novembre 2012

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Oltre le colline, Cristian Mungiu 2012

Oltre le colline (Dupa dealuri)
di Cristian Mungiu, 2012

Cinque anni fa, 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, vincitore della Palma d’Oro, ha imposto il nome di Cristian Mungiu come capofila del cinema rumeno. Il suo nuovo film, tratto da una terribile storia vera e anch’esso premiato a Cannes per la miglior sceneggiatura e per le due strabilianti attrici protagoniste, non sembra possederne la medesima immediata intensità drammatica: in verità, Oltre le colline è semplicemente un film che chiede qualcosa di diverso al suo spettatore, accumulando con una progressione lenta spietata una tensione impossibile e rimandandone la risoluzione in modo così snervante da accoglierla, in tutta la sua violenza, quasi come una liberazione. Riflessione morale, a tratti brutale, sui confini tra la fede e la ragione, Oltre le colline è attraversato da una strisciante quanto disperata vena di ironia che si trasforma inesorabilmente in tragedia e ambientato in un mondo follemente avvinghiato al suo integralismo, dove un medico prescrive insieme alle medicine di “leggere un po’ la Bibbia, che fa sempre bene”. Allo stesso modo, l’assenza di progresso narrativo (fortificata dalla bellissima fotografia di Oleg Mutu) avvolge e ipnotizza lo spettatore, mettendone in discussione le certezze; al momento del risveglio, ci lascia inermi e impotenti ad assistere, accanto a Voichita, sull’orlo dell’abisso.

End of watch, David Ayer 2012

End of watch
di David Ayer, 2012

Molti film recenti hanno utilizzato, anche in modo acritico, il fortunato formato del “found footage”, a volte per fare di necessità virtù. David Ayer, che pur ha in mano un budget ridotto (sette milioni di dollari: un’inezia) si limita ad accarezzarlo e se ne allontana presto (Jake Gyllenhaal porta con sé delle telecamere per un “corso”, ma solo metà delle riprese sono effettivamente realizzate dal suo personaggio) ma ne comprende e sa sfruttarne lo stimolo originario: la riproduzione di un’illusione di realismo totale, che Ayer esaspera e contraddice allo stesso tempo con un montaggio vorticoso che trasforma l’indole documentaristica in un videogame. Ma la vera formula vincente è quella che affianca alle sequenze più violente e più tipiche del genere dei lunghissimi dialoghi, quasi tutti ambientati nell’auto di pattuglia, tra i due (perfetti) protagonisti Gyllenhaal e Michael Peña: sequenze quasi statiche (frontale, campo, controcampo) e letteralmente “comiche” che insieme alle divagazioni sentimentali (Natalie Martinez, la moglie di Peña nel film, è una rivelazione) sviluppano un attaccamento ai due che mette a dura prova lo spettatore quando il gioco si fa duro. Certo, Ayer non ha alcun interesse per le sfumature morali e spezza il film in due a colpi d’accetta: i poliziotti sono buoni ed eroici, i cattivi sono cattivi e basta. Ma questo fattore non diminuisce l’impatto clamoroso di uno dei polizieschi più interessanti ed efficaci degli ultimi anni, originalissimo, terribilmente divertente e poi improvvisamente minaccioso, teso e tragico. Bellissimo.

Bachelorette, Leslye Headland 2012

Bachelorette*
di Leslye Headland, 2012

Presentato al Sundance pochi mesi dopo il travolgente successo di Bridesmaids, film limitato e più significativo che riuscito, Bachelorette appare indubbiamente, a prescindere dalle tempistiche, una sorta di diretta conseguenza: un The Hangover a generi ribaltati, con un trio di ragazze trentenni che sembrano sbucate da un sequel di Mean Girls, in grado, con la loro giusta dote di incoscienza, di rovinare il matrimonio della loro malcapitata amica. Ma il film scritto e diretto da Leslye Headland (semi-esordiente che ha adattato un suo testo teatrale con la produzione di Ferrell e McKay), Bachelorette funziona in realtà meglio del film di Feig – non tanto perché “più cattivo” (un metro di giudizio abbastanza soffocante e sciocco) ma perché più sintetico ed efficace: la durata, inferiore all’ora e mezza, è uno schiaffo alle inutili lungaggini di molta commedia americana. Il film vuole venderci l’idea di essere costruito intorno al personaggio curiosamente sgradevole di Kirsten Dunst (brava, come sempre) ma il meglio lo dà la favolosa Lizzy Caplan, che ritrova Adam Scott e con lui l’alchimia perduta dopo la cancellazione della bellissima serie tv Party Down: i due danno vita a tutti i momenti più riusciti del film – così intensi, divertenti e sfacciatamente romantici da far sfigurare la debolezza di ciò che sta intorno. Ma la Headland è talentuosa e pure scaltra, e anche se poi tutto deve tornare nei ranghi come da tradizione, ottiene di non tradire mai veramente fino in fondo la scomodità dei suoi personaggi. Non è tutto, d’accordo, ma non è poco.

*il film è uscito nelle nostre sale con il ridicolo titolo “The Wedding Party”

Ted, Seth MacFarlane 2012

Ted
di Seth MacFarlane, 2012

La frammentazione di Family Guy (e delle altre serie da lui ideate) rischiava di trasformare l’esordio alla regia di Seth MacFarlane in una collezione di sketch più o meno riusciti, più o meno volgari e provocatori: per fortuna, è evidente che l’interesse principale del suo film è lo scheletro narrativo che li sostiene e senza i quali forse sarebbe collassato su se stesso. Una storia la cui proverbialità, piuttosto rinfrescante a dire il vero, è di fatto tradita soltanto dall’eccezionalità di partenza (l’amico del protagonista che ne impedisce l’ingresso nell’età adulta non è un essere umano ma un orso di peluche parlante) e ovviamente dall’intervento della Magia. L’idea più geniale e rivelatoria dello script è quella di saltare completamente tutte le fasi che sarebbero interessate a un regista più tradizionale (l’ascesa e la caduta di Ted come “personaggio famoso”) passando direttamente al racconto del momento tardivo in cui l’amicizia tra i due comincia a incrinarsi. Ovviamente l’umorismo scorretto e citazionista del regista si riconosce a chilometri di distanza, ma qui MacFarlane pare in stato di grazia e le azzecca quasi tutte – anche se nell’ultima parte il film perde qualche colpo e si mostra stanco inseguendo un villain di cui forse non aveva nemmeno bisogno. Poco male: l’irresistibile sentimentalismo virile che tiene in piedi il film e l’uso assolutamente geniale del cast ( e delle guest star, Sam Jones e Norah Jones in prima fila) fanno perdonare serenamente qualche incidente di percorso, anche perché – lascio questa considerazione per ultima, ma è tutt’altro che irrilevante – Ted fa veramente, veramente ridere.

Argo, Ben Affleck 2012

Argo
di Ben Affleck, 2012 

Ci sono voluti tre film perché Ben Affleck, attore dal curriculum altalenante, venisse finalmente preso sul serio come uno dei più interessanti registi americani in attività. Senza il suo ingombrante passato, gli eccezionali primi due titoli da lui diretti sarebbero bastati e avanzati a chiunque: ma con questo film, Affleck ha voluto dimostrare ancora più chiaramente di essere in grado di lavorare in modo straordinario anche al di fuori di territori più vicini al genere, dov’erano in apparenza situati il nerissimo noir di Gone baby gone e le rapine di The Town. L’occasione per dirigere un film più “adulto”, sempre tra virgolette, gliel’hanno portata sulla scrivania Clooney e Heslov che, si sa, hanno una passione per lavorare ai margini della Storia: quella di Argo è una delle meno verosimili e più folli tra le storie vere portate sullo schermo. Ma quello che Affleck riesce a fare con la vicenda (e con l’ottima sceneggiatura di Chris Terrio) va davvero oltre ogni aspettativa: costruito con impagabile compattezza e grande senso dello spettacolo, e con una maturità che sembra uscita da una Hollywood “civile” che non esiste più o quasi, Argo ha il raro dono dell’immediatezza (impresa tutt’altro che scontata, di fronte a un contesto storico così poco raccontato) anche nei confronti dei molti memorabili personaggi, ed è un film che lavora instancabilmente sul ritmo del racconto, esercitando una poderosa morsa narrativa sullo spettatore. Che sappiate o meno come è andata a finire, Argo è uno dei thriller più tesi e appassionanti degli ultimi anni, nondimeno Affleck prende le distanze dalla cupezza dei precedenti, aprendo a un “democratico ottimismo” che vuole rispecchiarsi negli attriti odierni, ma soprattutto affiancando alla terrificante drammaticità del contesto un umorismo efficace – che funziona anche da boccaglio per l’ossigeno: senza ironia l’angoscia sarebbe pressoché insostenibile. Intorno a questo eccitante equilibrio tra i toni c’è molto altro, una confezione favolosa (dalla fotografia di Rodrigo Prieto alle musiche di Alexandre Desplat) e un cast di impressionante ricchezza in cui Affleck si inserisce come protagonista, ma senza mai rubare la scena al suo stesso film. Il suo è un ruolo eroico eppure in qualche modo smorzato da una pacatezza malinconica e qui sta l’ultima, ennesima sorpresa di questo grande film: è l’interpretazione migliore della sua carriera.

Skyfall, Sam Mendes 2012

Skyfall
di Sam Mendes, 2012

Uno degli argomenti più discussi dall’uscita di Skyfall, titolo numero 23 del franchise “ufficiale” di 007, è l’influenza sul film portata dalla trilogia del Cavaliere Oscuro diretta da Christopher Nolan. Uno degli articoli più divertenti sul tema, con tanto di esempi, è apparso per esempio su Underwire, ma l’impressione al di là del confronto specifico (che fa sorridere, ma lascia il tempo che trova) è che si tratti più che altro di una tendenza generale. Della risposta a una domanda che, finalmente, qualcuno ha cominciato a farsi anche ai piani alti: cosa succede a un marchio consolidato, abitualmente affidato a onesti professionisti disposti a nascondersi nella sua ombra, se viene dato in mano (sintetizziamo per amor di brevità) a un “autore”? L’idea di mettere Sam Mendes alla regia con uno script di questo tipo va in realtà a braccetto con la ricorrenza del 50° anniversario di Licenza di uccidere: più che un film di Bond in linea con la tradizione, Skyfall sembra più una riflessione sul suo stesso mito, sulla sua fondazione e rifondazione (non a caso si parte dall’ennesima morte/risurrezione di Bond), una pausa alla ricerca di una mappa tematica in un mondo in cui le regole (e la posta in gioco) sono radicalmente mutate, senza paura di scardinare qualche certezza divenuta forse un po’ rigida per il mercato odierno – si osa addirittura un accenno a una “origin story” – mettendo in scena un Bond più umano e fragile, che comincia a sentire il peso dei 44 anni dell’attore che lo interpreta. Per fortuna, però, Mendes non affronta il compito da primo della classe ma da vero fan: il film è pieno di ammiccamenti e citazioni, è costruito a “blocchi” che si muovono con lo spostamento da una location all’altra, e anche affrontato come un “normale” film di 007, mettendo da parte la dimensione autoriflessiva, Skyfall ne esce a testa altissima, come uno dei migliori esemplari della saga da molti anni a questa parte – forse meno sorprendente, brutale e tragico di Casino Royale ma infinitamente più compiuto e divertente. Oltre che splendido a vedersi: Mendes ritaglia per sé qualche momento di gloria (la clamorosa entrata in scena di Bardem) e lascia a briglia sciolta Roger Deakins, un grande direttore della fotografia, che se la spassa come un matto, soprattutto nell’isola giapponese e nel gran finale esplosivo in Scozia. L’intelligenza del cast (e la sua direzione) fa il resto del lavoro: se la M di Judi Dench acquista finalmente una tridimensionalità e una centralità narrativa degne della sua interprete e il nuovo Q di Ben Whishaw è un nerd appropriatamente irrispettoso, a colpire sono soprattutto la francese Bérénice Marlohe (avercene, di “bond girl” così) e, ovviamente, Javier Bardem: al di là di discussioni spiritose sull’efficacia del suo piano diabolico, è un villain immediatamente memorabile e diventerà un classico da antologia. Qualcosa di cui, negli ultimi film di 007, si sentiva davvero la mancanza.

Stupendi i titoli di testa firmati da Daniel Kleinman, accompagnati dalla voce di Adele.

To Rome With Love, Woody Allen 2012

To Rome With Love
di Woody Allen, 2012

Magari, il problema dell’ultimo film di Woody Allen fossero gli stereotipi sugli italiani o cose simili. Il suo problema sta a monte: è un film irreparabilmente brutto. E come spesso accade con i film che ti danno la sensazione di essere stati completati per inerzia quando ormai era troppo tardi per mollare tutto e salire sul primo aereo per New York, la sensazione di fastidio è aumentata dalle potenzialità che si intravedono, a patto di aver voglia di farsi largo a colpi di ottimismo nella giungla di una goffaggine incessante. Parlo del segmento con Alec Baldwin e Jesse Eisenberg, il più alleniano, quello recitato meglio o meglio l’unico recitato bene (soprattutto dalla fenomenale Ellen Page, che azzecca il suo personaggio alla perfezione), dove Roma per fortuna è solo uno sfondo per una riflessione malinconica e cinica sulla cecità travolgente delle passioni e sulla necessità formativa dei propri sbagli. Ma è solo un quarto di film: quella leggerezza negli altri tre si trasforma al limite in esilità e nel peggiore dei casi (tutto il tremendo episodio degli sposini di Pordenone) in un grossolano, sconfortante imbarazzo. L’idea della doccia, per dire, è una delle cose più sciocche che Allen abbia mai girato: sarebbe pure un complimento, se fosse un corto di cinque minuti. L’episodio con Benigni, che per fortuna recita in modo inusuale, quasi sotto tono, è un temino di quinta elementare sulla fama tirato per le lunghe. La cosa peggiore, però, sono i dialoghi, quelli di tutto il film: trattandosi di Woody Allen, non ci si può mica passar sopra. Meno male che ricordiamo ancora lucidamente la splendida parentesi di Midnight in Paris, perché questo Woody frettoloso, impacciato, esausto e sostanzialmente inutile ci avrebbe seriamente preoccupato.

Nota: ho visto il film in lingua originale. Tutto il discorso sul suo doppiaggio è stato fatto a suo tempo su Prejudice e non credo di avere molto altro da aggiungere.

Tutti i santi giorni, Paolo Virzì 2012

Tutti i santi giorni
di Paolo Virzì, 2012

Ciò che sembra distinguere Tutti i santi giorni dal resto della filmografia di Paolo Virzì e del suo fedele sceneggiatore Francesco Bruni è il rapporto tra i personaggi e la sceneggiatura. In Guido e Antonia hanno trovato due figure così immediate e credibili da saper tenere in piedi il film senza dover attingere a meccanismi scoperti, e pur con qualche azzeccato accorgimento (come quello di far iniziare il film in medias res, chiudendo il cerchio alla fine) li hanno svincolati dagli ingranaggi più soffocanti restituendo una gradita sensazione di onestà, piuttosto rara nel cinema italiano. Persino di libertà compositiva, per come si alternano la leggerezza e la tensione, il senso dell’umorismo e la paura che il mondo intero ci crolli addosso. Il trucco c’è, ma non si vede: al centro di Tutti i santi giorni, che come al solito affronta il mondo di oggi soltanto di striscio, c’è soprattutto una linea retta di quotidianità spezzata da un ostacolo, e da ricucire al più presto. Guido e Antonia in tal senso non sono davvero liberi, ma stavolta Virzì e Bruni sembrano osservarli da una certa distanza, forse la stessa nostra, perché hanno fiducia in loro. Questo è il loro film più dichiaratamente, sfacciatamente romantico, ma in una maniera favolosamente ordinaria – un piccolo miracolo. Molto del merito della sua riuscita va però, a monte, ai due interpreti: Luca Marinelli è una bellissima conferma e il suo Guido è uno dei personaggi italiani più amabili e divertenti degli ultimi tempi. D’altra parte, Thony è una scoperta ancora più notevole – non perché è una cantante vera che recita, ma perché è una cantante che recita benissimo: tutt’altro che scontato. Le sue canzoni sono il tocco finale di un film delizioso, autentico e vitale.

ParaNorman, Sam Fell e Chris Butler 2012

ParaNorman
di Sam Fell e Chris Butler, 2012

In un periodo, diciamo in un triennio, in cui le certezze sugli equilibri di qualità tra i marchi più importanti del cinema d’animazione vengono quantomeno scompaginati, il titolo obbligato di miglior film animato (in uno stop-motion giunto a livelli qualitativi impareggiabili) dell’anno va a uno studio relativamente giovane ed emergente, giunto solo al secondo lungometraggio. Non dovrebbe essere una sorpresa, visto lo straordinario adattamento fatto proprio dalla Laika a partire da Coraline di Neil Gaiman, ma ParaNorman ha dei meriti persino maggiori: senza il supporto di un veterano come Henry Selick e basato su una storia originale, pur facendo tesoro della lezione di Tim Burton soprattutto da un punto di vista produttivo (Chris Butler, anche sceneggiatore, aveva lavorato sugli storyboard di La sposa cadavere), ParaNorman fa un passo avanti e propone qualcosa di riconoscibile eppure di totalmente inedito. Se il modello del film è infatti un cinema per ragazzi che non esiste più, sotterrato dal successo dei franchise e risollevato qua e là da operazioni perlopiù nostalgiche come Super 8 di Abrams, ciò che sbalordisce davvero è dove ParaNorman riesce a spingersi, soprattutto verso il finale. Da una parte, portando i personaggi e il pubblico (in primis quello preadolescente) a confronto con temi estremamente famigliari, senza mai sottovalutarne l’impatto emotivo; dall’altra, arrivando a un allucinato delirio visivo che sembra mescolarsi a suggestioni quasi da anime giapponese. Ma anche tutto ciò che precede la commovente e fenomenale conclusione non può lasciare indifferenti: ParaNorman è un film di una ricchezza quasi frastornante, divertente fino alle convulsioni per la densità delle sue trovate, delle invenzioni visive e narrative, per la cura nel tratteggio dei suoi personaggi, eppure riesce a essere veramente maturo nel raccontare temi come il rapporto con la morte o la battaglia a difesa della propria diversità. Dando sempre per scontato, contrariamente alla norma, che l’interlocutore abbia l’intelligenza sufficiente a volersi (e sapersi) confrontare con essi, che abbia dodici, otto, ventuno o quarant’anni. E che abbia voglia di emozionarsi davvero.

Sound of my voice, Zal Batmanglij 2011

Sound of my voice
di Zal Batmanglij, 2011 

In uno scantinato di Los Angeles vive una donna che respira con l’aiuto di una bombola di ossigeno e che si ciba solo di frutta e verdura coltivata dai suoi seguaci in una serra. Si chiama Maggie, e dice di venire dal futuro. Una coppia di scettici decide di smascherarla infiltrandosi nella setta, ma non sarà così semplice. Seconda metà della doppietta che, insieme ad Another Earth, impose all’attenzione dei media il talento dell’attrice e co-sceneggiatrice Brit Marling al Sundance del 2011, anche Sound of my voice è un film che circuisce i linguaggi della fantascienza utilizzando lo stile (e il budget) del cinema indipendente. Se le ristrettezze economiche non ostruiscono in alcun modo la sua efficacia, grazie all’asciuttezza e alla precisione con cui viene raccontata la tensione elastica tra fede e razionalità, il film dell’esordiente Zat Batmanglij parte dalla fascinazione nei confronti della “setta”, delle sue dinamiche e della sua rappresentazione, ma va in una direzione diversa da un film Martha Marcy May Marlene (anch’esso presentato al Sundance 2011) e finisce per sbucare in territori più metafisici, o semplicemente più interessati alla narrazione in sé che a ciò che la narrazione comporta. In modo simile ad Another Earth, anche Sound of my voice predilige la premessa alla risoluzione: il finale è tronco e aperto, ma la chiave trovata per chiudere i giochi da parte di una sceneggiatura che gioca a carte scoperte è un’idea tanto semplice quanto strabiliante: essere abbandonati in mezzo alla strada sul più bello può risultare irritante, oppure può rimanerti sotto la pelle per settimane. Personalmente io faccio parte dei folgorati, faccio parte della setta di Maggie, o meglio ancora, della setta della magnetica, stupefacente Brit Marling.

Il film è già facilmente reperibile nell’edizione dvd inglese.

I bambini di Cold Rock (The Tall Man), Pascal Laugier 2012

I bambini di Cold Rock (The Tall Man)
di Pascal Laugier, 2012

Una delle firme di punta del cinema horror “estremo” francese, Pascal Laugier, scrive e dirige il suo primo film in lingua inglese ambientato negli Stati Uniti, in verità una produzione franco-canadese, levando il pedale del gore ma mantenendo il gusto, già mostrato nel suo discusso Martyrs, per il ribaltamento prospettico e per i twist narrativi. La sceneggiatura, tutt’altro che impeccabile ma piuttosto divertente per chi sa stare al gioco, è infatti l’elemento migliore del film insieme alla regia, dove Laugier piazza qualche pezzo di bravura per innalzare il film dalla media dei thriller di Serie B con ambizioni metaforiche. Il suo The Tall Man, pur essendo un po’ scombinato, è comunque un ibrido interessante e curioso, più difficile da inquadrare di quanto sembri; manca giusto un po’ di coraggio e il cast non è del tutto adeguato (anche se Jessica Biel ce la mette tutta) ma è davvero brillante l’idea di usare l’ambientazione in una deprimente cittadina di minatori disoccupati nello stato di Washington per rappresentare, non tanto la crisi economica o culturale, ma il definitivo decadimento di un intero immaginario, quello della provincia americana. Con uno sguardo da “straniero”, Laugier predilige il gioco narrativo ma pizzica anche il pubblico con un interrogativo morale.

appendice al pube / guida non esaustiva alle nuove serie tv (ottobre 2012)

Circa un mese fa abbiamo parlato dei pilot delle serie tv autunnali, ma – ovviamente – non è ancora finita: ecco la puntuale appendice con qualche altra serie degna di nota e iniziata in queste ultime settimane.

Le tre serie che mi sono permesso di saltare del tutto, alla luce delle recensioni e del fatto che non avrei nemmeno il tempo di andare al cesso, sono Chicago Fire, Beauty and the Beast, Emily Owens MD.

Cominciamo? È una roba veloce.

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The Moth Diaries, Mary Harron 2011

The Moth Diaries
di Mary Harron, 2011

Ci sono film che è davvero impegnativo sbagliare. La canadese Mary Harron, più di un decennio dopo l’ottimo American Psycho che, curiosamente, era un film facilissimo da sbagliare, adatta un romanzo vampiresco di Rachel Klein ambientato in un collegio femminile, ma stavolta tira fuori un terribile pasticcio dominato dal ridicolo involontario. Il peccato e lo spreco sono centuplicati dall’assoluta perfezione del casting: Sarah Bolger e Sarah Gadon, quest’ultima nuova musa della famiglia Cronenberg, sarebbero la scelta perfetta per rappresentare un’innocenza sull’orlo del tradimento e la gigantessa Lily Cole, con quel fisico e quel volto che hanno ben poco di umano, sembra nata per fare un ruolo di questo tipo. Ma non bastano tre belle facce se non c’è nessuno a dirigerle. E tutto il resto è clamorosamente sbagliato, dalla meccanica e puerile sceneggiatura alla leccata fotografia di Declan Quinn (uno molto bravo, altrove), buona giusto per quattro screenshot da postare su Tumblr – ma tutto ciò ha poco a che fare con il cinema. Interminabile e noiosissimo nonostante duri un’ora e venti, il film della Harron è così artificioso e fasullo da annullare qualunque tentativo di spacciarsi per sanamente morboso. Per fortuna, si dimentica in fretta.