nonostante la premessa sia potenzialmente deprimente, 50/50 riesce in quello che suona davvero come un piccolo miracolo: un film sulla malattia che non risulta stucchevole né patetico, che utilizza senza problemi i cliché narrativi (il rapporto con la madre, l’amicizia con gli altri malati) a suo vantaggio senza venirne mai schiacciato, e che si allontana dalla più facile pornografia del dolore affrontando l’argomento con toni da commedia – che lo avvicinano alla vita più di quanto il cinema abbia abitualmente il coraggio di ammettere. Un film sulla malattia che fa ridere? Indubbiamente, molto. Ma la forza del film di Levine sta soprattutto nella sua umanità, che include la possibilità che le persone di fronte alla malattia si comportino in modo inadeguato, spaventato, immaturo, egoista, e che poi ci sia qualcuno che ce la mette tutta. Gran parte del merito va alla sceneggiatura lieve e davvero commovente (perché si piange, cosa credete) che Will Reiser ha scritto ispirandosi alla sua esperienza personale, ma anche all’ottimo cast. Joseph Gordon-Levitt è bravissimo, misurato, ironico, fragile, e Anna Kendrick è infinitamente adorabile, ma è Seth Rogen a sorprendere davvero: interpreta l’ennesima versione di se stesso (stavolta letteralmente: lui e Reiser sono grandi amici) ma lascia trasparire dietro lo stampino della sua comicità greve un’imprevista, onesta e persino timida profondità.

Nelle sale dal 2 marzo 2012