dicembre 2012

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duemiladodici: il classificone dei film dell’anno

la top venti
(la classifica dei 20 film dell’anno, tra quelli usciti regolarmente in Italia tra il 1/1 e il 31/12)

  1. Moonrise Kingdom di Wes Anderson
  2. Pietà di Kim Ki-duk
  3. War Horse di Steven Spielberg
  4. ParaNorman di Chris Butler e Sam Fell
  5. Cosmopolis di David Cronenberg
  6. Reality di Matteo Garrone
  7. Amour di Michael Haneke
  8. The Avengers di Joss Whedon
  9. Argo di Ben Affleck
  10. Quella casa nel bosco di Drew Goddard
  11. Un sapore di ruggine e ossa di Jacques Audiard
  12. Attack the Block di Joe Cornish
  13. Vita di Pi di Ang Lee
  14. Killer Joe di William Friedkin
  15. Take Shelter di Jeff Nichols
  16. È stato il figlio di Daniele Ciprì
  17. Chronicle di Josh Trank
  18. C’era una volta in Anatolia di Nuri Bilge Ceylan
  19. Ribelle di Mark Andrews
  20. La talpa di Tomas Alfredson

il ventunesimo posto
(gli altri 20 film dell’anno, in ordine al-fa-be-ti-co)

21 Jump Street * 50 e 50 * Another Earth * Il cavaliere oscuro – Il ritorno * Damsels in Distress
Diaz * End of Watch * Hunger Games * Hugo Cabret * I Muppet * Margaret
Mission: Impossible – Protocollo Fantasma * Oltre le colline * Pirati! Briganti da strapazzo
Ralph Spaccatutto * Ruby Sparks * A Simple Life * Skyfall * Tutti i santi giorni * Young Adult

i ritardatari
(i 3 film dell’anno usciti regolarmente in Italia, ma con aaanni di ritardo)

  1. Il castello nel cielo di Hayao Miyazaki
  2. Hunger di Steve McQueen
  3. Ballata dell’odio e dell’amore di Alex De La Iglesia

gli invisibili
(i 15 film più belli visti quest’anno, tra quelli senza una data d’uscita italiana)

  1. Holy Motors di Leos Carax
  2. The Raid: Redemption di Gareth Evans
  3. Tyrannosaur di Paddy Considine
  4. Sound of Noise di Ola Simonsson e Johannes Stjärne Nilsson
  5. As One di Moon Hyeon-Seong
  6. Pitch Perfect di Jason Moore
  7. Hara-kiri: Death of a samurai di Takashi Miike
  8. Sound of my voice di Zal Batmanglij
  9. Safety Not Guaranteed di Colin Trevorrow
  10. Bernie di Richard Linklater
  11. Life Without Principle di Johnnie To
  12. Extraterrestre di Nacho Vigalondo
  13. Sunny di Kang Hyeong-Cheol
  14. Compliance di Craig Zobel
  15. The Myth of the American Sleepover di David Robert Mitchell
per un pelo
(il film del 2012 che sarebbe sul podio, ma in Italia esce il 3/1/2013)
  1. The Master di Paul Thomas Anderson

l’angolo del pregiudizio
(i 10 film che forse ce l’avrebbero fatta, ma non li ho visti)

7 Psicopatici * Cesare deve morire * Cogan – Killing them softly
E ora parliamo di Kevin * Ernest & Celestine * The Grey
Io e te * La guerra è dichiarata * Shame * Il sospetto

ma perché non c’è il mio film prefe?
i casi sono tre: non l’ho visto, non mi è piaciuto, oppure non mi è piaciuto abbastanza.

ma perché non è uguale alla mia classifica?
perché è la mia.

Buon anno a tutti: ci si rivede qui nel 2013, decimo anno di questo blog.
Fate le personcine a modo.

Ralph Spaccatutto, Rich Moore 2012

Ralph Spaccatutto (Wreck-It Ralph)
di Rich Moore, 2012

Il film che completa, in qualche modo, un ciclo iniziato dall’arrivo in Disney di John Lasseter, ha una premessa che, non a caso, assomiglia a quella di Toy Story, il primo lungometraggio della Pixar: cosa succede ai giochi quando i bambini non li guardano? In questo caso i protagonisti sono personaggi di videogame, e non qualsiasi: abitano una sala giochi che, nel corso di trent’anni, ha visto il passaggio da Pac-Man a Dance Dance Revolution, ma che ha mantenuto un’aria nostalgica, quasi da “bottega” – il proprietario, l’anziano signor Litvak, conserva ancora con malcelato affetto i giochi di una volta. Fin dalle prime battute, ma già dal materiale promozionale, l’intento (insieme commerciale e artistico) della Disney con Ralph è piuttosto chiaro, e ha origine proprio nell’esperienza di grande successo della casa di Wall-E e Up: riportare al cinema animato gli adulti, o meglio, far sì che siano i genitori a convincere i figli ad andare in sala, e non viceversa. Ralph è infatti una pacchia assoluta per spettatori tra i trenta e i quarant’anni, ma a parte le citazioni del mondo videoludico vintage e un umorismo tendenzialmente geek (Rich Moore dopotutto viene da Futurama) il divertimento è garantito per tutti. E il segreto non è tanto nella resa assolutamente spettacolare (davvero eccezionale il modo in cui vengono sfruttate le differenti ambientazioni dei videogame) ma soprattutto nel cuore dei personaggi: il messaggio di accettazione è abbastanza canonico (e trasmesso con l’ingenuità del cinema per famiglie: non c’è nulla di male) ma Ralph riesce a dargli sostanza con convinzione e infaticabile carisma, e come al solito il meglio lo danno i comprimari – in particolare l’adorabile, bizzarra e dolcissima Vanellope che in inglese ha la voce di Sarah Silverman: da noi la doppia, degnamente, Gaia Bolognesi.

Merita una citazione a parte Paperman, il cortometraggio che precede il film in sala: diretto da un altro ex pixariano, John Kahrs, è un piccolo capolavoro che mescola 2D e 3D in modo miracolosamente fluido, un romantico gioiello d’animazione, in bianco e nero, completamente muto.

Moonrise Kingdom, Wes Anderson 2012

Continuo con i post ritardatari: ho visto “Moonrise Kingdom” lo scorso 7 ottobre.

Moonrise Kingdom
di Wes Anderson, 2012

Dai tempi di Rushmore, e sono passati ormai 14 anni, Wes Anderson ha saputo imporre e restare fedele al suo personalissimo stile con tale coerenza da diventare tanto riconoscibile quanto (a volte sterilmente) imitato. Ma l’inflessibilità di uno dei pochi autentici “autori” americani non è mai diventata maniera di se stessa: il suo cinema alieno e ossessivo, la morbosa cura dei dettagli, il feticismo esasperato, lo studio delle simmetrie e la precisione dei movimenti di macchina non sono freddi e tautologici, ma vanno di pari passo con il calore, la nostalgia e la dolcezza delle storie che racconta, che si tratti di grandi imprese o di piccole vicende umane. Quest’ultimo suo film, ambientato nel 1965 in un’isola del New England dove due tredicenni decidono di fuggire insieme, è così sublime da sembrare, più che l’ennesimo tassello del suo colorato mosaico narrativo, quasi un punto d’arrivo. Anderson sposta dal centro della scena il suo cast di volti noti, come al solito densissimo (non mancano gli habituè come Jason Schwartzman e Bill Murray), e ci mette due formidabili esordienti, Jared Gilman e Kara Hayward (una rivelazione), per raccontare un romanticissimo, spassoso, irresistibile romanzo di formazione amorosa, un inno malinconico all’adolescenza, visivamente ammaliante e di vertiginosa ricchezza, incorniciato dall’incredibile colonna sonora di Alexandre Desplat. Moonrise Kingdom è il compimento di un percorso con pochissimi ostacoli, un film di commovente perfezione.

Cosmopolis, David Cronenberg 2012

Ho visto “Cosmopolis” per la prima volta sette mesi fa e non ne ho mai scritto. Eccoci.

Cosmopolis
di David Cronenberg, 2012 

“Dove vanno tutte queste Limo durante la notte?” si chiede Eric Packer, protagonista del film che David Cronenberg ha tratto, sceneggiandolo personalmente, da un breve romanzo di Don DeLillo. Chi ha avuto la fortuna di vedere Holy Motors ha avuto una risposta assai più fantasiosa rispetto a quella data da Cronenberg, ma è comunque una curiosa bizzarria (notata, ovviamente, da chiunque) che due film così belli e così importanti, presentati peraltro fianco a fianco in concorso al Festival di Cannes, siano ambientati in una Limousine, in entrambi casi simbolo della decadenza di un potere legato all’immaginazione, un monumento che si trasforma in mausoleo. Pur replicandole con una certa fedeltà, Cronenberg fa sue le (limitate) pagine di DeLillo scavando a fondo nel personaggio contrastato e contraddittorio di Eric, un “re” della finanza miliardario, vittima di costanti minacce di morte, che nel corso di una giornata attraversa per un taglio di capelli una Manhattan in preda ai tumulti e tra un incontro e l’altro, ai piedi del suo trono, guarda in faccia la rovina del suo capitale, alla ricerca disperata e probabilmente vana di qualcosa che lo faccia sentire ancora vivo. Girato per gran parte all’interno della Limousine isolata acusticamente, sfruttata da Cronenberg con una regia brillante e imprevedibile, Cosmopolis è costruito su una sceneggiatura eccentrica, complessa e altrettanto soffocante, intenzionalmente verbosa, che non frena in alcun modo la formidabile e ipnotica messa in scena iperrealista e onirica del regista, di maniacale precisione – e che si conclude con un lungo, brutale dialogo (di circa 25 minuti) tra Eric e l’uomo che lo vuole uccidere. Arrivato dopo una serie di opere (apparentemente) più tradizionali, Cosmopolis è un film glaciale, stilizzato e magistrale che segna il ritorno del Cronenberg più intransigente e radicale, fin dalla definitiva, geniale scelta di casting di Robert Pattinson, che il regista carica ancora una volta di caratteri mortiferi: sotto la sua giovinezza, il suo fascino e il suo potere batte un cuore nero come la pece, o forse non batte più nulla.

Vita di Pi, Ang Lee 2012

Vita di Pi (Life of Pi)
di Ang Lee, 2012

Una storia che, per la maggior parte della sua durata, ha tre protagonisti: un ragazzo, una tigre, l’oceano. Trasferire sullo schermo un romanzo come quello di Yann Martel non era un’impresa da poco (non solo per questa ragione: lo sa bene chi conosce il funzionamento del libro, che preferisco non rivelare) e ci hanno provato diversi registi nel corso di una decina d’anni, da Shyamalan a Jeunet.

Alla fine l’incarico è toccato ad Ang Lee, un autore con un riconosciuto spirito di adattamento; il regista taiwanese è riuscito a vincere la sfida con grande naturalezza ed eccezionale maestria, trasformando Vita di Pi in un film suggestivo, incantevole ed emozionante. Visivamente, prima di tutto, è uno dei più clamorosi traguardi del cinema americano recente; non tanto per la strabordante ricchezza di colori, luci, stimoli (a partire dai formidabili, semi-documentaristici titoli di testa nello zoo) e non solo per la perfezione micidiale della CGI, quanto per la cura sovrumana della regia: con l’aiuto del direttore della fotografia Claudio Miranda (che si è fatto le ossa con Fincher: è abituato a sperimentare), Lee porta a compimento uno stupefacente paradosso: Vita di Pi è quasi tutto ambientato su una piccola scialuppa, eppure ogni singola inquadratura è una nuova scoperta.

Ma in tutto questo splendore visivo, che talvolta si trasforma in allucinazione, Lee riesce a infondere una sentita e mai banale spiritualità; senza allontanarlo, quindi, dalla natura più profonda della storia, quella di una riflessione sulla ricerca incessante della (propria) fede che va a braccetto con uno studio sulla soggettività della narrazione, manifestato nella parte finale con inattesa durezza. E allo stesso tempo, senza dimenticare la sua dimensione più spettacolare: quella del naufragio, per esempio, è una sequenza a cui difficilmente si arriva preparati, dieci minuti di puro cinema, grandioso e spaventoso, il cui impressionante impatto, per una volta, è valorizzato da un 3D davvero sorprendente.

Perché uno degli aspetti più straordinari di Vita di Pi è la potenza espressiva con cui viene utilizzata questa tecnologia: in un un momento in cui il 3D sembra diventato, in molti casi, un modo per aumentare furbescamente il prezzo dei biglietti, Ang Lee lo sfrutta invece con una destrezza e con un’intelligenza che lasciano spesso a bocca spalancata, restituendo un raro e prezioso senso di autentica meraviglia. Il concetto è chiaro: nessun progresso è buono o cattivo in sé, ma dipende dall’uso che se ne fa – e questo bellissimo film riuscirebbe a convertire anche il più testardo degli scettici. Se dovete vedere anche un solo film in 3D nella vostra vita, fate che sia Vita di Pi.

Amour, Michael Haneke 2012

Amour
di Michael Haneke, 2012

L’ultimo film del grande regista austriaco poteva sembrare, a una prima occhiata distratta, una deviazione dalla cifra abituale del suo cinema, dai suoi temi e dal suo stile, ma in verità si tratta di un altro spietato ritratto, a suo modo persino più estremo del solito, di una sicurezza borghese che si frantuma, meglio ancora che si decompone lentamente di fronte ai nostri occhi, ambientato ancora una volta in una casa – che, non a caso, è stata da poco oggetto di una tentata effrazione – che diventa una trappola e una prigione, in cui tutto ciò che vi è contenuto – la musica, la cultura, la memoria – finisce per diventare l’ultima beffa di fronte alla fragilità dell’esistenza e all’ineluttabilità della morte. Dopo aver aperto la storia in modo sconcertante e insieme necessario (ai suoi occhi una progressione narrativa verso questa conclusione sarebbe, probabilmente, un tradimento e un ricatto nei confronti dello spettatore), Haneke racconta la storia di Georges e di Anne in un lungo flashback, spezzando il tempo a colpi di accetta e poi diluendolo con tenerezza e brutalità, non concedendo alcuna tregua a loro né a noi (e nemmeno ai sogni) e facendo viaggiare il suo sguardo glaciale in parallelo al nostro: il regista sembra quasi mettersi in disparte, a osservare con il cinismo di un etnologo nascosto dietro una parete trasparente. Girato con la solita precisione chirurgica attraverso un uso magistrale degli spazi interni, Amour è un film apparentemente semplice ed essenziale ma scardina gli equilibri delle nostre certezze e delle nostre coscienze con una franchezza quasi insostenibile, lasciando infine un dubbio aperto e bruciante sui confini dei sentimenti, sulla natura stessa di un gesto definitivo, sull’egoismo, sulla dolcezza, e sulla crudeltà dell’amore.

Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, Peter Jackson 2012

Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato (The Hobbit – An unexpected journey)
di Peter Jackson, 2012

Negli anni della trilogia di Il signore degli Anelli, gran parte del discorso sull’adattamento di Peter Jackson era imperniato sulla fedeltà al testo: cos’è assente? Cosa è stato inserito? Di cosa si sente la mancanza? Cosa c’è di troppo? Discorsi, a dire, il vero, che interessavano quasi soltanto gli iniziati – per quanto non si tratti propriamente di una nicchia. Un decennio dopo, Jackson è tornato sui suoi passi ma ha messo subito in chiaro una cosa: scordatevi l’aderenza al testo, anche perché se un libro di 350 pagine diventa una saga di tre filmoni, qualcosa bisognerà pur inventare. Ma nel frattempo, all’annoso dilemma del rapporto tra il film e il libro se n’è aggiunto un altro: quello tra questa trilogia e la precedente. Ed è proprio qui, più che nell’aneddotico e limitante paragone tra pagina e schermo, che Un viaggio inaspettato comincia a soffrire. Non tanto per una questione di confronto qualitativo, non perché con questo primo capitolo la trilogia di Lo Hobbit si preannunci, a scanso di miracoli, infinitamente meno riuscita di quella del Signore degli Anelli, quanto perché il peso enorme di quel mostro da tre miliardi di dollari (e diciassette Oscar, non scordiamolo) agisce sulla nuova operazione schiacciandola e trasformandola in una pallida appendice in cui ogni santa volta che appare l’Anello deve per forza partire il tema musicale dell’Anello. Invece di affrontare Lo Hobbit come un oggetto a sé stante, con la sua dignità, Jackson ne mortifica l’individualità ponendo l’accento su un’unica qualità – quella di essere “il prequel”, l’anticipazione di una storia ben più importante e più bella, a suo avviso, che abbiamo però già sentito e di cui conosciamo le sorti. Non ha troppo senso dire che un film sarebbe migliore se fosse diverso (perché non è così: sarebbe un altro film) ma è innegabile che l’impulso verso una storia esplosivamente infantile, come traspare dalle sequenze più divertenti del film, come quella dei troll, strida terribilmente con il tono generale – che è minaccioso e cupo, con tanto di posticcio super-villain in CGI, nonché mortalmente serioso: ma la posta in gioco così ridotta, messa continuamente in parallelo alla successiva e più decisiva lotta tra il Bene e il Male, non aiuta certo ad appassionarci alle vicende di due protagonisti che sappiamo usciranno pressoché incolumi da queste nove interminabili ore. La dilatazione temporale non è d’aiuto, riempie il film di accessorie lungaggini ma, paradossalmente, non ci dà il tempo di conoscere per bene i nani, che restano quasi tutti indistinguibili, e persino la scena più attesa (e apparentemente più acclamata), quella di Gollum e degli “indovinelli”, soffre di tutto ciò: da un lato mette letteralmente il film “in pausa”, dall’atro viene avvilita dal continuo rimando al destino dell’Anello. Ciò nonostante, non manca il divertimento, il film è realizzato con grande cura, vi si ritrova il senso della grandiosità e dell’impellenza che Jackson riesce a infondere in ogni sua storia (per quanto svilito dalla proiezione in HFR, ma questo è tutto un altro discorso), e i panorami della Nuova Zelanda, che pensavamo di aver abbondamente digerito, continuano a mozzare il fiato. Ma in definitiva, Lo Hobbit è un monumento che Jackson ha costruito, più che all’epica tolkieniana, al suo appropriamento totale della stessa: spettacolare, e francamente inutile.

Pitch Perfect, Jason Moore 2012

Pitch Perfect
di Jason Moore, 2012 

Date le migliori condizioni, non è detto che un film debba essere imprevedibile per essere riuscito. L’opera prima di Jason Moore, al debutto cinematografico dopo anni di musical, segue fedelmente una strada talmente battuta da rendere il film riconoscibile fin dal primo istante e in quasi tutti i suoi passaggi narrativi, dall’arrivo al college della ragazza nuova e un po’ alternativa (il suo hobby sono i mash-up, sogna di fare la producer) fino al crescendo delle gare che coinvolgono la disciplina di turno, che in questo caso sono i gruppi a cappella. Ciò nonostante, Pitch Perfect (successo a sorpresa negli Stati Uniti, sia di pubblico che di critica) possiede le migliori condizioni di cui sopra ed è, senza girarci troppo intorno, tra i film più puramente divertenti degli ultimi mesi – oltre che uno di quei film che, con tutta probabilità, tra qualche anno avremo visto cento volte senza stufarci mai. Il merito va a una sceneggiatura robusta e piena di dialoghi intelligenti (è di Kay Cannon, che viene da 30 Rock e che pur dovendo un certo briciolo di riconoscenza a Glee non risparmia qualche frecciatina) con molti passaggi autenticamente esilaranti (tutti quelli con i due giudici Elizabeth Banks e John Michael Higgins, per esempio), a una scelta musicale ben curata, scaltra e terribilmente efficace. Ma soprattutto a un cast formidabile tra cui spicca Rebel Wilson (che grazie a questo film, ben più che a Bachelorette, è diventata la beniamina di molti critici americani) e ovviamente la deliziosa Anna Kendrick: per una volta può tornare a sfoggiare il talento canoro che l’aveva lanciata a Broadway a soli 12 anni. Alexis Knapp, invece, non è dato sapere da che pianeta arrivi. Prevedibile o meno, quindi, il film di Moore è uno spasso indicibile, tutto qui; senza pretese di rivoluzionare il genere, è una commedia musicale al femminile assolutamente impeccabile, da manuale, da cui, al massimo, molti avrebbero da imparare.

Lawless, John Hillcoat 2012

Lawless
di John Hillcoat, 2012

Il terzo film che John Hillcoat ha tratto da una sceneggiatura di Nick Cave dopo Ghosts… of the Civil DeadThe Proposition, tratto da un romanzo di Matt Bondurant che narra le avventure di suo nonno Jack e dei suoi due fratelli nella Virginia degli Anni Trenta, parte da un presupposto davvero particolare: gli anni del Proibizionismo, analizzati dal cinema in lungo e in largo, vengono guardati da una prospettiva differente, quella della Contea di Franklin, un luogo polveroso e marginale, ”alla periferia dell’Impero”, ben distante dal mito di Chicago con i suoi mafiosi in ghette e cravatta, dove la gente fa quello che può per tirare avanti durante la Grande Depressione. La città, quella dove si consumano i crimini che occupano le prime pagine dei giornali, è vista come un demonio da cui scappare (per esempio, dall’ex ballerina Maggie, la bravissima Jessica Chastain) ma esercita comunque un fascino irresistibile sul protagonista, il giovane Jack Bondurant: il motore del film è la sua ambizione urbana, quella di diventare un gangster come il leggendario Floyd Banner, attirato sì dal successo personale e dall’odore dei soldi, ma soprattutto dal contrasto e dal confronto con i sue due fratelli – visibile fin dalla prima rivelatoria sequenza ambientata anni prima, in cui i due ragazzini cercano invano di spingerlo a uccidere un maiale – che gli impedisce di dare un senso alla sua vita e di diventare uomo. Però, nonostante gli sforzi di Shia LaBeouf, Lawless ha la sua forza negli altri due Bondurant: il furioso, incontrollabile e violento Howard di Jason Clarke e soprattutto il Forrest di Tom Hardy. E ancora una volta è l’attore inglese a diventare il fulcro e l’anima del film, con una tattica invincibile: mentre la sceneggiatura lo ricopre con un’aura quasi mitologica, Hardy si aggira parlando appena, bofonchiando e tossendo, con un carisma mostruoso che non ha bisogno di forzature, e alla fine regala una delle performance più bizzarre ed entusiasmanti dell’anno. Hillcoat qua e là prende qualche abbaglio, soprattutto caricando il personaggio di Guy Pearce di una sgradevolezza grottesca, ma la perfezione del resto del cast (inclusa la solita, incantevole Mia Wasikowska) e l’ottimo lavoro sulla fotografia digitale fatto insieme a Benoît Delhomme, fa di Lawless un interessante, avvolgente gangster movie sui generis. Senza dimenticare, ovviamente, l’apporto delle musiche: Nick Cave non si è limitato a scrivere il film, insieme a Warren Ellis (The Bootleggers) ha messo su una band ad hoc e con l’aiuto di ospiti illustri (Emmylou Harris, Mark Lanegan) ha composto una decina di suggestive canzoni, perfette per l’occasione. Se c’è una colonna sonora da conservare nel 2012, è quella di Lawless.

duemiladodici: i miei 20 album dell’anno

  1. Frank Ocean – Channel Orange
  2. Jessie Ware – Devotion
  3. Chairlift – Something
  4. Lianne La Havas – Is your love big enough?
  5. Regina Spektor – What we saw from the cheap seats
  6. Maria Antonietta – s/t
  7. Ellie Goulding – Halcyon
  8. Colapesce – Un meraviglioso declino
  9. Marina & the diamonds – Electra heart
  10. Heike has the giggles – Crowd surfing
  11. Sharon Van Etten – Tramp
  12. Grizzly Bear – Shields
  13. First Aid Kit – The lion’s roar
  14. Cat Power – Sun
  15. The XX – Coexist
  16. La Sera - Sees the light
  17. Lana Del Rey – Born to die
  18. Rihanna – Unapologetic
  19. Miguel – Kaleidoscope dream
  20. Bat For Lashes – The haunted man

Ruby Sparks, Jonathan Dayton e Valerie Faris 2012

Ruby Sparks
di Jonathan Dayton e Valerie Faris, 2012

Calvin è un giovane scrittore. La sua opera prima è considerata un grande romanzo americano contemporaneo. Nonostante le pressioni del suo editore, però, non riesce a scrivere una parola del suo atteso secondo lavoro. Sotto consiglio del suo analista, si mette a scrivere di una ragazza immaginaria apparsagli in sogno e il personaggio, a cui dà il nome Ruby Sparks, diventa una piccola ossessione. Un mattino, Calvin si sveglia e Ruby lo aspetta in cucina per la colazione.

Lo spunto iniziale sembra l’incontro di risaputi meccanismi narrativi, il blocco dello scrittore, la parola scritta che prende vita. Ma l’intelligenza e l’originalità di Ruby Sparks va ben oltre le sue premesse, e il film si trasforma presto in una bizzarra storia d’amore sull’impossibilità – e in definitiva, sull’inutilità – di trovare la metà perfetta della propria mela, stranamente del tutto priva di velleità intellettuali, e con un modo davvero inusuale, ironico e graffiante, di raccontare l’intervento nel mondo di una Magia dotata di tratti quali la normalità e la consuetudine. Ma ciò che colpisce di più del film di Dayton e Faris, in ogni caso enormemente cresciuti rispetto al debutto Little Miss Sunshine, è la possibilità di leggerlo sotto diverse luci – alcune delle quali illuminano uno sguardo impietoso sul modo in cui gli uomini, trascinati da una sorta di presunzione pseudo-romantica, dipingono o scrivono i personaggi femminili, di carta o di celluloide. In tal senso, Ruby non è l’ennesima “Manic Pixie Dream Girl” e il film risuona quasi come una riflessione sul cliché stesso. Raccontato per gran parte con garbo e leggerezza, Ruby Sparks prende da un certo punto in poi una piega sottilmente inquietante che riflette la crescente sgradevolezza del protagonista (un bravissimo Paul Dano) e che culmina con una scena drammatica e dark, annunciata ma ugualmente angosciante.

Il merito della riuscita di questo sorprendente piccolo film è quasi tutto nelle mani della sceneggiatrice, oltre che in quelle dell’attrice protagonista. Il caso vuole che siano la stessa persona: Zoe Kazan.

Premium Rush, David Koepp 2012

Premium Rush
di David Koepp, 2012

Un giovane dropout scavezzacollo con la bici a scatto fisso che lavora come fattorino nel traffico micidiale delle strade di New York riceve alla Columbia una busta da consegnare a Chinatown e diventa l’obiettivo di un poliziotto corrotto e mezzo matto. La trama dell’ultimo film di David Koepp (sceneggiatore che aveva già dimostrato le sue doti di capace regista in Ghost Town, un altro film delizioso benché passato inosservato) è poco più che un pretesto: Premium Rush è costruito come un lungo, inarrestabile inseguimento metropolitano, girato quasi interamente in esterni, su e giù per Manhattan, tra un sudatissimo Joseph Gordon-Levitt (che durante le riprese si è pure rotto un braccio scaraventandosi contro un parabrezza) e il memorabile villain interpretato da Michael Shannon, che si presta a una specie di formidabile parodia dei suoi tipici ruoli borderline. La sceneggiatura, nonostante la palese esilità del progetto, riesce a reinventare bene l’artificio della moltiplicazione dei punti di vista, rivelando in modo graduale l’intreccio per tenere viva l’attenzione, e nonostante alcune trovate non siano proprio raffinatissime (le mappe, le combinazioni mentali à la Sherlock Holmes per uscire da un incrocio senza rompersi le ossa) Premium Rush è una fuga divertentissima, realizzata in modo eccellente (il budget non è ridottissimo, circa 35 milioni di dollari) e con un ritmo incredibilmente serrato, senza un momento di respiro. Un vero spasso.

Purtroppo il film, girato nell’estate del 2010, negli Stati Uniti è uscito più di due anni dopo nell’indifferenza generale, senza recuperare nemmeno il suo budget: un mezzo disastro. In Italia era prevista un’uscita in sala qualche settimana fa, poi cancellata all’ultimo momento in favore di quella direttamente in dvd, disponibile dal 23 gennaio 2013 con il titolo “Senza Freni”.

Safety Not Guaranteed, Colin Trevorrow 2012

Safety Not Guaranteed
di Colin Trevorrow, 2012

“What makes you think there’s something wrong with him?”
“Because he thinks he can go back in time.”
“Was there something wrong with Einstein or David Bowie?”

Un film che sceglie così bene i suoi protagonisti parte sicuramente avvantaggiato: la favolosa Aubrey Plaza è uno dei punti di forza della sublime serie tv Parks and Recreation ed è una gioia, a prescindere, vederla guidare un film, sporcando in parte il suo noto, cinico aplomb con un’inattesa dolcezza. Accanto a lei ci sono Jake Johnson (il suo Nick Miller in New Girl è una delle più belle rivelazioni delle comedy degli ultimi anni e tra i migliori personaggi attualmente in tv) e Mark Duplass, che non è più solo uno degli inventori, per così dire, del “mumblecore” insieme al fratello Jay, ma ormai una star in ascesa, carismatica e capace. E ci sono proprio i Duplass dietro alla produzione di questo film costato una miseria (non si arriva al milione di dollari), prima opera di finzione di Trevorrow e, soprattutto, brillante esordio cinematografico dello sceneggiatore Derek Connolly. La tendenza con cui il film è prodotto e realizzato sembra ricalcare quella presente, in diversi casi, nel recente cinema indipendente americano: l’universo a cui fa riferimento è infatti quello del genere, in particolare della fantascienza (un giornalista e due stagisti partono alla ricerca di un uomo che sostiene in un annuncio su un giornale di poter viaggiare nel tempo) ma il modus operandi è del tutto distante, e si rifà ancora una volta alla leggerezza intimista del cinema indie, su cui Plaza e Johnson lanciano piccoli fuochi di feroce ironia. In ogni caso, Trevorrow non si accontenta delle soluzioni più semplici: il viaggio, iniziato come uno scherzo, diventa presto per i protagonisti un’esplorazione profonda del loro passato, dei loro obiettivi e dei loro fantasmi. E alla fine, grazie al suo sapiente equilibrio tra delicatezza e sagacia, tra l’eccezionalità della commedia e la quotidianità del dramma, Safety not guaranteed si rivela un delizioso piccolo film, pieno di inventiva e di speranza, sulla ricerca del proprio posto nel mondo.

Margaret, Kenneth Lonergan 2011

Margaret
di Kenneth Longerman, 2011

Quella di Margaret è una delle storie più curiose del cinema degli ultimi anni. Kenneth Lonergan, drammaturgo oggi cinquantenne, divenuto un protetto di Scorsese grazie alla sua sceneggiatura di Gangs of New York ma con una sola regia alle spalle (l’acclamato Conta su di me, del 2000) svolge normalmente le riprese del suo secondo film nel corso del 2005: si tratta di un progetto ambizioso, ma nulla può annunciare ciò che sarebbe accaduto negli anni successivi. Quando si passa in post-produzione infatti Lonergan, che vorrebbe un film lungo tre ore contro le resistenze della Fox Searchlight, si attacca al montaggio del film e non ne esce più. Passano i mesi, addirittura gli anni, intanto scompaiono i suoi due più rinomati produttori (Sydney Pollack e Anthony Minghella) e il principale finanziatore Gary Gilbert, denunciato dagli studi per non aver recuperato i costi, denuncia a sua volta il regista, che continua il lavoro sul film grazie a un prestito dell’amico Matthew Broderick, nel film nel ruolo di un professore. Nel 2009 sembra tutto perduto. Nel 2010 arriva l’annuncio: il film è finito e uscirà, portandosi dietro una reputazione da film maledetto – peggio ancora, da film fallimentare. Ci vogliono comunque circa sei anni, una vera eternità, non senza l’aiuto dello stesso Scorsese accompagnato dalla fedele montatrice Thelma Schoonmaker, perché Margaret possa arrivare a vedere la luce dello schermo e il buio delle (poche) sale in una versione lunga due ore e mezza. A quel punto è diventato un oggetto strano che sembra arrivato a noi rinchiuso in una capsula temporale, da un passato lontano: Anna Paquin non sarebbe diventata Sookie Stackhouse per altri tre anni.

Chiedersi di cosa sia fatto un film è quasi come chiedersi di cosa sia fatta la vita. Cosa lo definisce, quando lo diventa. Cosa succede ai brandelli di una pellicola a cui viene negata la sutura. “Chissà cosa stava cercando Lonergan in tutto quel girato” si chiede Wesley Morris sul Boston Globe, e la domanda non potrebbe essere più azzeccata per inquadrare una storia di amore e di ossessione, quella di un regista per la propria opera, che ha messo in luce, radicalizzandola, la distanza tra sistema produttivo e ambizioni autoriali nella Hollywood di oggi – o meglio, dello scorso decennio. La domanda più interessante è, in verità: cosa è rinato dalle ceneri di questo film presunto morto?

Ambientato in una New York in cui è ancora più vivo il ricordo dell’11 settembre, Margaret è un dramma innescato da un episodio casuale: una donna viene investita da un autobus il cui guidatore è stato distratto per qualche istante dalla protagonista del film, la liceale Lisa Cohen, e muore tra le braccia di quest’ultima. Ma ci vuol poco per capire che il film non prenderà la strada segnata. Certo, la trama del film, in senso stretto, racconta il tentativo piuttosto tardivo di Lisa di “fare giustizia”, espiando peraltro la sua colpa, quella di non aver denunciato subito l’autista: era passato con il rosso. Ma risulta quasi un pretesto: Lonergan si sofferma a lungo su dettagli apparentemente periferici della vita di Lisa (le lunghe telefonate con il padre che vive in California, alcune lezioni scolastiche assai più rivelatorie di quanto possano sembrare), sposta spesso la sua attenzione sul rapporto sempre più conflittuale di Lisa con la madre (un’attrice di teatro), su quello con Emily, migliore amica della defunta interpretata dalla magnifica Jeannie Berlin, e con gli uomini della sua vita – un professore (Matt Damon) con cui flirta apertamente, un ragazzo che le muore dietro, un altro a cui regala la propria verginità. Il tutto per restituire il ritratto complesso e, a suo modo, estremo (anche grazie all’interpretazione formidabile e violenta di Anna Paquin, forse la migliore della sua carriera) di una ragazza arrogante e sicura di sé murata tra certezze della sua vita che scopre la tragicità della condizione umana, e in particolare l’assoluta marginalità delle proprie passioni e del proprio ruolo del mondo; un’impotenza che si scontra brutalmente con il fervore adolescenziale della stessa Lisa, con la sua insistita e frustrante ricerca di un’impossibile catarsi “narrativa” che riporti nei ranghi il racconto. Come le urla in faccia Emily, in una delle scene più intense e drammatiche del film: “This isn’t an opera! And we are not all supporting characters to the drama of your amazing life”. Non a caso il film si risolve, in modo necessariamente straziante, proprio a teatro, di fronte ai Racconti di Hoffman.

Del film si potrebbe scrivere per giorni, perché la sua ricchezza e la sua densità si prestano a infinite sfumature interpretative: alcuni dei migliori critici e blogger americani hanno fatto a spallate per prenderne le parti. Ma va detto che Margaret si merita queste e ben altre attenzioni: al di là delle sue ambizioni spropositate, e delle disavventure produttive che a volte fanno sentire il suo peso sul risultato finale, il film di Lonergan nel suo progettuale ma davvero magnetico disordine alterna momenti di palese indecisione a lampi di improvvisa lucidità, fiammate di verità e grandezza. Che sia un capolavoro mancato o meno, Margaret è un gioiello, uno dei film americani più stimolanti, eccentrici e temerari usciti quest’anno.

Holy Motors, Leos Carax 2012

Holy Motors
di Leos Carax, 2012

Un mito da sfatare, quando si parla di Holy Motors, è che si tratti di un film in cui non è dato penetrare, un film dalle porte serrate. La cui bellezza, sfacciata e spesso spropositata, risieda semplicemente nell’accostamento bizzarro e straniante dei suoi elementi. Che non ci sia nulla da svelare, dietro le mille maschere e le mille storie interpretate da Oscar in una Parigi suggestiva, fuori dal tempo, terribile e spettrale. Peggio ancora, d’altra parte: che questo compiuto svelamento sia davvero necessario. Come ogni operazione puramente surrealista, lo straordinario film di Leos Carax – che richiama all’appello il favoloso Denis Lavant, rimettendogli pure per qualche minuto il mostruoso make up di Tokyo! - fa scivolare l’interpretazione oggettiva tra le mani dello spettatore, introducendo raccordi impossibili, paradossi, scherzi e tragedie, con una perfidia che è pari solo alla ricchezza di idee, di spunti e di dettagli, e alla capacità di trasformarli in grandi momenti di cinema. Come l’apparizione musical di Kylie Minogue, che canta una canzone scritta dallo stesso Carax, o come l’incredibile, ipnotica sequenza di sesso tra Lavant e la contorsionista Zlata in uno studio di motion capture – forse la più palese tra le dichiarazione d’intenti del film – o come quella, commovente, con Elise Lhomeau al capezzale di un Oscar novantenne: impossibile, quanto inutile, citarle tutte. Ma che ci si voglia fermare all’impatto francamente innegabile e a tratti allucinatorio del film in sé, dalle sue immagini all’epocale performance di Lavant (vale la pena di citarlo il più possibile) o che si preferisca usarlo come base di una metafora autoriflessiva, è impossibile rimanere indifferenti di fronte a questo viaggio entusiasmante e disturbante, eccitante e sinceramente folle, mostruosamente ambizioso eppure stranamente leggiadro, ma sicuramente irresistibile, all’interno del film e dei suoi generi, che sembra tramutarsi gradualmente in una sorta di rimandato, malinconico e sempre più beffardo rito funebre. Come fossero le esequie definitive del cinema, l’ultimo canto di un’arte che muore.

Seeking a friend for the end of the world, Lorene Scafaria 2012

Seeking a friend for the end of the world
di Lorene Scafaria, 2012

L’esordio alla regia di Lorene Scafaria, già sceneggiatrice del sottovalutato Nick & Norah, racconta l’incontro tra un grigio assicuratore e una vivace ragazza inglese, nelle settimane precedenti alla fine dell’umanità causata dal solito meteorite: il film si apre infatti con la notizia del fallimento della missione per salvare la Terra. Quello che riesce meglio alla regista è la risposta a una domanda che il cinema catastrofico, concentrandosi più che altro su storie “eccezionali”, che siano di eroismo o di codardia, ha lasciato inespressa: come si comporteranno le persone normali alla vigilia della fine del mondo? Vanno in spiaggia o spaccano tutto? Si ricongiungono ai propri cari o continuano a fare il proprio lavoro come se nulla fosse? L’approccio è ironico, originale, a tratti cinico ma tutto sommato comprensivo, e la sequenza della festa, con i genitori che fanno sbronzare i bambini e finiscono a farsi di eroina, è la migliore del film, più intelligente e originale delle solite scene di panico nelle strade – che comunque non si fanno attendere nemmeno qui. La storia d’amore, ben più rilevante, è però anche assai meno efficace; il problema ha a che fare con l’equilibrio tra gli stili dei due attori, che rispecchiano volutamente i personaggi: Keira Knightley è tutta smorfie, Steve Carell è compassato, ma mentre quest’ultimo risulta in linea con il tono del film, che è grave e deprimente nonostante l’ironia tenda a placarlo, la prima finisce per sembrare forzata, fuori luogo, non certo per l’accento. E non aiuta l’insistita scarsa plausibilità del rapporto tra i due, sebbene sia il cuore stesso del film. Avvicinandosi alla fine si ha quantomeno la sensazione che la Scafaria avesse un piano ben preciso, portato a compimento con una romantica conclusione, perfettamente coerente con l’assunto di base: forse a quel punto è troppo tardi, ma è già qualcosa. Verso il finale, l’apparizione di Un Certo Attore dopo il solito namedropping di facce note (divertente ma fine a se stesso) aiuta a dare un senso a un personaggio, quello di Carell, un po’ avvilente, e a un film scombinato e indeciso, che fino ad allora era stato capace al massimo di suggerire il suo progetto, più che di metterlo in atto.

(Il film dovrebbe essere nel listino di M2 con il titolo “Cercasi amore per la fine del mondo” e potrebbe uscire in sala nel 2013, ma per il momento non c’è nulla di certo. Intanto, è già disponibile il dvd inglese.)

Rock of Ages, Adam Shankman 2012

Rock of Ages
di Adam Shankman, 2012

Quando si affronta un film che è tratto da un musical teatrale che, a sua volta, è ispirato a un preesistente gruppo di canzoni, si può tenere senza dubbio conto di queste ultime, oppure del modo in cui il musical in sé, già in precedenza, aveva dato loro forma, ma è necessario, alla fine, tornare al film. Nel caso specifico di Rock of Ages, la scelta delle canzoni e il modo in cui il musical le tiene insieme, facendole dialogare con la storia, è indubbiamente divertente; ma la verità, mi ripeto, è che queste sono considerazioni che non prendono in esame il film. Che è uno dei più disastrosi, sgraziati, inutili e noiosi musical a cui io, che i musical di norma li gradisco eccome, abbia mai assistito. Qualcuno ha parlato di gleeficazione del rock degli Anni 80, con la differenza che Glee, nel bene e nel male, è sempre stato conscio della propria posizione in un processo di plastificazione, e non ha mai preteso di essere un inno alla libertà del rock contro il brutto brutto pop; in tal senso, è buffo assistere all’anatema contro il lip-sync in un film eseguito in lip-sync: forse siamo arrivati al grado zero, non a caso la scelta di Les Misérables di Tom Hooper va in direzione opposta. Ma non è nemmeno necessario tirare in ballo discorsi musicali per notare l’incidente stradale davanti ai nostri occhi. Reduce dall’ottima prova di Hairspray, Shankman forse si è convinto di poter girare Rock of Ages senza fare alcuno sforzo in più (per esempio, dirigere) e ha sbagliato tutto o quasi. Fin dal casting: i protagonisti dell’esilissima storia d’amore in primo piano, Julianne Hough e Diego Boneta, sono pressoché impresentabili, Alec Baldwin e Russell Brand sembrano passati lì per caso (il loro numero in coppia, per quanto divertente, non basta a riscattare la pigrizia della loro performance), Catherine Zeta-Jones fa quel che può ma è incatenata alla prevedibilità del cliché (come tutto il film: ma in altri personaggi dà meno noia) mentre Paul Giamatti si limita a una variante dell’ometto sgradevole e viscido, l’ennesima – e forse la peggiore – della sua onesta carriera. L’unico elemento eccezionale del film è il devastato, decadente Stacee Jaxx di Tom Cruise; più nel dettaglio, le sequenze che Cruise divide con una favolosa, pazzesca Malin Åkerman regalano gli unici brividi in un film plasticato, anorgasmico, atrofizzato: peccato che Shankman, tirando per le lunghe tutte le loro scene, riesca a mandare all’aria persino questa inaspettata esplosione di erotismo e carisma. Che terribile spreco.