ottobre 2012

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The Five-Year Engagement, Nicholas Stoller 2012

The Five-Year Engagement
di Nicholas Stoller, 2012

Se abbiamo imparato una cosa dalla sua filmografia, è che a Nicholas Stoller manca il senso della misura. Le sue regie precedenti Forgetting Sarah Marshall (sceneggiato da Jason Segel) e Get him to the Greek sono esempi clamorosi di potenziale sprecato anche per questa ragione – soprattutto il secondo, scritto dallo stesso Stoller. Che sia una penna notevole, soprattutto in coppia con Segel, lo dimostra l’ottimo lavoro fatto dai due in The Muppets e nei brillanti dialoghi di questo The Five-Year Engagement; ma uno sceneggiatore ha bisogno di ben altro che di senso dell’umorismo, tanto più se è lui stesso a dirigere. E il suo film, che viaggia dai 124 minuti della versione “theatrical” ai 132 di quella “unrated”, a forza di accumulare in un modo che ricorda ancora più del solito le regie di Judd Apatow (qui produttore), dà più l’impressione di una miniserie che di un vero lungometraggio. La fortuna di Stoller è quella di avere per le mani un cast impressionante e piuttosto affiatato (a parte Emily Blunt, sono quasi tutte facce note delle comedy televisive americane) da cui spesso riesce a tirare fuori il meglio: il dialogo tra la Blunt e Alison Brie con le voci dei Muppet è esilarante, così come tutta la sequenza sul rapporto tra Segel e l’instancabile Dakota Johnson, per tacere di un attore fenomenale come Chris Pratt, che riesce a dare anima a un personaggio di per sé solo abbozzato e banale; ma si tratta appunto di elementi separati, performance efficaci e sequenze ben congegnate, spassose a volte in modo feroce (la freccia nella gamba, l’alluce amputato), ma del tutto slegate tra loro, messe una accanto all’altra senza un briciolo di equilibrio, di coesione, appunto, di misura. Ci si diverte, si ride anche parecchio, il romanticismo è prorompente e i due bravissimi protagonisti riescono a raccontare due personaggi umani e credibili, ma in definitiva Stoller ha preso la leggerezza della commedia romantica trasformandola in un estenuante tour de force: quando il film arriva finalmente alla sua conclusione, per quanto efficacissima nell’esposizione, non si è del tutto sicuri che non siano state due ore (e passa) buttate.

Un sapore di ruggine e ossa, Jacques Audiard 2012

Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d’os)
di Jacques Audiard, 2012

(Ciò che racconto accade nella primissima parte del film, non è niente che non sia già raccontato dal trailer italiano. In ogni caso, per correttezza: spoiler alert.)

Costretto suo malgrado a badare al figlio, lo spiantato Ali si trasferisce a casa della sorella ad Antibes dove si mette a lavorare in discoteca. Fuori dal locale conosce Stéphanie, una bella e turbolenta addestratrice di orche: la riaccompagna a casa dopo una rissa di cui è stata vittima, le lascia il numero di telefono. Tempo dopo, mentre Ali continua ad arrancare passando da un lavoro all’altro, Stéphanie ha un terribile incidente sul lavoro e perde entrambe le gambe. Un giorno, rimasta sola in casa, compone il numero dello sconosciuto buttafuori. La porterà in spiaggia. Questo è soltanto l’inizio del nuovo film di Jacques Audiard, che senza pretendere di replicare la densità narrativa di un capolavoro come Il profeta racconta una storia d’amore brutale, inconsapevole eppure necessaria, tra due anime costrette a ridefinire i loro confini e le loro coordinate. Schivando le categorie e le etichette (ma anche sfuggendo alla tentazione di fare un film sul corpo: la mutilazione è più un innesto che un obiettivo), Audiard trascina i suoi personaggi in una narrazione libera dalle costrizioni, capace di affiancare al dramma più straziante un’inattesa ironia e una sensualità travolgente, perdendo (perdonabilmente) qualche colpo quando si immerge quasi con spirito “sociale” nello sgradevole sottobosco del lavoro, riprendendosi del tutto quando colpisce i suoi protagonisti con lampi di epicità, coraggio, grandezza – segni di una straordinarietà già presente ma ancora tutta da conquistare, sfidando la paura di sé e dell’altro. Il loro “racconto di formazione” è infatti una terribile marcia a ostacoli che Audiard organizza con perizia e un pizzico di sadismo: i personaggi sono messi costantemente e spietatamente alla prova, fino alle estreme conseguenze – ma non è tanto la meta a interessare Audiard, quanto il tragitto: alla fine del giochi, il proprio destino è scritto nelle ferite, nelle lacerazioni e nelle ossa rotte, memorie indelebili, sempre presenti, della strada percorsa per trovare o ritrovare la luce. L’uso degli effetti speciali, abbinato al realismo della messa in scena e alla predominanza della camera a mano, crea un contrasto che amplifica se possibile la magnifica prova di Marion Cotillard, struccata ed emaciata per gran parte del film eppure sempre incredibilmente magnetica; con il rischio di sminuire la performance del pur adeguato Matthias Schoenaerts: ma vale la pena correrlo. Inaudito e perfetto, persino commovente, l’uso espressivo nella colonna sonora di “Firework” di Katy Perry, in una delle scene più intense e significative del film.

Reality, Matteo Garrone 2012

Reality
di Matteo Garrone, 2012

È facile scambiare Reality per un film a tema. Farsi la domanda: di cosa parla? Dove vuole arrivare? Una tentazione comprensibile, che sminuisce però la forza narrativa ed espressiva dell’ennesimo, grande film di Matteo Garrone. Ciò che in verità mi sembra più interessante, più sorprendente di Reality, è il suo legame con la tradizione: sono anni che si tende a confrontare qualunque film leggero in uscita con la “commedia all’italiana”, spesso del tutto a sproposito o quasi; il risultato è che troviamo un erede dove mai ce lo saremmo aspettato, ma dove in fondo era giusto che fosse. E la chiave del dialogo che Reality intrattiene con alcuni dei più amari e profondi film di registi come Risi, Pietrangeli, Germi ma anche – uscendo dal seminato – con il Visconti di Bellissima, è che il film usa il contesto per spiegare la storia, e non viceversa. Non è un film sull’Italia di oggi, non è un film sulla televisione, è un film su Luciano (straordinario Aniello Arena: sarebbe un delitto non citarlo) e su un mondo intero che va in pezzi di fronte a lui e a noi, rendendoci complici di una disgregazione e confusione percettiva che va sì a braccetto con la fragilità dei valori odierni, ma che non diventa mai, o almeno non vuole diventare, una parabola su di essi. L’inquietante viaggio di Luciano diventa, complice la clamorosa colonna sonora di Alexandre Desplat, soprattutto una sorta favola nera sulla disgregazione della realtà che Garrone, che si conferma uno dei migliori metteur en scène italiani, avvolge con una fotografia (ancora una volta di Marco Onorato) iperrealista e una regia sfacciatamente virtuosistica, anche loro appoggiate sul filo tra realtà e immaginazione, pronte a strapparlo per trascinarci in un dolce, inquietante incubo escapista, da cui forse non c’è più ritorno.

Il ragazzo con la bicicletta, Jean-Luc e Pierre Dardenne 2011

Il ragazzo con la bicicletta (Le gamin au vélo) 
di Jean-Luc e Pierre Dardenne, 2011

Quando senti arrivare le note di una melodia, ad accompagnare le immagini del film, seppure per pochi secondi, pensi che questo non sarà il solito film dei Dardenne. In verità i due registi belgi con questo film proseguono impassibili la loro missione narrativa e morale, ma trovano nell’incontro improvviso tra Samantha e il dodicenne Cecyl una sorta di scintilla di umanità in un mondo crudele e folle e scelgono di raccontarla con le fattezze di una fiaba contemporanea; una dolcezza inattesa che diventa necessaria al di là della loro stessa volontà, intorno alla quale si chiude però la morsa di un mondo crudele in cui tutte le figure paterne (il padre di Cecyl, il fidanzato di Samantha, lo spacciatore, l’edicolante) rappresentano l’incapacità di assumere rischi e responsabilità, fino all’autentica abiezione; e anche se i Dardenne decidono di lasciare un po’ di luce – anche da un punto di vista prettamente visivo – questa non smussa gli spigoli appuntiti e arrugginiti del mondo, né smentisce la condanna dolorosa che sta a monte: stiamo assistendo a un mondo collassato sul suo stesso egoismo, questa è l’ultima speranza oppure l’ultimo respiro? Il ragazzo con la bicicletta è un emozionante, a tratti straziante romanzo di formazione, tenero e crudele, che conferma la vitalità e la caratura morale di due tra i migliori registi europei in attività, tornati qui – con un pizzico di evoluzione, all’interno di un’incrollabile coerenza – al massimo della loro forma. Un piccolo grande capolavoro.

Magic Mike, Steven Soderbergh 2012

Magic Mike
di Steven Soderbergh, 2012

Può stare simpatico o meno, e la qualità del suo cinema è come minimo altalenante, ma Steven Soderbergh non è l’ultimo degli sciocchi: il successo di Magic Mike (tutt’altro che scontato, visto il rating R e il budget ridotto) è stato assicurato, numeri alla mano, soprattutto dal pubblico femminile, e il film ha innescato nei media una sorta di meccanismo catartico che ne ha aumentato l’esposizione e la visibilità: un film incentrato quasi totalmente sul corpo maschile diventa quasi il simbolo di una rivalsa accolta con liberatorio entusiasmo. Fortunatamente, sotto all’operazione in sé c’è un film più che dignitoso, caratterizzato da una narrazione robusta e molto più tradizionale di quanto sembri (un duplicato rapporto tra mentore e allievo, il percorso di ascesa e caduta, la risoluzione “morale” della storia di Mike e Adam) e da una convincente messa in scena, e che ha il suo punto di forza soprattutto in un pugno di interpretazioni davvero degne di nota. In particolare quella di Channing Tatum, alla cui esperienza in un locale di Tampa il film è lontanamente ispirato: per lui Magic Mike, di cui è anche produttore, è un altro tassello di una stagione formidabile ma è anche il film in cui può sfoggiare il suo talento drammatico, quello leggero e quello più atletico, senza che cozzino uno contro l’altro. Anzi: il suo assolo, di fronte a cui Riley Keough rimane senza parole, è una delle sequenze migliori del film. Dall’altra parte c’è un incredibile Matthew McConaughey, che grazie a questo film, a Killer Joe e a Bernie ha radicalmente ribaltato la sua immagine e la sua percezione presso la critica nel giro di pochi mesi.

Restless, Gus Van Sant 2011

L’amore che resta (Restless)
di Gus Van Sant, 2011

Ho sempre pensato che la tremenda bravura di Gus Van Sant non sia incompatibile con la sua fallibilità. Nella sua carriera ha girato film molto diversi tra loro, alcuni da lui scritti e altri (come si sarebbe detto un tempo) “su commissione”, ma anche all’interno dei più chiari filoni della sua filmografia ci sono lavori meno riusciti di altri: basti pensare a un capolavoro come Gerry e a un film deludente come Last Days. A dire il vero è più difficile incasellare Restless: prodotto da Ron Howard e dalla figlia Bryce Dallas e scritto dall’esordiente Jason Lew, è un film in cui il regista sembra voler fare uno sforzo per regalare uno sguardo personale su una gioventù fuori dai margini (in questo caso, delle convenzioni sociali sul dolore e sulla perdita) rimanendo però incastrato tra gli ingranaggi manieristici del cinema indie americano. Quello che rimane in mezzo è un film di una tenerezza persino frastornante, schiacciato tra understatement, velleità poetiche e deviazioni fantastiche, nonché segnato irreparabilmente dall’interpretazione incerta e approssimativa di Henry Hopper (figlio di Dennis, anch’egli esordiente quasi assoluto) – mentre Mia Wasikowska è, ancora una volta, perfetta nell’espressione di un approccio sereno nei confronti della morte: è il tratto più distintivo e interessante del film ma è perlopiù sprecato. Ci sono almeno un paio di sequenze davvero riuscite – quella buffa e commovente in cui i due protagonisti “recitano” il loro addio, e un finale da manuale – ma, per il resto, il film fa poco più che compiacersi della propria leziosità.

Silent House, Chris Kentis e Laura Lau 2011

Silent House
di Chris Kentis e Laura Lau, 2011

Firmato dai due coniugi registi di Open Water, Silent House è un caso limite di “instant remake”: erano passati solo otto mesi dalla proiezione del film originale a Cannes nel 2010 quando il rifacimento venne presentato al Sundance. Il nuovo film è apparentemente identico all’interessante e irrisolto horror uruguayano, ma in realtà nel passaggio a una produzione (pur indipendente) americana cambiano molte cose già a livello progettuale: 4 giorni di riprese e 6 mila dollari di budget da una parte, qualche settimana e 2 milioni dall’altra. La premessa però è la medesima: il film è girato come se fosse un unico piano-sequenza (in realtà in entrambi i casi si tratta di segmenti di un quarto d’ora al massimo, Kentis e Lau sono stati molto più schietti di Hernández nel dichiararlo) ambientato quasi interamente all’interno di una vecchia casa, dove viene gradualmente rivelato un inquietante segreto sul passato della protagonista. Ma le differenze maggiori tra i due film (entrambi girati con una Canon EOS 5D Mark II) non riguardano tanto i risultati tecnici, quanto la sceneggiatura della stessa Lau: quando la verità sulla casa e sul personaggio di Sarah comincia a venire alla luce, il film butta tutte le soluzioni in faccia allo spettatore, dando purtroppo credito a uno dei più ritriti pregiudizi sui remake all’americana. Per il resto, l’idea del film porta con sé ancora una volta una riflessione interessante sul suo stesso principio di realtà – e sul cinema come illusione, sogno e menzogna – ma d’altro canto porta con sé anche interminabili minuti in cui non succede nulla e ci si annoia a morte: è un peccato che Silent house funzioni meglio come esercizio teorico (del tutto inutile) che come esperimento di genere (del tutto innocuo). L’unica cosa davvero convincente del film è la formidabile Elizabeth Olsen, e non soltanto per la sospetta tendenza dei due registi a indugiare sulla sua scollatura.

el pube è un pilota / guida non esaustiva alle nuove serie tv (settembre 2012)

Ve l’avevo promesso, eccoci: un altro di quei post lunghissimi in cui facciamo le pulci o i complimenti alle serie tv appena iniziate, basato in gran parte solo sul pilota (o sui primissimi episodi) e ovviamente non esaustiva perché non include le serie che mi sono rifiutato del tutto di iniziare – per la precisione, questo mese sono state Guys With Kids, Made in Jersey e The Mob Doctor.

Cominciamo con la prima, sostanziosa infornata settembrina del duemiladodici.

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Pietà, Kim Ki-duk 2012

Pietà
di Kim Ki-duk, 2012

Gran parte delle (perlopiù sterili) polemiche che hanno fatto seguito all’ultima Mostra del Cinema hanno ottenuto un effetto spiacevole, quello di spostare l’attenzione dall’effettivo valore del vincitore. Vale la pena di ribadirlo: Pietà è uno straordinario, meritatissimo Leone d’Oro, arrivato giusto con qualche anno di ritardo dopo la seccante sequela di argenti nei festival di mezzo mondo; è il film che chiude la lunga crisi creativa e psicologica di Kim, quella che ha prodotto lo sperimentale, autobiografico Arirang; ed è quello che vede tornare nel pieno della sua forma, al suo diciottesimo titolo, uno dei più grandi registi asiatici in attività. Ambientato in un mondo letteralmente inghiottito dal capitalismo, dove i palazzi moderni incombono sui quartieri ai margini della società e in cui il denaro è “l’inizio e la fine di tutte le cose: amore, onore, rabbia, violenza, odio, gelosia, vendetta”, Pietà è una parabola sconvolgente, insieme poetica e terrena, violenta e definitivamente umana, sulle conseguenze devastanti dell’avidità che utilizza il noto meccanismo narrativo, vorticoso e inarrestabile, della vendetta per parlare di dolore e sacrificio in un mondo privato della misericordia, trovando in Jo Min-Soo l’interprete formidabile di un castigo che nella sua estrema determinazione risuona quasi come l’ultimo grido, l’ultimo pianto soffocato di un’umanità sconfitta. Un grande racconto morale in cui ritroviamo anche il gusto geniale del regista per la composizione visiva; più in generale, una clamorosa potenza espressiva: e il film si chiude con una delle immagini simboliche più forti di tutto il portentoso, sbalorditivo, imperdibile cinema di Kim Ki-duk.

Prometheus, Ridley Scott 2012

Prometheus
di Ridley Scott, 2012

C’erano almeno due modi per realizzare Prometheus: eseguire il compito con uno sforzo minimo, oppure affrontare il rischio a viso aperto. Ridley Scott ha scelto la strada più audace: un semplice e fedele prequel avrebbe riscosso più facilmente l’approvazione dei fan della saga, ma il regista ha deciso di rimodellare la sua mitologia, replicando in parte la struttura del primo Alien e iniettando – con la complicità del co-sceneggiatore Damon Lindelof – una spiccata ambizione filosofica. Che non snatura però il senso primario del film: era da tempo che non si vedeva sul grande schermo un film di fantascienza così ricco, così curato (grandissimo lavoro di Arthur Max a partire da spunti originali di Giger) e così stupefacente dal punto di vista visivo, soprattutto nella prima metà – la fotografia è di Dariusz Wolski, collaboratore di Alex Proyas negli anni novanta. Prometheus è sì temerario e magniloquente, ma di fatto è un film di genere che utilizza la spavalderia narrativa per giocare con il pubblico (le questioni irrisolte che spostano l’esperienza intellettuale fuori dalla sala: un trucco che Lindelof conosce bene) ma lasciando al centro il gusto puro per lo spettacolo, per la messa in scena, per la costruzione scenografica, anche a costo di mettere in secondo piano la costruzione dei personaggi (in ogni caso tutti sacrificabili rispetto al mondo e al racconto) o la compiutezza della sceneggiatura. Quest’ultima spesso inciampa su se stessa, più per approssimazione che per imprecisione, ma riesce comunque a trasmettere il contrasto tra la tracotanza scientifica, l’aspirazione alla conoscenza e la natura autodistruttiva dell’uomo. A volte è meglio un film ardimentoso e pieno di difetti che uno perfetto e pavido.

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Uno degli articoli più intelligenti che ho letto su Prometheus è il post di hardcorejudas: condivido gran parte di ciò che scrive ed è un’ottima “risposta automatica” a critiche esageratamente acrimoniose.

Sugli spoiler e sugli interrogativi lasciati aperti dal film, la rete è piena di articoli che si divertono a dare qualche risposta: se la cosa vi interessa, consiglio la lettura di CinemaBlend e io9.