maggio 2012

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A.C.A.B.: All Cops Are Bastards, Stefano Sollima 2012

A.C.A.B.: All Cops Are Bastards
di Stefano Sollima, 2012

Per fare un film come ACAB in Italia ci vuole un po’ di fegato. Da una parte o dall’altra, ci si espone alla polarizzazione del discorso culturale che tende a ignorare caratteristiche effettive del film concentrandosi, entrando nel caso specifico, sulla prospettiva inusuale da cui è narrato. Ma la verità è che un film sui celerini si può raccontare soltanto (o meglio, se vogliamo) dal punto di vista dei celerini. E che il punto di vista narrativo non coincide con un’identificazione con un sistema di valori. Sollima in questo senso è molto intelligente nel bilanciare empatia e sgradevolezza, vicinanza e distacco, mostrando i suoi personaggi come pedine di un ingranaggio sporco ma anche come primi motori del loro destino, per cui l’umanità non può essere svincolata dalla propria capacità di commettere terribili errori, di ammetterli, di ripeterli, di pagarne le conseguenze. In tal senso, ACAB sembra quasi un cugino di Diaz, non solo perché lo spettro degli avvenimenti genovesi aleggia sull’intera pellicola, quasi come se fosse un sequel ribaltato (i protagonisti erano al G8, i fatti della Diaz vengono citati in modo esplicito in almeno due scene) ma perché anche Sollima è riuscito a fare un’operazione vicina a quella di Vicari, ovvero un film che parla di personaggi contemporanei e delle contraddizioni dell’Italia di oggi, un film anche “politico” insomma, senza dimenticare il gusto per la narrazione, la cura nel disegno dei personaggi e nella messa in scena, avvicinandosi ancora di più a modelli esterni che sappiano affrontare questi contrasti senza finire schiacciati dai compromessi. L’esperienza della serie Romanzo Criminale è stata in questo senso una grande palestra per il regista, finora soltanto televisivo, e la freschezza e l’attualità del suo sguardo si vede, per esempio, nell’importanza che viene data alle scele musicali, non ricercatissime ma sempre e comunque significative ai sensi della scena – come i titoli di testa (dopo un formidabile incipit “da pilot”) accompagnati da Seven Nation Army dei White Stripes o, ancora di più, la durissima scena del pestaggio con Where is my mind? dei Pixies in sottofondo. Al fianco di un’ottima produzione e di un cast validissimo (in testa Giallini e Favino, perfetti), il limite maggiore è semmai la sceneggiatura scritta a sei mani, che aveva il compito ingrato o quantomeno arduo di trasformare l’inchiesta di Carlo Bonini in finzione e che a volte si incaglia sulla necessità di far trasparire con chiarezza un messaggio – un esempio perfetto di questa difficoltà è nel finale: l’idea di trasformare la città devastata dai teppisti in un ambiente da film di zombie metafisico è magnifica, così com’è di grande effetto l’inquadratura tronca con cui il film si chiude, ma il riferimento storico che la precede di poco è davvero troppo sfacciato. Abbiamo capito l’intento, ma ci saremmo arrivati da soli.

Punch, Lee Han 2011

Punch (Wan-deuk-i)
di Lee Han, 2011

Cresciuto dallo zio e dal padre, un gobbo clown venditore ambulante, il diciassettenne Wan-Deuk vive in un quartiere popolare, taciturno e isolato dai suoi coetanei. Il suo scontroso professore e vicino di casa Dong-Joo, per la cui morte Wan-Deuk si ritrova periodicamente a pregare, lo prende sotto la sua protezione a modo suo, e dopo avergli rivelato l’identità della madre, lo aiuta a coltivare il suo talento: la lotta. Che a dispetto della trama e del titolo internazionale Punch non sia un film di boxe né un “film sportivo” in senso stretto lo si evince facilmente dal fatto che in tutto il film c’è un solo vero incontro di kickboxing, anche se non mancano alcuni cliché del genere – come il montage degli allenamenti. Il film di Lee Han, sorprendente successo al box office (quarto film più visto in assoluto del 2011 in Corea del Sud), è in verità una gradevole commedia proletaria che funziona sia come romanzo di formazione di un giovane povero alla ricerca della sua identità e della felicità, sia come storia di un’amicizia impossibile e di rapporti paterni irrisolti, sia infine come affresco quasi corale di una bizzarra comunità di perdenti che imparano a farsi forza a vicenda. Lee Han riesce nell’intento di trasformare una materia potenzialmente deprimente in un vero e proprio feel-good movie, il cui ottimismo in barba alle avversità sociali ed economiche risulta in definitiva quasi travolgente nella sua ingenuità. Il cast è ottimo e Yu Ah-In è perfetto nel ruolo del ragazzino ribelle (nonostante abbia già 25 anni) ma la differenza vera la fa lo strabiliante Kim Yun-Seok, che dopo essersi fatto notare nei due bellissimi film diretti da Na Hong-Jin (The Chaser e The Yellow Sea) sfodera qui, nel ruolo del burbero professore marxista, un inaspettato e sfumatissimo talento leggero: davvero uno dei migliori attori coreani di questi anni.

Il film è stato presentato al Far East Film Festival di Udine lo scorso aprile.

Su Yesasia è disponibile l’edizione dvd coreana (Regione 3).

Sunny, Kang Hyeong-Cheol 2011

Sunny (Sseo-ni)
di Kang Hyeong-Cheol, 2011

Durante una visita all’anziana madre in ospedale, Na-Mi incontra una vecchia amica d’infanzia, che la informa di essere malata e ormai terminale. E le rivela un desiderio: incontrare di nuovo il gruppo di amiche (le “Sunny”) con cui entrambe hanno perso i contatti da più di vent’anni. Presentato nella opening night del Far East Film Festival di quest’anno, Il film di Kang Hyeong-Cheol (già regista del campione d’incassi Scandal Makers) è stata la vera sorpresa del botteghino sudcoreano nel 2011: terzo titolo più visto dell’anno (7,3 milioni di biglietti) per una storia che mescola malinconia e leggerezza rivelando gradualmente le storie passate e i destini delle sue protagoniste. A dispetto delle possibili apparenze, è veramente impossibile resistere a Sunny: anche autore della brillante e ingegnosa sceneggiatura, Kang ha sfruttato al meglio un ricchissimo cast di straordinarie interpreti (sia nel presente che nel passato) e grazie a un uso magistrale (anche tecnicamente) del montaggio parallelo ha trovato un equilibrio perfetto tra commedia e dramma, ma anche tra il gusto per il racconto e quello per la ricostruzione storica, peraltro di un popolo che in quegli anni stava attraversando grandi cambiamenti tra cui l’inizio di un’inesorabile occidentalizzazione (il mito de Il Tempo delle Mele, l’ossessione per i marchi) in contrasto con la coercizione della dittatura militare. Particolarmente originale è proprio il modo in cui Sunny affianca le vicende personali dei suoi personaggi alla Storia del paese, in particolare alla violenta repressione dei movimenti studenteschi da parte dell’esercito del presidente Chun Doo-hwan; il culmine è la sequenza inaudita in cui la rissa tra le due bande di ragazzine ha come sfondo proprio le lotte tra i manifestanti e i poliziotti nelle strade di Seoul, sdrammatizzata da uno stile cartoonesco e dalle note di Touch by touch dei Joy. La musica, più in generale, ha un’importanza fondamentale nel film: l’inevitabile Reality di Richard Sanderson, ma anche le canzoni di Cyndi Lauper e ovviamente il pezzo di Boney M che dà il nome al gruppo di amiche (e al film) e che diventa poi il fulcro di un finale sfacciatamente commovente.

War of the Arrows, Kim Han-min 2011

War of the Arrows (Choi-jong-byeong-gi Hwal)
di Kim Han-min, 2011

Si fa un gran parlare di una recente tendenza, forse del tutto casuale: la notevole presenza di archi e frecce in molti film come Hunger Games, Brave o The Avengers ma anche in tv con i prossimi Arrow Revolution. A modo loro, in Corea del Sud sono arrivati un passo in anticipo. In un anno particolarmente fortunato per il botteghino sudcoreano, il campione d’incassi tra i titoli locali è stato proprio il film di Kim Han-min, che nel corso del 2011 ha totalizzato quasi 7 milioni e mezzo di spettatori – battuto solo, ma a breve distanza, da Transformers 3. Ambientato durante l’invasione della Corea da parte della Manciuria (siamo nel 1636, per capirci), War of the Arrows è un film di avventura in costume dove le più tradizionali arti marziali e le lame del wuxia lasciano il posto a miracolosi e precisissimi tiri con l’arco, tendendo ad allontanarsi dalla cornice storica per concentrarsi sulla sfida a frecciate tra l’eroico arciere Nam-Yi e la sua nemesi Jyuu Shin-Ta. Il cuore del film è infatti il lunghissimo e appassionante inseguimento che occupa quasi tutta la seconda metà e che Kim Han-min orchestra con ritmo e intelligenza, quasi senza dialoghi, giocando sul continuo ribaltamento tra vittima e carnefice, azzeccando alcune ottime trovate (soprattutto quella della rupe) e recuperando l’interesse che, nella prima parte, si faceva desiderare – fino all’inevitabile pathos dello scontro finale. In definitiva, il film è un divertimento innegabile anche se piuttosto standardizzato e senza particolari guizzi. Se non nel cast: a parte la sfida virile tra due facce incredibilmente carismatiche come quelle di Park Hae-Il (il buono) e Ryoo Seung-Ryong (il cattivo), anche la brava semi-esordiente Moon Chae-won (già star della tv coreana) riesce a farsi notare a dispetto del poco spazio rimasto.

Il film è già disponibile nell’edizione dvd britannica, anche in blu-ray.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

Cinema Verite, Shari Springer Berman e Robert Pulcini 2011

Cinema Verite
di Shari Springer Berman e Robert Pulcini, 2011

All’inizio degli anni settanta, il produttore Craig Gilbert ebbe un’idea a suo modo geniale: riprendere per mesi una tipica “famiglia americana” e ricavarne un documentario televisivo lungo dieci ore. Superata la diffidenza della PBS, ne uscì An American Family, andato in onda nel 1973 e divenuto un caso mediatico senza precedenti: dodici episodi in cui la vita di una famiglia apparentemente felice e normale veniva osservata durante il suo graduale, inevitabile disfacimento. Causato in parte, ovviamente, dal programma stesso. Questo film per la tv prodotto e trasmesso dalla HBO racconta una versione romanzata di tutta la storia (assai meno nota da noi che negli states), dalla genesi del progetto alle polemiche che lo seguirono, trovando soluzioni intelligenti per far dialogare il materiale d’archivio con la sua ricostruzione e azzeccando un ottimo cast – su tutti Diane Lane e James Gandolfini. La coppia di registi di American Splendor viene proprio dal documentario e utilizza la storia dei Loud per riflettere sull’evoluzione del mezzo televisivo – An American Family è considerato un antesignano degli odierni reality – e più in generale sulla fine dell’innocenza della televisione americana (non a caso sono gli ultimi anni della guerra in Vietnam) anche se spesso Cinema Verite funziona più che altro come discreto period movie.

Spellbound, Hwang In-ho 2011

Spellbound / Chilling Romance* (O-ssak-han Yeon-ae)
di Hwang In-ho, 2011

Tra gli aspetti che mi colpirono subito del cinema sudcoreano, quando cominciai a interessarmene, c’era la capacità di mescolare i generi e soprattutto i registri con sfrontatezza, entusiasmo e qualche volta persino con coraggio. Spellbound in tal senso si racconta molto facilmente: è in tutto e per tutto una commedia romantica, tipicamente coreana, ma è anche una tenebrosa ghost story, ben inserita nella recente tradizione del k-horror. L’ostacolo alla storia d’amore tra l’illusionista Jo-Goo e la solitaria assistente Yeo-Ri è infatti un particolare talento di quest’ultima: vede la gente morta. E chiunque le stia troppo vicino rischia di diventarne vittima.

Hwang In-ho, sceneggiatore al suo esordio dietro la macchina da presa, riesce con mano sicura a far convivere le due anime del film: da una parte il romance, declinato sia nella forma più comica e buffa sia in quella più melodrammatica; dall’altra il fantastico, con alcune sequenze che, pur con leggerezza, non hanno molto da invidiare a cugini horror meno allegri. “In un film del terrore la protagonista non si innamora mai perché se avesse qualcuno accanto non avrebbe più paura”, si dice nel film; perché Hwang non si limita a giocare con le convenzioni (capelli lunghi neri, rancori, bambini pallidi) e inserisce nella stessa sceneggiatura i meccanismi che danno vita al film – lui è appassionato di commedie con lieto fine, lei risponde “la mia vita assomiglia più a un horror” – scoprendo quindi tutte le carte, fin dallo spettacolo a tema con cui Jo-Goo ha ottenuto il successo.

Spellbound è un film bizzarro e tenerissimo che salta da un tono all’altro con naturalezza e brio, rinforzato da una produzione perfetta, da dialoghi davvero divertenti e da due attori (soprattutto la graziosa Son Ye-Jin di My Wife Got Married) che affrontano i loro ruoli con senso dell’umorismo, oltre che con bravura. Insomma, un piacevolissimo film che nel suo piccolo contiene tutta la vitalità del cinema sudcoreano.

Uscito nel dicembre 2011 in patria, il film è stato un buon successo commerciale anche grazie (pare) al passaparola su Internet: ottavo film coreano dell’anno e quattordicesimo nella classifica complessiva degli incassi.

Per chi non ha problemi con la Regione 3, è disponibile nell’edizione dvd coreana.

* il film è conosciuto all’estero con entrambi i titoli: “Spellbound” è quello internazionale, “Chilling Romance” è la traduzione letterale dell’originale

The Woman in Black, James Watkins 2012

The Woman in Black
di James Watkins, 2012

Un horror inglese prodotto dalla Hammer, una volta abituatisi alla melodia della frase, sembra davvero un caso di condizioni produttive che influenzano artisticamente un’opera. Dopotutto, per sua stessa natura il film di James Watkins, alla sua seconda prova come regista dopo Eden Lake, sembra presentarsi come erede ufficiale di una lunga tradizione, quella di uno dei marchi per eccellenza del cinema di genere. Un horror d’altri tempi, insomma, volutamente desueto e “analogico”, in cui il montaggio sonoro e il make-up, le silhouette e la nebbia sono ben più funzionali degli effetti speciali odierni per provocare emozioni e spaventi. Il film non fa nulla per allontanare questa impressione: tratto da un libro di Susan Hill di una trentina d’anni fa e ambientato nella provincia inglese all’inizio del secolo scorso, è un ricettario, compiuto e piuttosto godibile, della ghost-story britannica che trae il massimo vantaggio da una sceneggiatura (di Jane Goldman, collaboratrice di Matthew Vaughn fin da Stardust) semplice e anch’essa volutamente inattuale e da una fotografia (di Tim Maurice-Jones, ex sodale di Guy Ritchie) che utilizza in modo intelligente la peculiare ambientazione storica e geografica. Curiosamente, il film non ha il suo culmine nella parte finale ma in una tesa e lunghissima sequenza centrale (quella in cui Arthur passa la notte nella casa stregata), perfetta antologia di trucchi e stilemi del genere, dalle apparizioni improvvise ai classici minacciosi scricchiolii. Verso la fine il film finisce per prendersi un po’ troppo sul serio, rinuncia a un po’ della sua gradevolissima obsolescenza (talvolta sembra persino strizzare l’occhio al j-horror) e chiude in modo poco convincente; ma rimane un suggestivo esercizio di stile, che peraltro permette al bravo Daniel Radcliffe il primo passo di una – probabilmente ardua – fuga dalla maledizione del typecasting.

Quella casa nel bosco (The Cabin in the Woods), Drew Goddard, 2011

Quella casa nel bosco (The Cabin in the Woods)
di  Drew Goddard, 2011

Chi si diletta scrivendo di film, e talvolta anche chi ci si guadagna da vivere, viene messo periodicamente di fronte a un piccolo dilemma: quanto raccontare della trama? In che modo? Con quale precisione? Dove finisce una premessa narrativa e inizia uno “spoiler”? E soprattutto: ha davvero senso? La risposta, come spesso accade con questi argomenti, suona più o meno: dipende. Proprio per questo, scrivere di Quella casa nel bosco è un’impresa davvero atipica. Non tanto perché Drew Goddard o il produttore e co-sceneggiatore Joss Whedon abbiano chiesto a tutti e a più riprese di non raccontare nulla, ma perché il film si configura in modo tale per cui sarebbe davvero un peccato non accontentarli.

Ci sono indubbiamente modalità, anche online, entro le quali si può dare per scontata la visione del film e discutere fino in fondo delle sue implicazioni; non credo però che questo post sia il luogo adatto. Per quanto mi riguarda, il modo migliore di parlarne sarà quindi di parlarne il meno possibile, consigliandolo ad amici che potrebbero essere in grado di apprezzarlo – voi tutti inclusi, va da sé – limitandomi a spiegare loro che Quella casa nel bosco è tutt’altro e molto più che un horror su una casa in un bosco.

Nel frattempo, a vostro rischio e pericolo, un elenco di cose che forse si possono dire:

  • Goddard e Whedon sono riusciti a trovare un equilibrio straordinario tra riflessione sul genere e la messa in scena del genere stesso. The Cabin in the Woods funziona insomma benissimo sia come film fantastico che come esercizio metanarrativo, e non sacrifica mai fino in fondo il puro divertimento per il gioco intellettuale o lo sberleffo.
  • la brillante sceneggiatura è il punto di forza assoluto del film, non soltanto per il modo in cui è strutturata, ma per la ricchezza di dialoghi acuti e spesso esilaranti, per come centellina i dettagli di ogni situazione fino a rivelarla in tutta la sua natura, per la naturalezza con cui riesce a manovrare registri diametralmente opposti.
  • nonostante il budget relativamente ridotto (circa 12 milioni) la confezione è curatissima; la fotografia è a cura di Peter Deming, quello di Mulholland Drive.
  • il motivo per cui è meglio che non sappiate niente non ha veramente a che fare con veri twist narrativi, con i più classici “colpi di scena”, come spesso accade nei film che vi chiedono di non essere raccontati. In verità, saprete di cosa si tratta entro pochi minuti. A quel punto non vi resterà che godervi lo spettacolo.
  • è un film più intelligente e divertente che realmente spaventoso: non abbiate timore.
  • per gli amanti di cinema horror invece si tratta di un passaggio obbligato: al di là delle conclusioni in sé a cui giunge attraverso lo sviluppo della trama, il film è realizzato pensando a loro, con un gusto per il dettaglio e per la citazione che obbligherà a ripetere la visione più e più volte. Lo faremo ben volentieri.
  • Quella casa nel bosco è uno spasso tale che, se anche io volessi prendermi il lusso di dirvi il perché e il percome, non saprei davvero dove cominciare.

Dark Shadows, Tim Burton 2012

Dark Shadows
di Tim Burton, 2012

Da qualche anno a questa parte, quando si parla di Tim Burton è bene specificare da quale parte della barricata ci si trovi. L’orribile Alice in Wonderland da una parte e il meraviglioso Big Fish dall’altra sono forse gli unici due suoi film degli ultimi 15 anni a mettere d’accordo quasi tutti: per il resto, molti suoi fan nel corso del tempo si sono allontanati a causa di alcuni titoli che avrebbero “tradito” il cuore più amato della sua filmografia, diventando ripetitivi, meccanici e fasulli. Giusto per capirci, io me ne resto dall’altra parte della barricata: per esempio, considero Sweeney Todd un grande musical sanguinario penalizzato forse da musiche poco più che mediocri, La Sposa Cadavere era il mio “numero tre” tra i film usciti nel 2005, La Fabbrica di Cioccolato e Planet of the Apes sono due film riusciti solo a metà ma troppo spesso ingiustamente maltrattati. Difendere Tim Burton però non è un’impresa semplice, richiede dedizione e pazienza, anche perché il regista americano non fa nulla per distanziarsi dalle manie che gli vengono attribuite.

Mi piace immaginare, anche se sono già del tutto certo che non accadrà, che Dark Shadows possa tornare a riportare la pace tra difensori e detrattori. Tratto da una “soap con vampiri” degli anni settanta, un curioso oggetto vintage quasi del tutto dimenticato e riesumato con un affetto privo di eccessiva riverenza, il film è infatti davvero un gran divertimento. Al di là di una gestione dei registri forse un po’ pasticciata – ma quantomeno trascinata da una vivacità che Burton sembrava aver perduto – sa giocare con i cliché del period movie e con quelli dello stesso gotico burtoniano, mescolando in modo inusuale i consueti omaggi cinefili agil stilemi della soap opera televisiva. Lo sceneggiatore Seth Grahame-Smith, diventato una penna richiestissima dopo il caso di Pride and Prejudice and Zombies, non si preoccupa troppo di nascondere le metafore agli occhi del pubblico e preferisce sfoggiare una repertorio comico da time travel che sfrutta ogni variante della sua premessa (l’uomo settecentesco alle prese con le bizzarrie degli anni settanta) e porta con sé dalla sua esperienza letteraria una straordinaria dote – quella di non prendersi mai del tutto sul serio, anche al momento della resa dei conti. Una dote di cui, dopo il ridicolo involontario di Alice, si sentiva il bisogno come dell’aria.

Dal canto suo, il ricchissimo cast riesce a compiere l’impresa più ardua che gli veniva richiesta, ovvero quella di arginare l’ingombrante presenza di Johnny Depp. Se l’attore è certamente ancora popolarissimo ed è la “star” attraverso cui il film viene venduto al pubblico in tutto il mondo, non c’è dubbio che nel tempo sia diventato il maggior argomento d’attacco nei confronti dei film più recenti di Burton. E non sempre a torto. Risaputo make-up a parte, Depp fa il suo lavoro con classe e abnegazione, ma in Dark Shadows c’è ben altro: Michelle Pfeiffer, che comprende meglio di tutti gli altri come funziona il linguaggio di una soap, e recita di conseguenza; Helena Bonham Carter, che prima di essere la musa del regista è un’attrice con una mimica strepitosa e un invidiabile intuito comico; Chloe Moretz, che si impegna un po’ troppo ma all’occorrenza sa riscattarsi; la graziosa Bella Heathcote, che con quella faccia non poteva che finire nei panni dell’eroina emaciata in un film di Tim Burton. Ma soprattutto c’è Eva Green: grazie a lei la biondissima e demoniaca Angelique Bouchard è il personaggio più riuscito del film e tra i più memorabili della filmografia burtoniana, ruba la scena a tutti ogni secondo in cui è in campo con una bellezza abbagliante e un sorriso perfido e malefico. Un amore a seconda vista.

Tra gli aspetti che colpiscono di più in Dark Shadows c’è però sicuramente la magnificenza visiva, che ne fa uno dei film di Burton più “belli a vedersi”: il direttore della fotografia Bruno Delbonnel ha alle spalle un curriculum davvero notevole (da Amelie al Principe Mezzosangue fino al Faust di Sokurov) e qui conferma la sua enorme bravura e la sua elasticità assecondando le visioni del regista (per dirne una, il fantasma di Josette arriva dritto dalla Sposa Cadavere) non limitandosi a riempire il film di carrelli e dolly virtuosistici ma facendo respirare un senso di cura quasi ossessiva per ogni singola inquadratura, dalla saturazione dei colori alla posizione dei corpi e degli oggetti nello spazio, che lascia spesso ipnotizzati – e che richiede di essere goduta sul grande schermo. Splendente superficie senza alcuna profondità? Non proprio. Si potrà obiettare che Dark Shadows è più che altro un gioco, a tratti volutamente sciocco, che a volte sacrifica il pathos per una (buona) risata: ma è anche un film in cui Burton recupera una spontaneità, un equilibrio nella gestione tecnico-artistica e un senso dell’umorismo che non gli riconoscevamo da tempo, nonostante l’impegno preso per difendere la sua buona fede. La barricata resta alta, vedrete, ma stavolta non avrebbe nemmeno bisogno del nostro aiuto.

21 Jump Street, Phil Lord & Chris Miller 2012

21 Jump Street
di Phil Lord & Chris Miller, 2012

“Teenage the fuck up!”

Negli ultimi anni, molti film hanno cercato di riportare sullo schermo la migliore tradizione dei buddy movie polizieschi. Il tentativo è sempre più o meno lo stesso: fare una commedia che non sia una parodia ma dove funzioni anche il lato puramente action. I risultati sono alterni: ha fallito Kevin Smith con il suo Cop Out, è andata decisamente meglio ad Adam McKay e Will Ferrell in The Other Guys. Ma se Hot Fuzz di Edgar Wright rimane un modello insuperato da imitare, 21 Jump Street è forse il film che si avvicina di più al suo equilibratissimo miscuglio di omaggio affettuoso e divertimento puro.

Chi avrebbe mai scommesso su un film come 21 Jump Street? Un lungometraggio tratto da una serie tv conclusa più di vent’anni fa e che solitamente viene ricordata per aver lanciato Johnny Depp? Peraltro un film comedy tratto da una serie drama? E tutto ciò dopo il disastro (artistico, si intende) dello Starsky & Hutch di Todd Phillips? Per fortuna a scrivere il film c’è Michael Bacall, che viene – guarda il caso – da Scott Pilgrim di Wright, e per fortuna a dirigere ci sono Phil Lord e Chris Miller, ex ragazzi-prodigio della tv, responsabili del sorprendente film d’animato Piovono Polpette. Insomma, poteva essere l’ennesima sciocchezza ridanciana prodotta in un clima di zero creatività in cui finisce a scavare nei fondi di magazzino della cultura televisiva americana (vedi alla voce Land of the Lost); invece, a sorpresa, 21 Jump Street è uno dei film più esilaranti della stagione.

In parte anche perché è completamente consapevole del tipo di operazione che rappresenta, lo fa presente fin dalle primissime battute, e se non perde l’occasione per sottolineare ogni cliché (un esempio per tutti, il capitano della squadra degli infiltrati che si presenta dicendo “I know what you’re all thinking: Angry Black Captain!”) non li ridicolizza mai fino in fondo ma in qualche modo li abbraccia, come si fa con un vecchio amico a cui si vuole bene nonostante tutto. L’arrivo dei due poliziotti infiltrati nella high school è poi l’occasione per ribaltare in modo geniale gli stereotipi del liceo americano: leggere fumetti è diventato popolare, essere un jock manesco ti condanna all’emarginazione sociale. Cos’è successo nel frattempo? ”Fuck you, Glee!” risponde Channing Tatum.

Uno dei meriti maggiori di 21 Jump Street è stato proprio intuire, portare alla luce e sfruttare fino in fondo il potenziale comico di “COLLO” Tatum, tutt’altro che mera spalla dell’ormai navigato e qui dimagritissimo Jonah Hill: i due formano una coppia comica perfetta e capace di autentiche meraviglie – con il supporto di un ricco cast di contorno tra cui spiccano Dave Franco, Ice Cube, Ellie Kemper, Rob Riggle e l’adorabile Brie Larson. Bacall e il duo di registi ci mettono tutto il resto: da una parte una lista interminabile di dialoghi incredibilmente spassosi e immediatamente citabili (“stop fuckin’ with Korean Jesus! He’s busy with korean shit!”), dall’altra una cura superiore alla media delle sequenze più movimentate (che siano inseguimenti, sparatorie o viaggi lisergici sotto effetto di droghe sintetiche) che a tratti  ricordano proprio il mondo cartoonesco dentro cui Lord & Miller si sono fatti le ossa.

Una gran bella sorpresa.

Scialla!, Francesco Bruni 2011

Scialla!
di Francesco Bruni, 2011

In un’annata non troppo entusiasmante per il cinema italiano, Scialla! ha saputo difendersi piuttosto bene, a partire dalla vittoria (scontata) di Controcampo Italiano a Venezia, col favore di molta critica, a quella del David come miglior regista esordiente. In verità, come sappiamo bene, Bruni è tutt’altro che un “esordiente”: ha scritto tutti i film del suo amico Paolo Virzì, quasi tutti quelli di Mimmo Calopresti. Scialla!, uscito giusto in tempo per il suo cinquantesimo compleanno, è la sua opera prima dietro la macchina da presa, ma vent’anni di lavoro non si cancellano in un soffio: per questo motivo, ben più della messa in scena (anche se la fotografia del veterano Arnaldo Catinari ha qualche buona intuizione, soprattutto intorno al personaggio di Luca) al centro del film c’è il soggetto, in cui un ex professore disilluso e sciatto scopre la vera identità del ragazzetto a cui dà ripetizioni di lettere. Qualche volta la sceneggiatura scopre troppo le carte, rivelando uno scheletro narrativo rigidissimo, ma alcuni dialoghi hanno un’invidiabile freschezza – anche grazie all’ottima intesa tra il giovane Filippo Scicchitano e Fabrizio Bentivoglio, che sfoggia un accento veneto forzato ma stranamente sensato – ed è vincente a modo suo la scelta di Bruni di mantenere per tutta la durata del film un registro così lieve, pressoché inoffensivo, da qualunque punto di vista lo si guardi. Così, persino gli ostacoli più violenti finiscono per risultare tutt’altro che minacciosi: dalla sua, il gangster colto cinefilo è una buona vecchia idea, giusto a un passo dalla macchietta (ma Vinicio Marchioni se la cava, e c’è pure spazio per una in-joke su Romanzo Criminale), peccato che poi finisca per diventare il deus ex machina di turno. Scialla! è un film che, se non graffia né va in profondità, almeno lo fa per sua stessa scelta: la sua preoccupazione è quella di raccontare una storia semplice e sensibile, priva di sensazionalismi e di rischi, con un umorismo quieto e abbastanza insolito per la commedia italiana. Nonostante tutto, ci riesce abbastanza bene. In fondo è un’opera prima. Il ragazzo si farà.

Chronicle, Josh Trank 2012

Chronicle
di Josh Trank, 2012

Negli ultimi anni, si è diffusa in modo capillare, soprattutto nel cinema fantastico e nel cinema horror, la moda del cosiddetto found footage; un artificio tecnico e narrativo al tempo stesso attraverso il quale si possono anche compensare, magari in modo autoriflessivo, le proprie ristrettezze di budget. Sono però pochi (e quasi tutti usciti anni fa, per esempio Cloverfield, Redacted, Rec) i film che hanno saputo utilizzarlo in modo intelligente, sensato. Chronicle in tal senso rappresenta una svolta quasi epocale.

In una nuvolosa e suggestiva Seattle ricreata tra Vancouver e Cape Town, tre studenti delle superiori (tra cui uno solitario ed emarginato, con una tragica situazione famigliare e una fresca ossessione per la sua telecamera) scoprono per caso in un bosco fuori città una profonda cavità, il cui misterioso contenuto dona loro straordinari poteri telecinetici – e non solo, come vedremo in seguito. Chronicle è di fatto costruito come una origin story, ma quella che dalla distanza potrebbe sembrare l’ennesima variazione del tema super-eroico declinato nel mondo delle high school americane diventa nel suo implacabile e cupissimo sviluppo uno dei più originali e trascinanti romanzi di formazione degli ultimi tempi.

La sceneggiatura brillante e colta, solidissima anche se non sempre sottile, del 25enne figlio d’arte Max Landis accorpa noti contrasti sociali dell’immaginario high school, riferimenti geek, implicazioni filosofiche, ma partendo di base da una domanda ben chiara, che suona all’incirca: cosa succederebbe davvero se un adolescente ottenesse dei superpoteri? Tutti spunti che l’esordiente Josh Trank sfrutta con dedizione e passione, ma anche con innegabile fiuto; perché tra i grandi punti di forza, al di là dello stratagemma filmico in sé, è infatti l’uso che ne viene fatto e la sua centralità nel racconto. Dopotutto il film si chiama Chronicle e si apre sulla decisione di Andrew di “filmare tutto”: non si tratta di un pretesto ma di un concetto saldato alla psicologia dei personaggi, e quella della telecinesi come direzione della fotografia è un’idea autenticamente geniale che contribuisce a cambiare le regole del gioco dall’interno.

Ma al di là delle considerazioni necessarie sull’intelligenza, sulla scaltrezza e sulle implicazioni metanarrative di un film come Chronicle, da un certo punto in poi il talento artistico in campo e il gusto per lo spettacolo puro prendono totalmente il sopravvento. E fanno terra bruciata. Grazie alla bravura (ma anche al casting perfetto) degli semisconosciuti attori principali e a uno spirito strenuamente apocalittico, la seconda metà di Chronicle mette gradualmente da parte il tono più ironico e scanzonato dei dialoghi di Landis e si lancia in un crescendo drammatico, esplosivo, irresistibile che a molti ha ricordato quello di Akira e in cui la moltiplicazione degli strumenti di ripresa non fa che amplificare le notevoli ambizioni di tragica grandezza del film.

Chronicle fa molto di più che “spendere poco e guadagnare molto” (costato 12 milioni, ne ha già incassati più di 60 in Nord America e il doppio in totale) né si limita a percorrere strade già percorse dai suoi predecessori. Al contrario: ci riporta alla centralità delle idee, della bravura, della cura del racconto, dei personaggi. E ci lascia senza fiato in gola.

Nei cinema dal 9 maggio 2012