A.C.A.B.: All Cops Are Bastards
di Stefano Sollima, 2012
Per fare un film come ACAB in Italia ci vuole un po’ di fegato. Da una parte o dall’altra, ci si espone alla polarizzazione del discorso culturale che tende a ignorare caratteristiche effettive del film concentrandosi, entrando nel caso specifico, sulla prospettiva inusuale da cui è narrato. Ma la verità è che un film sui celerini si può raccontare soltanto (o meglio, se vogliamo) dal punto di vista dei celerini. E che il punto di vista narrativo non coincide con un’identificazione con un sistema di valori. Sollima in questo senso è molto intelligente nel bilanciare empatia e sgradevolezza, vicinanza e distacco, mostrando i suoi personaggi come pedine di un ingranaggio sporco ma anche come primi motori del loro destino, per cui l’umanità non può essere svincolata dalla propria capacità di commettere terribili errori, di ammetterli, di ripeterli, di pagarne le conseguenze. In tal senso, ACAB sembra quasi un cugino di Diaz, non solo perché lo spettro degli avvenimenti genovesi aleggia sull’intera pellicola, quasi come se fosse un sequel ribaltato (i protagonisti erano al G8, i fatti della Diaz vengono citati in modo esplicito in almeno due scene) ma perché anche Sollima è riuscito a fare un’operazione vicina a quella di Vicari, ovvero un film che parla di personaggi contemporanei e delle contraddizioni dell’Italia di oggi, un film anche “politico” insomma, senza dimenticare il gusto per la narrazione, la cura nel disegno dei personaggi e nella messa in scena, avvicinandosi ancora di più a modelli esterni che sappiano affrontare questi contrasti senza finire schiacciati dai compromessi. L’esperienza della serie Romanzo Criminale è stata in questo senso una grande palestra per il regista, finora soltanto televisivo, e la freschezza e l’attualità del suo sguardo si vede, per esempio, nell’importanza che viene data alle scele musicali, non ricercatissime ma sempre e comunque significative ai sensi della scena – come i titoli di testa (dopo un formidabile incipit “da pilot”) accompagnati da Seven Nation Army dei White Stripes o, ancora di più, la durissima scena del pestaggio con Where is my mind? dei Pixies in sottofondo. Al fianco di un’ottima produzione e di un cast validissimo (in testa Giallini e Favino, perfetti), il limite maggiore è semmai la sceneggiatura scritta a sei mani, che aveva il compito ingrato o quantomeno arduo di trasformare l’inchiesta di Carlo Bonini in finzione e che a volte si incaglia sulla necessità di far trasparire con chiarezza un messaggio – un esempio perfetto di questa difficoltà è nel finale: l’idea di trasformare la città devastata dai teppisti in un ambiente da film di zombie metafisico è magnifica, così com’è di grande effetto l’inquadratura tronca con cui il film si chiude, ma il riferimento storico che la precede di poco è davvero troppo sfacciato. Abbiamo capito l’intento, ma ci saremmo arrivati da soli.