Le mezze stagioni esistono eccome, e sono una brutta bestia. Ma qualcuno deve pur domarle. Diamo un’occhiata ad alcune delle nuove serie tv iniziate negli ultimi tre mesetti.
Ma prima, un breve ripasso: che ne è stato di quelle iniziate in autunno, tra lo scorso settembre e lo scorso novembre? Le cose sono andate bene per le comedy, soprattutto quelle iniziate con un mezzo passo falso. Parlo dell’irresistibile New Girl, della divertentissima Suburgatory e della puccissima Up All Night: tre serie che hanno capito come si aggiusta il tiro. Al contrario, 2 Broke Girls sembra essersi un po’ incartata su se stessa dopo una promettente prima metà di stagione, si continua a seguire ma senza la pretesa di difenderla a tutti i costi. Ho invece personalmente abbandonato molti nuovi drama – Person of Interest, Once Upon a Time – per intervenuto disinteresse, mentre mi auguro che Alcatraz possa continuare la sua corsa. Le maggiori soddisfazioni sono arrivate dalle vecchie conoscenze: la quinta diMad Menè meravigliosa e non ha nulla da invidiare alle precedenti, la quarta di Fringe (confermato da poco per una quinta e ultima) sta tirando fuori le unghie in extremis in modo sconvolgente, e poi ovviamente c’è Game of Thrones. Nota di merito per la terza stagione di Justified, davvero notevole, e per Eastbound & Down che ha terminato la sua corsa con un series finale da applausi.
Ci tengo a fare una piccola nota per una sitcom arrivata da poco alla fine della seconda stagione, meno vista di altre (da quel che ho potuto verificare IRL) e che io stesso ho scoperto qualche mese fa, in colpevole ritardo: si tratta di Happy Endings ed è diventata nel giro di poco tempo la mia terza comedy preferita attualmente in onda dopo due giganti ormai insuperabili come Community e Parks and Recreation. Ve la consiglio caldamente.
E ora, la roba nuova. Per semplicità, in ordine cronologico di trasmissione. Read More →
Hunger Games (The Hunger Games) di Gary Ross, 2012
Aver letto il libro da cui è stato tratto un film non è affatto necessario per giudicare o comprendere quest’ultimo; anzi, spesso può portare fuori strada. Ma in alcuni casi può essere utile per inquadrarlo, quantomeno per avere un punto da cui partire, soprattutto se si parla di un imponente successo letterario come quello del libro di Suzanne Collins, che io stesso mi sono sorpreso a divorare in poco tempo. Pur trascinandosi dietro l’etichetta “young adult”, è un libro fluido e lucido, immaginifico e incalzante, in cui l’autrice mostra un’abilità notevole nell’applicare il gusto per il sincretismo culturale (dai miti greci ai reality show, passando per i classici della fantascienza distopica) senza limitarsi, come nel caso di Twilight, ad applicare una “cornice” di genere a convenzioni reazionarie.
Molto fedele al suo testo originario fino a dove è narrativamente plausibile (adattato dalla stessa Collins insieme al regista e al Billy Ray di Breach, risponde in modo agile al passaggio dal racconto in prima persona), il film trova a sorpresa nel Gary Ross di Pleasantville una guida intelligente e non banale (vedi la prima parte ambientata nel Distretto 12, tutta camera a mano e primissimi piani) e qualche difficoltà si riscontra solo nelle scene più movimentate, a tratti un po’ confuse. Per il resto, Hunger Games è un divertimento solidissimo e appassionante, con alcune scelte di casting incredibilmente azzeccate (Harrelson in primis, ma anche Lenny Kravitz e Stanley Tucci funzionano benissimo) e dominato per tutta la sua durata dalla formidabile presenza scenica della sua protagonista. Tra le attrici più dotate (e più belle, diciamolo) della sua generazione, Jennifer Lawrence riesce a trasmettere tutte le sfumature del personaggio di Katniss Everdeen senza mai forzare la mano, regalando una performance memorabile che sembra quasi un complemento della Ree Dolly di Winter’s Bone.
Due pesi, due misure: Hunger Games, così come il libro, non è un’opera radicale o rivoluzionaria; ma è un film che riesce a bilanciare in modo perfetto le esigenze del target a cui sarebbe dedicato (senza sottovalutarne la maturità o l’intelligenza) con un gusto per il puro racconto che Hollywood spesso trascura, costruendo insieme all’attrice un personaggio femminile autenticamente eroico, coraggioso e indipendente, facendo leva su temi e pulsioni attuali e universali (moltissime le possibili interpretazioni politiche del film, che lasciamo ad altri) e finendo per diventare perfetto per qualunque pubblico – un esempio per il cinema mainstream, fantastico e non. Infatti anche il film ha avuto un enorme successo: quasi 600 milioni di incasso in pochi giorni per “solo” 80 milioni di budget, e in due dimensioni. Se li merita, dal primo all’ultimo dollaro.
In tempi in cui il discorso sul cinema si è ridotto sempre più a un’opposizione tra aspettativa e realizzazione, come era possibile mantenere le promesse di un progetto come The Avengers? Stiamo parlando di un blockbuster su cui è stato puntato così tanto (in tempo e denaro) da trasformare in trailer i blockbuster che l’hanno anticipato e letteralmente annunciato, dal successo di Iron Man in poi. La risposta poteva essere la più banale: bastano più star e più soldi. La vera risposta è stata, invece e fortunatamente, la più inaudita. Ed era la risposta giusta. The Avengers in un certo senso rappresenta per la Marvel quello che The Dark Knight fu per la DC: l’idea di investire un enorme capitale non soltanto sul marchio e sulle proprietà, ma su una firma, su un “autore”, su una personalità forte capace di ottimizzare potenzialità meramente industriali e trasformarle in vero cinema. Questa persona è Joss Whedon, uno degli showrunner televisivi più idolatrati, creatore di serie come Buffy, Firefly e Dollhouse.
Ed è proprio Whedon a fare la differenza, non solo per via della passione per il fumetto che trasuda da ogni singola idea e per la sua conoscenza approfondita della materia, superiore a quelli che l’hanno preceduto, ma perché comprende fino in fondo che fare un film-fumetto non può e non deve essere più semplice o automatico della media. Tutto il contrario: ogni singola vignetta richiama un’inquadratura curata e sensata, possibilmente creativa; ogni frase pronunciata in un balloon deve essere significativa, ben misurata, possibilmente irresistibile: il lettore può fermarsi, tornare indietro, rileggerla. Whedon costruisce il suo film così: isolando alcune grandi sequenze spettacolari (e lo sono davvero), ma concentrando tutta la sua attenzione sul resto, sulla sceneggiatura e sulla costruzione dei personaggi, anche a costo di chiuderli in una stanza – facendo scontrare le loro personalità ancor prima delle loro armi. Ma quel che conta è soprattutto l’equilibrio: The Avengers per sua natura trasforma l’egomania dei precedenti in coralità, ed era importante, necessario che tutti i protagonisti avessero qualcosa da dire, oltre che da fare. Whedon ci è riuscito in modo eccezionale, sfruttando al meglio chi aveva già dimostrato di funzionare da solo (come Stark e Thor), perfezionando o ridimensionando chi ne aveva bisogno (lo stesso Stark, Captain America), arricchendo moltissimo il Loki di Tom Hiddleston e costruendo da capo un personaggio finora marginale come Black Widow (una strabiliante Scarlett Johansson, che a questo punto merita un film tutto suo) anche se il suo contributo maggiore è quello sul difficile personaggio di Hulk: bastano pochi minuti per capire quanto sia azzeccata la scelta di Mark Ruffalo nel ruolo di Bruce Banner, e sarà il mostro verde al centro dei migliori momenti della seconda parte. Quando si comincia a spaccare, insomma.
Perché ovviamente la cura dei dialghi (quasi sempre ispirati e divertentissimi che si tratti di scambi veloci o di one-liner, e il film ne è stracolmo) e dell’intreccio narrativo non impedisce al film di tuffarsi nel divertimento puro: le sequenze di “combattimento” sono favolosamente congegnate e realizzate nel corso di tutto il film (e spesso riguardano lo scontro tra gli stessi eroi) ma quella conclusiva, lunghissima e annunciata già dai primi trailer, è un apocalittico royal rumble tra i grattacieli che fa impallidire quasi tutte le più scatenate sequenze d’azione che l’hanno preceduta. E fa letteralmente a pezzi la città di New York con un gusto quasi infantile per la distruzione che lascia senza fiato e a bocca aperta. Insomma, non si tratta più di mettere un cervello al servizio dello spettacolo, obiettivo già raggiunto da Favreau e Branagh, ma di trovare un’armonia perfetta tra intelligenza ed evasione, tra meccanica e passione. Whedon era la risposta giusta. E la sua risposta si è trasformata in qualcosa di bellissimo ed esaltante: di gran lunga il miglior film della Marvel prodotto finora, un punto di arrivo con cui i film a venire dovranno presto confrontarsi.
Paradiso Amaro (The Descendants) di Alexander Payne, 2011
Sono passati dodici anni dal sorprendente Election, ma sembra una vita: dopo Schmidt e Sideways, Alexander Payne aggiunge un altro tassello a una filmografia furbetta e deprimente che si nasconde dietro una patina indipendente, tra molte virgolette. Il successo – di critica e di pubblico – di un film del genere si spiega da sé (per quanto possa risultare fastidioso e stucchevole, è indubbiamente ben scritto, la conclusione è silenziosa e azzeccata) ma è davvero un peccato che Payne utilizzi l’elemento più interessante del film (gli scenari aperti dal libro di Kaui Hart Hemmings sono davvero originali e inediti per il modo in cui vorrebbero smitizzare l’ambientazione hawaiana) solo come metafora facilona e maschera pretestuale di una storia famigliare risaputa e ruffiana, che punta alla lacrimuccia con spudorata scaltrezza, confondendo l’avvilimento con la commozione. Clooney dal canto suo, come al solito, si sforza di uscire dai panni del sex symbol limitandosi a vestirsi e pettinarsi male, ma è fin troppo affascinante: bravo, certo, ma fuori ruolo.
La migliore in scena, e in generale, è invece la deliziosa Shailene Woodley, già protagonista della serie tv La vita segreta di una teenager americana: intensa senza mai strafare, dotata di una bellezza inusuale ma ipnotica, è protagonista di una delle scene più celebrate del film (quella in cui urla sott’acqua) ed è quasi una rivelazione, in attesa di un film capace di sfruttare meglio il suo talento.
Sherlock Holmes – Gioco di ombre (Sherlock Holmes: A Game of Shadows) di Guy Ritchie, 2011
Il primo Sherlock Holmes diretto da Guy Ritchie era stato, oltre che un enorme successo commerciale, una bella sorpresa: il regista inglese dopo qualche intoppo era tornato in piena forma, ripensando in modo personale uno dei personaggi più rappresentati della storia del cinema e della tv senza tradirne lo spirito originario, giocando con gli spettatori senza prendersi mai troppo sul serio e inaugurando una moda o forse, chissà, addirittura un filone. Il “secondo capitolo” non cambia molto le carte in gioco, bilanciando con l’arrivo di Mycroft (interpretato dal grande Stephen Fry, ovviamente spassoso) e della classica nemesi incarnata da Moriarty (un Jared Harris perfettamente in ruolo, lo sa bene chi segue Fringe) l’assenza di carisma di Noomi Rapace (che sostituisce la Irene Adler di Rachel McAdams) anche se, dopotutto, il rapporto di amicizia tra Holmes e Watson è diventato così allusivo e romantico da rendere quasi accessoria una qualsivoglia controparte femminile. Chiunque abbia una minima conoscenza delle storie di Holmes sa bene fin da principio dove andrà a parare lo scontro tra il detective e il professore, ma il problema della trama non sta certo nella sua prevedibilità quanto, al contrario, nell’eccesso di sceneggiatura: firmato dai coniugi Mulroney, lo script confuso e caotico, intricato senza vere giustificazioni. In generale, A Game of Shadows non aggiunge granché ai punti forti del primo capitolo (l’alchimia tra i due protagonisti, il fascino dell’ambientazione curatissima, il contrasto con la messa in scena ipercinetica, l’idea del talento deduttivo di Holmes come sorta di “macchina del tempo”), ma questo non impedisce certo il divertimento in sé: Downey Jr e Law sono sempre irresistibili, gli scambi screwball tra i due sono ancora i momenti più divertenti, la confezione è sfavillante, e c’è almeno una sequenza d’azione memorabile (la sparatoria nel bosco) in cui Ritchie ha finalmente la possibilità di sfogarsi fino in fondo replicando, ma qui anche potenziando, le idee del primo film.
Knockout – Resa dei conti (Haywire) di Steven Soderbergh, 2011
L’approccio di Soderbergh al cinema d’azione non potrebbe essere più differente da quello dei registi che abitualmente se ne occupano, tanto che questo contrasto che è alla base di Haywire finisce per essere quasi il suo unico fondamento: un film su Soderbergh che gira un film di arti marziali. Il regista dopotutto si è costruito la fama di firma eclettica anche coltivando l’interesse per i canoni, flirtando con essi e violandoli con le sue ossessioni (con risultati assai altalenanti) e anche qui il procedimento è simile: Haywire segue un canonico percorso vendicativo di un’attraente spia mercenaria costretta a difendersi da un complotto costruito alle sue spalle, ma Soderbergh – che oltre a dirigere si occupa personalmente della fotografia e del montaggio, sotto pseudonimi – lo asciuga completamente rendendolo statico, nonostante non manchino ben coreografate scene di lotta o di inseguimento. Questa sorta di ricercato disequilibrio si ritrova già nella lottatrice Gina Carano, volto noto del mondo delle MMA: straordinaria in azione, ovviamente molto meno a suo agio nelle molte sequenze narrative – che finiscono per risultare agli occhi dello spettatore un riempitivo in attesa del prossimo assalto. Soderbergh probabilmente vuole far dialogare un cinema spionistico più “raffinato” – tappeto sonoro di David Holmes incluso - con il vero “cinema di menare”, ma si fa distrarre dalle sue manie e dalla sovrabbondanza del cast (ancora una volta dopo il riuscitissimo Contagion torna il metodo delle performance isolate; ma in questo caso non giova) e finisce per annoiare. Non mancano comunque le buone idee e le buone invenzioni (per esempio la fuga nel bosco in retromarcia, ma anche tutta la parte con il solito carismatico Michael Fassbender) e la Carano quando ci si mette è una gioia a vedersi, ma Haywire è più una curiosità, un singolare esperimento, che un film davvero compiuto.
In occasione della sua uscita italiana, Hysteria è stato sottotitolato nei poster “l’eccitante invenzione del vibratore”, con qualche ammiccante puntino di sospensione. Le motivazioni promozionali sono palesi (una manna dal cielo per le divagazioni editoriali sul tema) ma nel film l’invenzione in sé diventa quasi marginale rispetto a tutto il legame tra il superamento della diagnosi di isteria e lo sviluppo delle istanze femminili in una società sessista e retrograda: un apparato tematico e narrativo che forse è meno curioso e “vendibile”, ma è decisamente più interessante – lo sa bene la Wexler, che ha studiato psicologia a Yale e voleva raccontare soprattutto quella storia, dimenticata dai più. Anche se alla fine Hysteria è una commedia romantica in costume dall’impianto piuttosto tradizionale, apertamente “britannica” nonostante la regista sia americana, con il protagonista nei panni dell’impacciato, candido e inadeguato dottore sballottato sentimentalmente tra due donne antitetiche con un contorno di comic relief e di cliché del caso (la prostituta dal cuore d’oro vale come esempio perfetto di entrambi) e una produzione adeguata nonostante qualche ostacolo. Un film grazioso e intelligente, storicamente ammirevole, sostanzialmente inoffensivo. Forse senza la presenza di Maggie Gyllenhaal, qui luminosa e bravissima, sarebbe stato molto meno convincente.
“My name is Frank. That’s not important. The important question is: who are you?”
La filmografia di Bobcat Goldthwait sembra avere tra i suoi tratti più caratteristici la provocazione che si inserisce negli addormentati canoni del cinema americano e funge da vera e propria secchiata d’acqua fredda: Sleeping dogs lie era una variazione estrema su un canovaccio da commedia romantica (una coppia affronta la crisi quando lei confessa di aver fatto sesso con un cane al college) e il bellissimo World’s Greatest Dad si impossessava della riconoscibile maschera da commedia di Robin Williams mutandola all’interno di una parabola profondamente amara.
God Bless America invece è provocazione allo stato puro, aggressiva ed esplosiva, asciugata di ogni possibile fraintendimento. L’incipit del film mette subito le cose in chiaro: infastidito dalla rumorosa coppia con bambino urlante nell’appartamento accanto, il frustrato e solitario impiegato Frank sogna di bussare alla loro porta e ucciderli senza esitazioni, e quando la madre lancia il bambino Frank gli spara a mezz’aria. Uno sfogo onirico destinato però a diventare reale, come ogni storia di spree killing insegna: la miccia è la scoperta di un cancro incurabile, ma si accende solo quando Frank sente la figlia di nove anni urlare contro la madre perché ha avuto in regalo un Blackberry invece di un iPhone. A quel punto lo spettatore deve decidere se lasciare o raddoppiare, anche perché il punto di vista sarà sempre e solo quello dell’assassino, da lì alla fine del film.
La più grossa provocazione del film riguarda proprio questo meccanismo empatico: interpretato perfettamente da Joel Murray, il più bravo dei fratelli di Bill, Frank si proclama nemico della cultura televisiva in (quasi) tutte le sue manifestazioni, denuncia in modo cinico ma preciso un’insofferenza nei confronti del trash, della cafonaggine, dell’omofobia e della pedofilia della società americana che ha raggiunto e superato la saturazione. Noi siamo portati a pensarla come Frank, la differenza è che lui prende una pistola e comincia a sparare, e scagliandosi contro un’America che non sa più “essere gentile” ci spinge dalla parte – scomoda e inquietante – del grilletto. Le vittime possono essere le protagoniste viziate e petulanti di un reality show, quelli che parlano al cinema, i membri del Tea Party, fino all’epitome e obiettivo principale della rabbia di Frank: American Idol.
Frank non è solo. Accanto a lui, come una spruzzata di benzina su un fuoco già piuttosto vivo, c’è una sedicenne esagitata chiamata Roxy (interpretata da Tara Lynne Barr, una specie di frullato di Christina Ricci e Anna Faris) che decide di diventare la Bonnie Parker della situazione – ma funge più che altro da controcanto di un monologo crudele e virulento sullo stato dell’America odierna. God Bless America ha infatti questo problema, che schiaccia un freno decisivo e lo rende meno irresistibile: dà l’impressione di essere un film costruito intorno alla routine di uno stand up comedian - e non è un caso che sia proprio quello il mondo da cui proviene Goldthwait. Non soltanto per l’aggressività del linguaggio e per i temi affrontati, ma proprio per la stuttura dei dialoghi, che spesso si tramutano in veri e propri rant sulla decadenza del paese in cui vengono elencati uno per uno i mali della società e le “persone che meritano di morire”.
Tutto sommato però l’operazione va a buon fine: pur sacrificandola in parte per puntare alla pancia dello spettatore, Goldthwait ha comunque una sensibilità cinematografica tutta sua, che ancora una volta cerca il punto d’incontro tra la dolcezza e la pazzia come pochi registi americani hanno il coraggio di fare. Certo, mostra di non avere alcun interesse nelle mezze misure, ogni simbolismo è dichiarato, gli obiettivi degli sproloqui hanno spesso nomi e cognomi (Woody Allen, Lolita, Diablo Cody, Glee) oppure sono parodie conclamate (Fox News, lo stesso American Idol) e non c’è spazio per sottigliezze, ma nonostante utilizzi a man bassa l’assurdo e il grottesco (anche per sottolineare che, appunto, si tratta di una provocazione e non di un’istigazione) questo suo affresco dell’America di oggi e dei piccoli quotidiani orrori da piccolo schermo appare molto più realistico di quanto non sembri – rendendo ancora più efficace la caustica e furiosa furia omicida di Frank e Roxy.
Il film è stato presentato al festival di Toronto e poi al South by Southwest.
Esce negli states a maggio ma qualche giorno fa è stato distribuito On Demand.
Silenced / The Crucible (Dogani) di Hwang Dong-Hyuk, 2011
Nel 2005, la scuola Inhwa di Gwangju per bambini sordomuti finsice al centro di un processo per abusi, molestie e violenze sessuali ai danni dei giovanissimi alunni. I colpevoli, tra cui il preside, ne escono quasi indenni, con condanne morbide dovute alle scappatoie del sistema giudiziario coreano; uno dei colpevoli viene persino assunto di nuovo alla fine della condanna. Nel 2009, un libro della celebre scrittrice Gong Ji-young riporta l’attenzione su quei fatti ormai semidimenticati dai media; Silenced è tratto proprio da quel libro.
Da una storia così recente e così bruciante, era impossibile trarre un film del tutto compiuto: ma Hwang Dong-Hyuk, al suo secondo film, riesce a trovare un equilibrio ammirevole tra la crudezza del resoconto e le necessità del racconto cinematografico, affiancando le atmosfere tesissime da film dell’orrore della prima metà a una seconda parte più tradizionalmente processuale. Raccontato dal punto di vista di un giovane maestro vedovo e idealista che viene assunto (pagando una tangente) nella scuola per poi scoprirne ne scopre le verità nascoste, Silenced a tratti è vittima di qualche cliché del caso – soprattutto nel ritratto dei personaggi – ma non c’è dubbio che vada a colpire in modo efficace, duro e tagliente. Senza risparmiare quasi nulla allo spettatore né al giovane cast (le scene più dolorose sono terribilmente esplicite, quasi impensabili in un’ottica “occidentale”) si finisce per raccontare molto più di un singolo caso di cronaca, ma più generalmente le contraddizioni più profonde della società coreana, la sua corruzione, la sua ipocrisia e la sua omertà.
Tanto che il valore più determinante di Silenced si è rivelato fuori dai confini dello schermo: l’uscita in sala nel settembre 2011 e il suo enorme successo di pubblico (quinto tra i film locali e ottavo in assoluto tra gli incassi dell’anno, con più di 4 milioni e mezzo di spettatori: più dell’ultimo Harry Potter) hanno infatti contribuito ad attivare non soltanto l’interesse dei media, della rete e dell’opinione pubblica ma anche la macchina legislativa. Il caso drammatico della scuola Inhwa è stato riaperto, e poco più di un mese dopo l’uscita in sala l’Assemblea Nazionale ha pubblicato un una nuova legge che abolisce clausole confuse quando non medievali e rende più dure le pene per violenze sessuali ai danni di disabili e minori. La legge si chiama Dogani Law, dal titolo del film.
Il film è noto con entrambi i titoli: “Silenced” è il titolo per la distribuzione internazionale, “The Crucible” è la traduzione letterale del titolo coreano.
“Silenced” sarà proiettato al Far East Film Festival di Udine giovedì 26 aprile alle 22.
Diaz – Don’t Clean Up This Blood di Daniele Vicari, 2012
L’uscita a così breve distanza di Romanzo di una strage e di Diaz è curiosa e interessante per il modo in cui ci aiuta a osservare e distinguere due approcci radicalmente opposti a una materia sensibile e così delicata: il racconto cinematografico di un noto, bruciante fatto storico. E l’approccio scelto dal film scritto e diretto da Daniele Vicari e prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci non potrebbe essere più distante da quello di Giordana e Tozzi, perché scaturisce da un’idea decisiva: che si possa fare un film profondamente politico senza rinunciare al Cinema.
Tutto quanto, in Diaz, discende da questo stimolo primario e ineliminabile, a partire dalla struttura corale che si impadronisce di molte testimonianze trasformandole in veri personaggi di un intreccio dal respiro corale e, ancora di più, dall’intelligente struttura che avvolge (e rinchiude) questi personaggi utilizzando un’immagine solo apparentemente poco significativa (una bottiglia lanciata che si frantuma cadendo a terra) come perno narrativo dell’intera opera. Un “simbolo” che vuole funzionare anche come rottura di una tensione intensa e a tratti insostenibile, montata con un occhio (ma anche entrambi) al cinema di genere, più specificamente all’horror: la costruzione che porta gradualmente verso il blitz è un’alternarsi di casualità e presagi che sembra provenire da un film di zombi – e l’orrore che segue, benché terribilmente reale, non è che una conferma.
Quest’ultimo è un procedimento a cui il pubblico del “cinema italiano impegnato” non è abituato, ed un’idea piuttosto radicale che va ben oltre la rilettura noir del gangsterismo italiano fatta da Placido, e che si sporge verso il pubblico con l’audace sfrontatezza di un pugno nello stomaco e di un calcio nei denti: perché se parte del coraggio di Vicari sta in una sorta di dichiarata autocensura (ci si ferma dove si crede sia giusto, e non gli si può certo dar torto: un autore risponde alle proprie, di esigenze) e nell’idea, probabilmente impopolare, che le colpe vadano redistribuite e che il manicheismo non contribuisca a proteggere gli innocenti, non si può dire che il suo sguardo sia ammorbidito o tenue. Diaz picchia duro e dove fa più male, non solo nell’esplosione della furia tra le mura della Diaz o nell’angoscia della prigionia di Bolzaneto (comunque impressionanti e durissime) quanto nella rappresentazione dell’assurdo che scaturisce dalla banalità, un punto nero che partorisce una voragine.
Ma nonostante la verità impugnata dagli autori non voglia avere solo a che fare con l’esattezza della cronaca, Diaz non si dimentica il contatto con la realtà e sceglie di mescolare in modo minuzioso alla ricostruzione (saggiamente realizzata fuori dall’Italia) alcuni autentici video girati proprio a Genova in quei giorni, chiudendo il cerchio su un’operazione che come poche altre ha saputo mescolare Storia e finzione; perseguendo sempre un obiettivo definitivamente civile ma con i mezzi e le armi che sono quelli del Cinema. Considerando i pochi anni, poco più di 10, passati da quel giorno, e tutti i rischi che ne conseguivano, quello ottenuto da Vicari è un risultato davvero insperato.
Diaz è un film spaventoso, bellissimo e doloroso – e un film necessario: non soltanto, come è più ovvio sostenere, per puntare il dito su una ferita mai rimarginata, ma anche per ricordare che un altro cinema (italiano) è possibile.
Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, 2012
A discutere delle differenze con la Storia e delle inesattezze del Romanzo lascio che ci pensino gli storici, gli esperti, ma non c’è dubbio che in Romanzo di una strage è anche questa confusione tra linguaggi, ciascuno con le sue regole ed esigenze, ad agire come tratto distintivo, e cinematografico. Nonostante le visibili libertà che lo allontanano dai territori della docufiction, termine scomodato abbastanza a sproposito, è evidente che il film nasce da un’esigenza prettamente didattica e per capirlo non c’è bisogno di leggere le interviste agli autori. Il problema più profondo di Romanzo di una strage proviene forse da questa pulsione, quasi pedagogica e tendenzialmente inattuale, che ha contribuito più di ogni altra a trasformarlo in ciò che è diventato nelle mani del trio Giordana, Rulli e Petraglia: un film secco, rigidissimo, mai veramente noioso ma decisamente poco coraggioso, che deve dire un determinato numero di cose e non può dirne altre, finendo per mescolare verità e romanzo, atti giudiziari e licenza poetica, libera reinterpretazione e imitazione pedissequa, in modo fin troppo ordinato e compiuto. Quasi tutto il film sembra muoversi in punta di piedi per non svegliare nessuno, e quando alla fine osa spostare il baricentro dalla cruda relazione all’interpretazione storica, lo fa in modo terribilmente prosaico, per di più all’interno di una cornice onirica che ne annulla l’effetto. Un paragone con La Meglio Gioventù è azzeccato, ma soltanto in contrasto: là ci si appropriava di un contesto storico per raccontare uno straordinario feuiletton televisivo tutto incentrato sui suoi personaggi, qui ci si appropria di due personaggi realmente esistiti (ma rivisitati in libertà, come in fondo è giusto che sia) per esporre un fatto storico, o una possibile lettura di tale fatto. In tal senso Romanzo di una strage ha un grosso merito, quello di aver riportato con innegabile professionalità l’attenzione su una tragedia che sembra lontana secoli ma che ancora fa male; nel farlo Giordana si è però dimenticato in parte di costruirci intorno un film che potesse stare in piedi da solo e soprattutto che potesse risultare avvincente anche per chi, la Storia, se l’è dimenticata oppure non l’ha mai conosciuta. Il cast fa quel che può, ma Favino e Mastandrea sono ingabbiati nell’austerità del progetto, Gifuni fa un Aldo Moro vacuamente identico all’originale (o meglio all’idea più diffusa sul modello), Lo Cascio e Chiatti sono pressoché inutili come gran parte delle molte figure di secondo piano; alla fine i migliori sono il Ventura di Denis Fasolo e il Freda di Giorgio Marchesi – sembrano usciti da un altro film, più aggressivo e squilibrato, più vicino al genere ma non per questo meno “politico”. Da un film del quale qui non c’è traccia.
Hindsight (Poo-reun so-geum) di Lee Hyun-seung, 2011
Nel complicato processo di selezione che porta alla visione di un film sudcoreano rispetto a un altro, la presenza di Song Kang-Ho vale come garanzia. Mal che vada, ci sarà Song Kang-Ho. Hindsight non è certamente di uno dei migliori film della sua carriera, ma l’attore è solitamente perfetto nel ruolo di un leggendario gangster che si è “ritirato” per aprire un ristorante. Al suo fianco durante il corso di cucina appare la motociclista ventenne Se-Bin (interpretata da Shin Se-kyung) che ovviamente nasconde un segreto, e non è lì per caso. Eccellente lui, bellissima lei, assai meno memorabile il resto: la produzione è curatissima ma patinata, la struttura è interessante (apre con la stilizzata morte del protagonista e si tuffa un lungo flashback volto alla spiegazione se non alla negazione della tragica premessa) ma il proseguimento della trama rivela un complicato quanto risaputo intreccio di debiti, ricatti, riscatti e killer col ciuffo che si svolge fino a un finale decisamente più morbido e rassicurante della media. Ma in fondo a Lee Hyun-Seung, inguaribile romantico (il suo ultimo film, uscito dodici anni fa, è il celebre melodramma Il Mare da cui è tratto La casa sul lago del tempo), interessano i dettagli affettuosi tra i due personaggi più che il collaudato contesto da mafia movie. In conclusione, un film sufficientemente godibile ma inconsistente, solo per completisti.
Balada triste de trompeta di Álex de la Iglesia, 2010
Nel mezzo della guerra civile spagnola, uno spettacolo circense viene interrotto dai militari e i clown sono costretti a combattere fino alla morte: uno di loro diviene il protagonista di un sanguinoso assalto che causerà il suo imprigionamento. Negli anni settanta, al tramonto del regime di Franco, il figlio rimasto orfano esordisce come “pagliaccio triste” in un circo di periferia dominato da un clown arrogante e dispotico, fidanzato con la seducente trapezista Natalia. Il nuovo arrivato se ne innamorerà, dando vita a un pericoloso triangolo.
Tra le firme più interessanti degli ultimi vent’anni di cinema spagnolo, Alex de la Iglesia aveva già dimostrato in passato (suoi gli imperdibili La Comunidad e Crimen Ferpecto) di saper contaminare i canoni e spiazzare le aspettative del pubblico con uno stile eclettico e virtuosistico e un nero, nerissimo senso dell’umorismo. Ma con questo film fa un enorme, impressionante passo in avanti: Balada triste è un film straripante ed eccessivo che mescola la commedia nera, il cinema horror, il melodramma e un’ambientazione storica ben precisa, raccontando una storia d’amore disperata, ossessiva e maniacale ma allo stesso tempo anche un tuffo nella pazzia la cui ferocia si rispecchia in quella della storia spagnola del novecento. Insomma, tutt’altro che un cult movie preconfezionato: nonostante l’approccio postmodernista, provocatorio e grottesco abbia radici già nei suoi primi lavori come Perdita Durango, qui De la Iglesia mostra una consapevolezza che va ben oltre la stravaganza e una bravura che lascia esterrefatti, confusi, eccitati e spaventati. Violentissimo e impulsivo, sfrenato ma curatissimo oltre che visivamente entusiasmante, Balada Triste riesce nell’intento di non farsi soffocare dall’evidenza e dalla forza delle sue metafore: è un grandissimo film di amore e follia raccontato con furia, passione ed eccezionale talento.
Non è semplice – o forse non è completo – parlare di Balada triste senza fare accenno alle traversie che l’hanno riguardato nel nostro paese, perché è uno dei casi più noti degli ultimi anni. Alla produzione del film, presentato a Venezia due anni fa, ha partecipato anche Mikado Film, che ne doveva infatti curare la distribuzione – ma le cui successive difficoltà ne hanno impedito l’uscita, pur essendo annunciata (con il titolo Ballata dell’odio e dell’amore e con tanto di trailer ufficiale) già dall’autunno del 2010 e poi di nuovo nel 2011, in sala e in home video. Per il momento il film si trova invece in una sorta di complicato limbo ed è complicato se non impossibile capire quando e se riusciremo mai a vederlo.
Per chi si fosse stufato di aspettare, il dvd spagnolo ha i sottotitoli inglesi.
Il titolo internazionale del film è The Last Circus.