End of watch
di David Ayer, 2012
Molti film recenti hanno utilizzato, anche in modo acritico, il fortunato formato del “found footage”, a volte per fare di necessità virtù. David Ayer, che pur ha in mano un budget ridotto (sette milioni di dollari: un’inezia) si limita ad accarezzarlo e se ne allontana presto (Jake Gyllenhaal porta con sé delle telecamere per un “corso”, ma solo metà delle riprese sono effettivamente realizzate dal suo personaggio) ma ne comprende e sa sfruttarne lo stimolo originario: la riproduzione di un’illusione di realismo totale, che Ayer esaspera e contraddice allo stesso tempo con un montaggio vorticoso che trasforma l’indole documentaristica in un videogame. Ma la vera formula vincente è quella che affianca alle sequenze più violente e più tipiche del genere dei lunghissimi dialoghi, quasi tutti ambientati nell’auto di pattuglia, tra i due (perfetti) protagonisti Gyllenhaal e Michael Peña: sequenze quasi statiche (frontale, campo, controcampo) e letteralmente “comiche” che insieme alle divagazioni sentimentali (Natalie Martinez, la moglie di Peña nel film, è una rivelazione) sviluppano un attaccamento ai due che mette a dura prova lo spettatore quando il gioco si fa duro. Certo, Ayer non ha alcun interesse per le sfumature morali e spezza il film in due a colpi d’accetta: i poliziotti sono buoni ed eroici, i cattivi sono cattivi e basta. Ma questo fattore non diminuisce l’impatto clamoroso di uno dei polizieschi più interessanti ed efficaci degli ultimi anni, originalissimo, terribilmente divertente e poi improvvisamente minaccioso, teso e tragico. Bellissimo.
Ma in quel dialogo tra messicani bisognava proprio doppiare “Los fuckin’ Angeles” con “Los c***o Angeles”? Nota strampalata (e premio invenitur a chi l’aveva trovata) in una sinfonia di dialoghi indovinata.
Menzione a parte per Roman Vasyanov. La fotografia di un film è la regia della luce diceva qualcuno, e la sua luce mi è rimasta impigliata nella retina.
Beh, mai nessuna potrà essere come quell’”Ala-cazzo-bama” di Joe Pesci…