Diaz – Don’t Clean Up This Blood
di Daniele Vicari, 2012
L’uscita a così breve distanza di Romanzo di una strage e di Diaz è curiosa e interessante per il modo in cui ci aiuta a osservare e distinguere due approcci radicalmente opposti a una materia sensibile e così delicata: il racconto cinematografico di un noto, bruciante fatto storico. E l’approccio scelto dal film scritto e diretto da Daniele Vicari e prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci non potrebbe essere più distante da quello di Giordana e Tozzi, perché scaturisce da un’idea decisiva: che si possa fare un film profondamente politico senza rinunciare al Cinema.
Tutto quanto, in Diaz, discende da questo stimolo primario e ineliminabile, a partire dalla struttura corale che si impadronisce di molte testimonianze trasformandole in veri personaggi di un intreccio dal respiro corale e, ancora di più, dall’intelligente struttura che avvolge (e rinchiude) questi personaggi utilizzando un’immagine solo apparentemente poco significativa (una bottiglia lanciata che si frantuma cadendo a terra) come perno narrativo dell’intera opera. Un “simbolo” che vuole funzionare anche come rottura di una tensione intensa e a tratti insostenibile, montata con un occhio (ma anche entrambi) al cinema di genere, più specificamente all’horror: la costruzione che porta gradualmente verso il blitz è un’alternarsi di casualità e presagi che sembra provenire da un film di zombi – e l’orrore che segue, benché terribilmente reale, non è che una conferma.
Quest’ultimo è un procedimento a cui il pubblico del “cinema italiano impegnato” non è abituato, ed un’idea piuttosto radicale che va ben oltre la rilettura noir del gangsterismo italiano fatta da Placido, e che si sporge verso il pubblico con l’audace sfrontatezza di un pugno nello stomaco e di un calcio nei denti: perché se parte del coraggio di Vicari sta in una sorta di dichiarata autocensura (ci si ferma dove si crede sia giusto, e non gli si può certo dar torto: un autore risponde alle proprie, di esigenze) e nell’idea, probabilmente impopolare, che le colpe vadano redistribuite e che il manicheismo non contribuisca a proteggere gli innocenti, non si può dire che il suo sguardo sia ammorbidito o tenue. Diaz picchia duro e dove fa più male, non solo nell’esplosione della furia tra le mura della Diaz o nell’angoscia della prigionia di Bolzaneto (comunque impressionanti e durissime) quanto nella rappresentazione dell’assurdo che scaturisce dalla banalità, un punto nero che partorisce una voragine.
Ma nonostante la verità impugnata dagli autori non voglia avere solo a che fare con l’esattezza della cronaca, Diaz non si dimentica il contatto con la realtà e sceglie di mescolare in modo minuzioso alla ricostruzione (saggiamente realizzata fuori dall’Italia) alcuni autentici video girati proprio a Genova in quei giorni, chiudendo il cerchio su un’operazione che come poche altre ha saputo mescolare Storia e finzione; perseguendo sempre un obiettivo definitivamente civile ma con i mezzi e le armi che sono quelli del Cinema. Considerando i pochi anni, poco più di 10, passati da quel giorno, e tutti i rischi che ne conseguivano, quello ottenuto da Vicari è un risultato davvero insperato.
Diaz è un film spaventoso, bellissimo e doloroso – e un film necessario: non soltanto, come è più ovvio sostenere, per puntare il dito su una ferita mai rimarginata, ma anche per ricordare che un altro cinema (italiano) è possibile.
Questo quello che il film non dice, secondo Agnoletto:
http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=9740&typeb=0&Quel-che-Diaz-non-dice-
ottimo tutto. la (sequenza della) bottiglia però è realmente accaduta, purtroppo per una bottiglia infrantasi a terra hanno cercato la giustificazione di quel massacro. fa quasi ridere, invece purtroppo è tutto vero.
Bel post, con cui concordo fortemente. L’idea di Diaz “film horror” l’ho fatta a anche mia dopo averla letta in un tuo twit. Confesso pero che l’assenza di determinate “spiegazioni” (secondo me la storia di come i Tonfa siano finiti a Genova andava raccontata) un poco mi ha deluso
Agnoletto voleva un documentario di 6 ore, di quelli che passano in televisione alle 3 di notte o circolano su Youtube.
Giusto per dire “almeno fra di noi queste cose vediamocele”…. Diaz è un film che esce in 240 copie ed è giusto che non sia un mero elenco ma racconti una storia. Per chi vuole approfondire c’è Internet.
Caro Kekkoz non dirti se è un film bellissimo, uscito dal cinema qualcuno mi ha chiesto il parere e gli ho risposto che stavo così incazzato che non sapevo formulare un appunto critico al film.
Ci sono parti che scricchiolano, altre un po’ forzate forse, ma sono piccolezze di fronte alla potenza e la forza con cui Diaz ti colpisce.
Colpisce duro e per una volta non si parla di fatti di 30anni fa.
In questo Procacci e Vicari dimostrano, come dici giustamente te, che un cinema italiano diverso è possibile.
Parte centrale a parte, il resto del film mi è sembrato abbastanza brutto.
I personaggi sono stereotipati e piatte, la struttura corale regge fino a un certo punto, molte scene le ho trovate insipide e fastidiose, fatte male, quasi da soap, così come i dialoghi.
Probabilmente ha ragione Watanabe, basta la sequenza dell’irruzione alla Diaz (di una violenza quasi disturbante, e in grado di restituire l’angoscia e il senso di impotenza delle vittime) per redimere il film, però mi sembra giusto vederne anche i difetti macroscopici, soprattutto di scrittura.
E se si rinuncia all’esattezza della cronaca, e a fare un nome che sia uno, non solo di colpevoli e mandanti, ma persino delle vittime, mantenendo però la pretesa di raccontare quello che veramente è successo, il rischio è di mettere a repentaglio tutta l’operazione.
P.S. Qualcuno sa dirmi perché Guadagnucci non compare col suo nome e cognome, ma come giornalista di una fantomatica Gazzetta di Bologna? E’ del Resto del Carlino, era alla Diaz, è stato pestato, ci ha scritto sopra un paio di libri.
Vicari dice che nel momento in cui si è trovato a non poter mettere alcuni nomi, non ricordo se vittime o carnefici, ha deciso di non mettere anche gli altri. C’è sempre un processo in corso, sono effettivamente fasi delicate.
Noi siamo abituati a vedere ricostruzioni precise e minuziose, con tesi da dimostrare e congetture, in film sugli anni di Piombo dove tutto ormai è prescritto.
Qui legalmente è un altra storia.
ecco sì, il profondo senso di ingiustizia con cui esci e la scena dentro la scuola salvano il tutto.
ma la ripresa finale delle montagne di Vipiteno? Il black block dispiaciuto? Le sbrodolature sulle storie d’amore e/o incontri fugaci?l’orchestrina à la Bregovic? la poliziotta con la crisi di coscienza? il montaggio che non regge manco per niente, nonostante sia lì apposta per far bella mostra di sè?
grande fotografia, specie dove sembra di guardare le pagine di un quotidiano, colonna sonora degna di nota, Santamaria credibile, Biascica purtroppo mi sarà sempre Biascica, Germano sìdaivabene ma non é che si sia dovuto sforzare poi chissà quanto.
in questo film il tema stesso aveva un grosso potenziale a livello di spettacolarità cinematografica – e non mi si dica che pecco di cinismo – per cui mi pare fallimentare giungere alla conclusione che quel pezzo é ottimo, per poi aggiungere che il resto ‘nzomma.
Era sul resto, che poteva incantare Vicari.
Ho trovato più violenza nelle crocette verdi sulle guance che nei manganelli a pioggia, e ritengo il film necessario solo nella misura in cui interessi informare più persone possibili, e magari anche gli attuali adolescenti. Ben sapendo che chi fruisce di cinema Vanzina e avrebbe un sacrosanto bisogno di vedere queste cose, non ci andrà mai, manco prendesse un Oscar, probabilmente.
Cinematograficamente, mi si perdoni l’ardire, non ho visto chissà quali ottimi livelli di cinema italiano.
@watanabe
ok, c’è il processo e sono passati solamente dieci anni dal tutto, proprio per questo è una scelta coraggiosa fare un film sulla Diaz: se però le cautele non solo legittime ma probabilmente necessarie ti costringono a non parlare del perché di quello che è successo (a meno di volere sovrainterpretare un paio di dialoghi che restano volutamente sul vago) e a disseminare qualche invenzione di per sé ininfluente ma plateale (come appunto la Gazzetta di Bologna) io spettatore rischio di uscire dal cinema con qualche dubbio: fino a che punto hai voluto mischiare la narrazione con la realtà? Fino a che punto hai dovuto farlo?
Su tutto il resto sono d’accordo con la libraia
Pingback: DIAZ di Daniele Vicari (ita 2012, Fandango) « Cinema Snaporaz