giugno 2012

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The Amazing Spider-Man, Marc Webb 2012

The Amazing Spider-Man
di Marc Webb, 2012

Non vale per qualunque film, ma spesso la scelta di assegnare una grande produzione a un determinato regista può essere l’avviso di una pista da seguire o di una decisione già presa. Scegliere il regista di una commedia romantica come (500) Days of Summer per dirigere un film di Spider-Man rendeva abbastanza chiaro almeno un intento, forse commerciale prima che artistico: spostare il baricentro dall’Uomo Ragno a Peter Parker, e mettere al centro del film più di ogni altra cosa il rapporto sentimentale tra il protagonista e Gwen Stacy. In tal senso, non è del tutto errato definire The Amazing Spider-Man un teen romance con i superpoteri, ma per fortuna Webb è rimasto lontano dalla pigrizia della saga di Twilight si è dimostrato all’altezza della situazione: il suo è un film decisamente riuscito che ha semmai la sfortuna di essere costruito su limiti strutturali, ben chiari già da prima della visione. Per quanto ci possano spacciare questo reboot come un’autentica novità, si tratta infatti di una origin story estremamente tradizionale e che non si scosta granché da quella raccontata soltanto dieci anni fa. La sceneggiatura non sembra fare molti sforzi per evitare l’effetto-replica e la narrazione procede in modo meccanico attraverso blocchi ben definiti e ormai noti; il reparto spettacolare è assolutamente impeccabile (le soggettive dei voli fanno la loro porca figura) ma non si vede il tentativo di dire qualcosa di veramente nuovo in un genere vicino alla saturazione; si perde qualche colpo in più con il villain di turno (il Lizard di Rhys Ifans) e ci si riprende quando in scena ci sono Peter e Gwen. Il grande vantaggio del film, persino rispetto ai primi due capitoli diretti da Raimi, è infatti senza dubbio nei due protagonisti: Andrew Garfield non è solo un attore capace e versatile, è espressivo, simpatico, arrabbiato, profondo, e contribuisce a sporcare il suo personaggio con un’umanità scombinata e confusa che lo allontana dai cliché adolescenziali per dare una nuova dimensione sia alle sue motivazioni che alla sua incapacità di fare la cosa giusta; e la sua stessa intelligenza è affrontata più come una condanna che come un’opportunità. Dall’altra parte, peraltro, c’è la solita favolosa Emma Stone, e probabilmente ciò che ci ricorderemo di questo film divertente e innocuo in futuro è l’alchimia davvero impressionante tra i due, la naturalezza del loro talento: senza bisogno di tirare in ballo le vicende personali dei due attori, Garfield e la Stone portano sullo schermo una freschezza e una bellezza immediata di cui il film aveva davvero bisogno. Forse è stata una buona idea, quella di mettere al centro del film la loro storia d’amore: perché è quello che ci portiamo a casa, alla fine del film.

Nei cinema dal 4 luglio 2012

Architecture 101, Lee Yong-Joo 2012

Architecture 101 (Geon-chook-hak-gae-ron)
di Lee Yong-Joo, 2012

Uno dei più grandi successi al botteghino sudcoreano lo scorso anno è stato Sunny, un film che tra le altre cose fa leva sulla ritrovata nostalgia degli anni ottanta; allo stesso modo, uno dei campioni al box office di questa prima metà del 2012 (per ora il quarto incasso) è Architecture 101, in cui sono gli anni novanta al centro della narrazione. La costruzione dei due film è simile: qui l’architetto Seung-min viene contattato da Seo-yeon, una sua amica del primo anno di Università, che gli chiede di costruirle una casa sui ruderi di una sua vecchia proprietà, senza dargli troppe spiegazioni. Il resto del film, come già in Sunny, è raccontato in parallelo tra passato e presente, permettendoci di scoprire gradualmente la verità sul loro rapporto, su cosa li aveva allontanati, sul perché di questo improvviso ritorno. La grande differenza, anche con la norma del film sentimentale, è nella prospettiva da cui viene narrato – e, di riflesso, nel target: infatti il film è stato un enorme successo prima di tutto grazie al pubblico maschile.

Al suo secondo film dopo un horror (Possessed) Lee Yong-Joo, anche sceneggiatore, mostra di saper sfruttare la recente nostomania coreana con garbo e astuzia ma anche con classe e intelligenza, attirando il pubblico generazionale con un notevole armamentario d’epoca (i cercapersone, la spuma per capelli, un lettore cd portatile che diventa un elemento essenziale della trama) e con un’ironia sulle ingenuità di un passato prossimo che pare remotissimo (il dialogo sull’hard disk da 1 GB, “non ti basterebbe una vita per riempirlo”) ma concentrando poi quasi tutti gli sforzi sul lato più tradizionalmente romantico del film. Che funziona alla perfezione, soprattutto grazie all’universalità di una storia sul rimpianto e sulle occasioni perdute, ma anche a un ottimo cast (in primis le due Seo-yeon: l’incantevole Han Ga-in e la giovanissima Bae Suzy, una teen idol in patria), nonostante le età degli attori siano tutte visibilmente sfasate, a una brillante sceneggiatura che affianca l’esplorazione topografica a quella emotiva, e a una conclusione malinconica e tutt’altro che scontata.

L’immancabile canzone-feticcio del caso è “An Essay of Memory” degli Exhibition.

 

R.I.P. Nora Ephron (1941-2012)

La sceneggiatrice e regista Nora Ephron è morta a New York all’età di 71 anni.

Detachment, Tony Kaye 2011

Detachment – Il Distacco (Detachment)
di Tony Kaye, 2011

Tredici anni dopo l’esordio con American History X, da lui disconosciuto a causa dell’intervento della New Line e dello stesso Edward Norton sul final cut, Tony Kaye torna con un film che parte da un canovaccio piuttosto tradizionale per trasformarlo, attraverso la messa in scena, in qualcosa di molto più originale. Tratto dalle memorie di Carl Lund, il film racconta infatti del breve periodo passato in una scuola pubblica da un professore specializzato in supplenze e dal misterioso passato personale: incontrerà tra gli alunni e nel corpo docente un classico campionario di varia umanità a cui si aggiunge una giovanissima prostituta che si impone in qualche modo di redimere. Ma il film di Kaye è realizzato con uno stile personalissimo e fieramente indipendente che lo allontana dai canoni hollywoodiani: le singole scene del film (così come i membri del ricco cast) sembrano quasi schegge disordinate e causali a cui il montaggio si impone di restituire dignità narrativa, la regia liberissima e dinamica va alla ricerca del realismo sfiorando quasi lo stile del documentario ma con un intuito visivo spesso ammaliante che compensa i limiti del budget. E in tutta la parte finale Kaye riesce a trovare un equilibrio sensazionale tra il melodramma più tragico e una riflessione lucida e terribilmente avvilita sul ruolo dell’educazione nella società che, con la straordinaria immagine che chiude il film, non lascia molte speranze. Quelle restano altrove: lontano dai libri, fuori dalla classe.

Real Steel, Shawn Levy 2011

Real Steel
di Shawn Levy, 2011

L’aspetto più interessante di Real Steel, tratto (molto liberamente) da un racconto di Richard Matheson e da un episodio di The Twilight Zone scritto proprio da quest’ultimo, è senza dubbio l’idea di un futuro prossimo in cui un grande traguardo tecnologico (la creazione di robot antropomorfi) non ha modificato quasi nulla: lo si capisce già dai panorami della provincia americana dei titoli di testa, accompagnati da un brano acustico di Alexi Murdoch. Siamo nel 2020, ma al di là dello skyline che attende il protagonista alla fine del viaggio, potremmo essere nel presente o persino nel passato prossimo: il mondo sembra bloccato a suo modo in una situazione di stallo, e non è un caso che una scoperta che potrebbe cambiare il mondo venga utilizzata in modo relativamente marginale nello sport, per soddisfare il crescente desiderio di violenza del pubblico. Una visione non tanto pessimistica o distopica, come spesso accade, quanto disillusa, probabile figlia della crisi economica globale, e che si oppone a gran parte della fantascienza, più interessata (ragionevolmente) alle conseguenze di un’eventuale singolarità in grado di cambiare finalmente la faccia del pianeta. I tratti originali del film diretto da Shawn Levy finiscono però qui: Real Steel è infatti palesemente e forse anche volutamente costruito con stampini di opere precedenti (il più citato, non a torto, è Over the Top) oltre che con veri e propri blocchi squadrati di cliché sul rapporto padre-figlio o sul riscatto dell’ex campione e, più in generale, quelli provenienti dalla più rigida struttura del “film sportivo”. La sorpresa è che, da un certo punto in poi, non ci interessa granché: il film è raccontato con una professionalità impeccabile, non annoia mai nonostante sia lunghissimo (due ore secche), Hugh Jackman mostra un desiderio di fare le cose per bene che non va data per scontata nel genere, e i robot, pur essendo come abbiamo visto un mero pretesto per parlare d’altro, sono protagonisti di scene di ring davvero spettacolari. Un film che sembra nato per scontentare tutti – troppo tenero per gli amanti dei cinema duro, troppe botte per gli amanti del cinema pucci – ma che in realtà trova una sua dimensione, e la trova proprio nella sua ricercata prevedibilità. Non c’è nulla di male nel seguire le regole, se lo fai come si deve.

Biancaneve e il Cacciatore, Rupert Sanders 2012

Biancaneve e il Cacciatore (Snow White and the Huntsman)
di Rupert Sanders, 2012

È inevitabile che nella promozione di film tratti da una celebre fiaba, come sono i due diversissimi Biancaneve spuntati a poche settimane di distanza l’uno dall’altro, si faccia leva prima di tutto sull’attrice che interpreta la regina cattiva: dopotutto, la tradizione disneyana vuole che il villain sia (quasi) sempre il personaggio più interessante della storia. Così, come per Mirror Mirror era Julia Roberts, qui è Charlize Theron il punto di forza del film. Ma la pressione non giova all’attrice sudafricana che, nonostante la sensazionale presenza scenica le permetta di riempire lo schermo con un semplice sguardo, cade nel tranello dell’overacting, spingendo troppo la sua interpretazione e facendola cascare fuori dalla righe. Un elemento che sarà smorzato dall’edizione doppiata, ma che diventa presto il tratto caratteristico della prima mezz’ora: il geniale understatement di Young Adult sembra lontano secoli. Poi però Charlize, di fatto, scompare per buona parte del film – che ne esce ugualmente impoverito, privato della sua ragion d’essere.

Sanders è un regista capace di buone invenzioni visive, il background pubblicitario avvicina il suo stile fiammeggiante e autocompiaciuto proprio a quello di Tarsem (lo specchio liquido, l’abito fatto di corvi: paradossalmente questo film pare quasi più “tarsemiano” di Mirror Mirror) mentre il nume tutelare dell’operazione, tra battaglie epiche e lunghe camminate sul dorso delle montagne, sembra essere il fantasy jacksoniano della trilogia dell’Anello. Ma al di là di qualche intuizione, il suo Biancaneve non aggiunge nulla di originale o travolgente, la sceneggiatura è pigra e il plot terribilmente meccanico (se non si conta la scelta di troncare di netto ogni risoluzione, chiudendo come chi guarda l’orologio e vede che si è fatto tardi e peraltro barando con un finto accenno a un finale aperto), gli sforzi sovrumani per trasformare otto attori inglesi in nani sono scarsamente giustificati dal loro apporto alla trama e allo spirito del film (che è fin troppo cupo e serioso, qualche pennellata di ironia non avrebbe guastato) e la palese carenza di talento di una legnosa e impacciata Kristen Stewart non è certo d’aiuto.

Per chi ne avesse già ammirato le doti in Thor e The Avengers non è una vera sorpresa, ma il migliore in campo è proprio Chris Hemsworth: burbero, romantico e sfrontato, riesce persino a umanizzare il puntuale monologo amoroso e sorpassa le sue colleghe con una naturalezza e un fascino brusco che, nella seconda metà, contribuisce da solo a salvare il film dal pericolo della noia ogni volta che è in campo. Difficile invece salvare un paio di effetti speciali così sgraziati da sembrare ancora in corso d’opera: dove sono finiti 170 milioni di budget?

The Raid: Redemption, Gareth Evans 2011

The Raid: Redemption (Serbuan Maut)
di Gareth Evans, 2011

Notte fonda. Nel suo appartamento, il giovane Rama si allena, prega. Saluta la moglie, le accarezza il grembo: “aspetta che tuo padre torni a casa, ok?”. Poi saluta il padre, gli dice: “lo riporterò”. In un mezzo corazzato la squadra di Rama, che è l’ultimo arrivato, il “novellino”, si prepara ad attaccare il condominio dominato dal boss Tama Riyadh. “Andiamo a purificare questa cazzo di città”, piano per piano, come in un platform. Ma Tama non si fa cogliere impreparato, anche perché ha un folto e pericolosissimo esercito: gli inquilini del palazzo. Non si perde tempo: l’assalto comincia dopo pochi minuti e da lì alla fine del film non ci sarà più un secondo di tregua né un attimo per fermarsi a riflettere. Presentato a Toronto, a Torino e al Sundance, uscito poi in sala negli states accolto dall’entusiasmo della critica, il terzo film del gallese Gareth Evans, innamoratosi del “pencak silat” durante le riprese di un documentario (e facendone già il fulcro del precedente Merantau) è riuscito in un’impresa che va ben oltre la scoperta occidentale di Iko Uwais e di quest’arte marziale tradizionale indonesiana: ha alzato spaventosamente l’asticella del ritmo, della violenza e della qualità, ponendo nuove basi per il cinema di arti marziali (le prove atletiche di Uwais o del “cane pazzo” Yayan Ruhian fanno quasi impallidire quelle di stimati colleghi come Tony Jaa e Jeeja) ma forse anche per l’action in generale. La differenza la fa proprio Evans, che è un regista vero, uno che sa trasformare pianerottoli di periferia nel campo di battaglia di un film di guerra, e che dirige con una precisione mostruosa e un’impressionante creatività. Basta guardare la ricchezza e la cura dei movimenti di macchina durante le scene più concitate per rendersi conto che sotto la spietata brutalità apparentemente caotica del suo film si nasconde un gusto per la ricerca tutt’altro che scontato – con la macchina da presa che si inclina insieme ai calci e ai corpi sollevati, che cade insieme ai corpi sbattuti a terra, che corre e urla insieme a Rama per i corridoi del palazzo, senza perdere o sbagliare un colpo. Un film che si guarda dall’inizio alla fine senza quasi riuscire a respirare e che, probabilmente, sta già cambiando le regole del gioco.

Il film è nel listino di One Movie e quindi dovrebbe uscire, presto o tardi, anche in Italia.