Non amo paragonare tra loro film che non lo richiedano esplicitamente e in linea di massima preferisco considerare ciascuna opera come un oggetto a sé stante, lasciando i confronti in secondo piano, al limite come curiosità. Ciò nonostante, ho deciso di accorpare questi due film in solo post per alcune ragioni. Primo, per pigrizia e anche per brevità, visto che si è detto già tutto e il contrario di tutto (e un sacco di sciocchezze) su questi due film. Secondo, erano entrambi in Concorso al Festival di Venezia, dove il secondo ha vinto l’Osella tecnico. Terzo, i due film condividono molte presenze: in primis Daniele Ciprì (direttore della fotografia del primo, regista del secondo), ma anche il musicista Carlo Crivelli, la montatrice Francesca Calvelli e ben tre attori del cast: Toni Servillo, Fabrizio Falco, Pier Giorgio Bellocchio.
Bella addormentata
di Marco Bellocchio, 2012
Il primo pensiero che ho avuto uscendo dalla proiezione del nuovo film di Marco Bellocchio è quella di un’opera corretta o risistemata in corsa. Complice forse la collaborazione di Stefano Rulli, Bella Addormentata si configura seguendo i dettami del cinema italiano d’autore, serio e impegnato, fin dalla premessa: un racconto corale che ruota intorno a un tema forte (non tanto il caso di Eluana Englaro, quanto il dibattito generico sul diritto a vivere e a morire) inseguendo e intrecciando le vite di molti personaggi e cercando di trarre una complessità di conclusioni dalle loro specifiche vicende. Il cast e la direzione degli attori va nella medesima direzione, ed è proprio qui che il film inciampa, sulla sua stessa convenzionalità: molto esplicito e verboso, lo script lascia tantissimo campo libero agli attori ma non tutti si dimostrano all’altezza del compito. Per fare un esempio, se Rohrwacher e Riondino danno una strana, corporea umanità alla parte più interessante della storia, non si può dire lo stesso di Brenno Placido o di Gian Marco Tognazzi. Sembra una cosa da poco ma questa disorganicità nella direzione degli attori tende a inficiare intere sequenze, anche se Toni Servillo è ancora una volta eccellente: inaspettatamente sotto tono, a lui vanno le battute più felici dei dialoghi come quel “mi avete rotto il cazzo con l’immagine”. Si diceva dunque di un riscatto a posteriori perché è come se Bellocchio avesse preso la materia grezza e, in fase di post-produzione, l’avesse plasmata in qualcosa di molto differente: la splendida colonna sonora di Carlo Crivelli e l’intelligente montaggio di Francesca Calvelli contribuiscono a trasformare un’opera onesta e ambizosa ma zoppicante e ordinaria in un film a tratti intenso e potente. In ogni caso, è senza dubbio ammirevole l’equilibrio con cui Bellocchio mette in scena le sue storie, distaccando il più possibile la propria personale visione del mondo da quella, più complessa e sfaccettata, del mondo stesso. Cercando di porsi, in un atto di straordinaria umiltà almeno per un regista così sicuro di sé, più domande possibili. O meglio: più domande di quante siano quelle a cui lui stesso sappia rispondere.
È stato il figlio
di Daniele Ciprì, 2012
L’elemento più sorprendente dell’esordio in solitaria di Daniele Ciprì è il modo in cui il regista palermitano mostra di aver interiorizzato l’esperienza ventennale al fianco di Franco Maresco per trasferirla in una storia apparentemente più comune: un film ambientato nella Sicilia degli anni settanta che ruota intorno a una famiglia disagiata e alla possibilità. Ma in realtà È stato il figlio è uno dei film italiani più audaci e coscienziosamente folli degli ultimi anni. Incredibile e frastornante il modo in cui Ciprì riesce ad affiancare e dissolvere tra loro intenti e tonalità che non potrebbero essere più distanti, passando dallo sguardo grottesco su una Palermo da freak show (che in alcuni momenti richiama direttamente i tempi di Cinico Tv) a un’intensità drammatica devastante, da una sotterranea comicità caratterizzata da un feroce cinismo fino a una risoluzione che sembra uscita da un film horror, il tutto inserito in una geniale cornice narrativa che verso la fine si fa beffarda e apocalittica. Senza dimenticare l’apporto tecnico e artistico: anche qui un grande lavoro di Crivelli e della Calvelli, ma Ciprì è prima di tutto un direttore della fotografia e non si smentisce curando le immagini del film con un’attenzione e una precisione pittorica ma anche con un vigore e a tratti con una furia visionaria spiazzante. Un film buffo e mostruoso, inquietante e surreale, spassoso e tragico: non c’è nessuno al momento in Italia, pochissimi in tutta Europa, in grado di girare un film così. Avrebbe meritato più attenzione da parte del pubblico e, a monte, da parte dei media.
Meravigliosa la recensione di “È stato il figlio”. Sono pienamente d’accordo su tutto. Il film dimostra un equilibrio stilistico e una compiutezza davvero degni di nota. L’impostazione teatrale, l’attitudine fiabesca à la Giuseppe Pitrè, la surrealtà che è nella natura di quest’isola. UNA VISIONE IMPRESCINDIBILE.
Concordo su quanto detto sul film di Bellocchio e sulla recitazione degli attori. Secondo me anche la parte con Maya Sansa risente molto della non-bravura del figlio di Bellocchio…
Non vedo l’ora di poterlo vedere.
Il manifesto che cita Anathomy Of A Murder è bellissimo!