luglio 2012

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Casa De Mi Padre, Matt Piedmont 2012

Casa De Mi Padre
di Matt Piedmont, 2012

Non è proprio un complimento, si capisce, ma Casa De Mi Padre è un film quasi più divertente da raccontare che da vedere. L’idea dell’ennesimo veicolo di Will Ferrell, suo ritorno alla comicità pura dopo l’esperienza di Everything must go, è piuttosto semplice: il film è girato e realizzato come una telenovela messicana, così filologico da includere anche imprecisioni e tratti amatoriali, che diventano a loro volte spunto di gag “meta” non originalissime ma a volte piuttosto sottili – come l’uso dei manichini sullo sfondo per risparmiare sul cast. La caratteristica più rilevante, e decisamente inusuale, è in verità quella di essere interamente (o quasi) recitato in spagnolo con sottotitoli, e gran parte dell’effetto comico deriva dal fatto che Ferrell è l’unico (o quasi) statunitense del cast – e che probabilmente, a giudicare dall’accento, non sa una parola di spagnolo. Il problema si può intuire: ottimo materiale per uno sketch, forse persino per una webserie; fondamenta un po’ fragili, invece, su cui costruire un lungometraggio. Nonostante il recente ritorno alla sua forma migliore con il buddy movie The Other Guys, qui Ferrell ha commesso due classici errori, forse originati dalla sua formazione televisiva e acuiti dal successo di Funny Or Die: primo, ha fatto un film in cui gli attori (inclusi Gael García Bernal e Diego Luna) sembrano divertirsi più degli spettatori. Secondo, ha fatto un film che esaurisce le energie dopo una ventina di minuti nonostante duri molto meno di un’ora e mezza. Ma il problema alla radice è un altro: non si ride. O almeno, non come si potrebbe. Messe da parte alcune sequenze effettivamente spassose (la scena di sesso, gli intermezzi musicali, le sparatorie al ralenti) e il comunque ottimo cast (Génesis Rodríguez è splendida, Nick Offerman una garanzia), a tratti Casa De Mi Padre sembra quasi prendere sul serio l’insistito melodramma che si era prefigurato di parodiare – ma purtroppo ha soltanto le armi per una goliardata di poco conto che, alla lunga, risulta mortalmente noiosa.

Il film è uscito negli Usa lo scorso marzo in un numero relativamente ridotto di schermi (meno di 400) facendo però un discreto incasso soprattutto grazie al pubblico ispanico. Il dvd americano è già disponibile, quello britannico è in arrivo a ottobre. Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana. Un suggerimento all’eventuale distributore: fate i bravi, non doppiatelo.

R.I.P. Chris Marker (1921 – 2012)

È morto il regista francese Chris Marker, poco dopo aver compiuto 91 anni.

Il suo film più noto è il mediometraggio La Jetée: un assoluto capolavoro.

Goon, Michael Dowse 2011

Goon
di Michael Dowse, 2011

Il ruolo della violenza nel canone del film sportivo ha spesso un carattere oppositivo, di contrasto allo spirito del gioco. Goon parte da un presupposto diverso: sul campo da hockey il fallo è un elemento tattico di vitale importanza, capace di ribaltare le sorti di un torneo. Così Doug, pecora nera di una famiglia di medici, ingenuo buttafuori dal cuore d’oro senza alcun talento per i pattini ma capace di spaccare un casco a craniate, viene acquistato da una squadra della minor league per coprire le spalle a un giocatore eccellente ma traumatizzato e autodistruttivo, e ne diventa la star. Ma lo aspetta lo scontro inevitabile con un altro celebre picchiatore sul viale del tramonto. Ispirato alla vera storia di Doug Smith, le cui performance vengono mostrate durante i titoli di coda, e scritto dal co-protagonista Jay Baruchel insieme a Evan Goldberg (entrambi abituali sodali di Seth Rogen) Goon è una sorprendente e furiosa commedia iper-canadese che Michael Dowse, fresco del deludente Take Me Home Tonight, manovra con mano sicura, dirigendo le sequenze sportive con un ritmo forsennato e quelle romantiche (l’oggetto delle attenzioni di Doug è la bravissima Alison Pill) con affettuosa partecipazione, mantenendo sempre però il piglio irresistibilmente scorretto e parolacciaro richiesto dalla sceneggiatura. In ogni caso, ovviamente, il cuore del film è Seann William Scott, un candido antieroe dalla testa dura per cui è impossibile non fare un tifo sfegatato.

Il film è stato presentato a Toronto nel 2011, è uscito in UK lo scorso gennaio, in Canada e negli USA a febbraio. Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

C’era una volta in Anatolia, Nuri Bilge Ceylan 2011

C’era una volta in Anatolia – Once upon a time in Anatolia (Bir zamanlar Anadolu’da)
di Nuri Bilge Ceylan, 2011

Un dottore che viene dalla città, un pubblico ministero con problemi alla prostata, il capo della polizia e alcuni membri delle forze dell’ordine accompagnano nella steppa dell’Anatolia Centrale due fratelli ammanettati, rei confessi, alla ricerca del corpo dell’uomo che hanno ucciso ubriachi. A causa del buio e dei postumi i due però non riescono a riconoscere il luogo dove l’hanno seppellito. Comincia così il film del regista turco Nuri Bilge Ceylan, vincitore del Gran Prix a Cannes (pari merito con i Dardenne), ma è evidente che siamo distanti dai meccanismi del cinema investigativo: le auto si muovono lentamente in uno scenario buio e inospitale, i personaggi si fermano di tappa in tappa parlando di argomenti seri come faceti, fino a quando un dialogo tra il medico e il procuratore spalanca un’inquietante verità sulla vita di quest’ultimo. Aiutato dalla straordinaria fotografia di Gökhan Tiryaki, davvero una delle più ipnotiche e incredibili degli ultimi tempi, Ceylan gira con uno stile formidabile e controllatissimo (un esempio: l’inquadratura che si stringe lentamente sul viso sconvolto dell’omicida, seduto nei posti dietro dell’auto) che a volte sembra avere l’ambizione di avvicinarsi, almeno nei primi due atti, a un’idea di cinema puro: l’ingresso della figlia del sindaco, seguita dagli sguardi increduli dei personaggi quasi catatonici, increduli di fronte alla improvvisa, semplice quanto violenta bellezza, è una delle scene più intense degli ultimi tempi – ma il film è pieno di momenti rivelatori, silenziosi e scioccanti, in cui sono l’immagine e la natura a fare da commento ai turbamenti dell’umanità, come lampi nel buio che rivelano minacciosi volti incisi nella roccia. Nell’ultima parte poi il film si appropria di un punto di vista preciso, quello del medico, concentrandosi sul contrasto tra l’idealismo morente del dottore e la sua graduale, tragica rivelazione di una cecità morale che porta a una duplice perdita dell’innocenza. Un film bellissimo che, nonostante la durata e il ritmo indolente, chiede solo un po’ di impegno – e restituisce dieci volte tanto.

Jeff, Who Lives at Home, Mark e Jay Duplass 2011

Jeff, Who Lives at Home
di Mark e Jay Duplass, 2011

Jeff ha superato i trent’anni ma vive ancora nello scantinato della madre. Non lavora, fuma il bong, guarda le televendite e ha una verace passione per Signs, di cui condivide l’esasperato fatalismo. Pat è il manager di un ristorante, sposato e cieco alle esigenze della moglie: nonostante stiano mettendo via i risparmi per comprare una casa, a colazione le presenta la sua nuova Porsche parcheggiata nel vialetto. Jeff e Pat sono fratelli, anche se non si parlano mai. Anche Mark e Jay Duplass sono fratelli, ma lavorano insieme: sono stati tra i protagonisti del mumblecore, più che un movimento un’etichetta volta a semplificare una pulsione produttiva presente nel cinema americano indipendente lo scorso decennio, di cui vediamo in qualche modo le conseguenze nelle carriere di Greta Gerwig, Lynn Shelton, ma anche di Lena Dunham e dello stesso Mark come attore. L’inevitabile evoluzione commerciale dei due registi non ne ha però compromesso il talento né ha intaccato la semplicità del loro modo di raccontare: come e meglio che in Cyrus, i Duplass utilizzano attori noti (qui Jason Segel, Ed Helms e Susan Sarandon) per parlare di avvenimenti ordinari e sentimenti convenzionali, facendo però un passo in più, ovvero dando loro un respiro epico. Partendo da uno spunto cinefilo quantomeno peculiare (la passione di Jeff per il film di Shyamalan), da un’aderenza alle unità aristoteliche e da un’opposizione trasparente (quella tra la fiducia nel destino di Jeff e lo scetticismo di Pat), il film racconta una trasformazione della banalità in eccezionalità ma senza mai allontanarsi dall’immediatezza con cui sanno raccontare i personaggi, anche in rapporto alla realtà del tessuto urbano (che conoscono bene: qui siamo a Baton Rouge, i due registi sono di New Orleans). Il risultato abbraccia una visione del mondo entusiastica e forse un po’ naïf in cui la volontà è in grado di mutare la prosaicità del mondo: per fortuna il tutto è realizzato con senso della misura (il film non arriva all’ora e mezza di durata), con un’ironia garbata e irresistibile, una messa in scena intelligente e originale, lontana dai vezzi più amatoriali, e ovviamente un impagabile trio di attori. Sette anni dopo The Puffy Chair, per la carriera dei Duplass non potevamo sperare di meglio.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

R.I.P. Ernest Borgnine (1917-2012)

Ernest Borgnine è morto ieri a Los Angeles, aveva 95 anni.

Nel video: il segmento del film 11 settembre 2001 diretto da Sean Penn.

Extraterrestre, Nacho Vigalondo 2011

Extraterrestre
di Nacho Vigalondo, 2011

Dopo l’esordio cinque anni fa con il sorprendente, geniale Los cronocrímenes, il regista spagnolo Nacho Vigalondo torna finalmente con un’opera seconda che ne riafferma il talento, l’umorismo e l’originalità. Extraterrestre è ambientato in una città evacuata a causa della presenza di un’enorme e misteriosa astronave nel cielo, ma la priorità del film, come quella dei personaggi, è il quadrangolo amoroso che si svolge all’interno delle mura di un appartamento – Julio e Julia, che si sono appena conosciuti e hanno passato la notte insieme; Carlos, il fidanzato di lei che torna all’improvviso; e Ángel, il vicino di casa, da sempre innamorato della ragazza. L’incrocio di desideri e di segreti causerà conseguenze inaspettate.

Vigalondo utilizza la fantascienza come un pretesto per isolare i personaggi, le loro pulsioni e le loro paranoie, realizzando un’eccentrica commedia romantica da camera sul potere della parola giocata su un incastro perfetto di inganni e manipolazioni in cui è coinvolto anche lo spettatore. Caratterizzato da un umorismo spesso sotto le righe ma a tratti esplosivo, al tempo stesso fisico e cerebrale, e da una brillante sceneggiatura in continuo crescendo e tesa come quella di un thriller che fa tesoro di ogni singolo dettaglio e oggetto (le palline da tennis, il vaso di pesche sciroppate), Extraterrestre è semplicemente divertentissimo ma è anche un film estremamente curato, oltre che preciso e ingegnoso da un punto di vista registico nonostante i limiti del budget. Il cast, poi, è favoloso, tenendo conto che due terzi del film si svolgono in un paio di stanze: Michelle Jenner è uno stupefacente e inconsapevole oggetto del desiderio, Julián Villagrán regala la giusta dose di ambiguità al suo personaggio e Carlos Areces (già protagonista di «Balada Triste») è spassoso nel ruolo del dirimpettaio petulante.

Una bellissima conferma.

Il film è stato presentato a Toronto lo scorso settembre ed è uscito in Spagna a marzo. Nessuna traccia del film tra le uscite italiane, per il momento. Però il film precedente di Vigalondo nel frattempo è uscito in dvd anche da noi con il titolo internazionale “Timecrimes“. Consigliato, anzi obbligatorio.