Margaret
di Kenneth Longerman, 2011
Quella di Margaret è una delle storie più curiose del cinema degli ultimi anni. Kenneth Lonergan, drammaturgo oggi cinquantenne, divenuto un protetto di Scorsese grazie alla sua sceneggiatura di Gangs of New York ma con una sola regia alle spalle (l’acclamato Conta su di me, del 2000) svolge normalmente le riprese del suo secondo film nel corso del 2005: si tratta di un progetto ambizioso, ma nulla può annunciare ciò che sarebbe accaduto negli anni successivi. Quando si passa in post-produzione infatti Lonergan, che vorrebbe un film lungo tre ore contro le resistenze della Fox Searchlight, si attacca al montaggio del film e non ne esce più. Passano i mesi, addirittura gli anni, intanto scompaiono i suoi due più rinomati produttori (Sydney Pollack e Anthony Minghella) e il principale finanziatore Gary Gilbert, denunciato dagli studi per non aver recuperato i costi, denuncia a sua volta il regista, che continua il lavoro sul film grazie a un prestito dell’amico Matthew Broderick, nel film nel ruolo di un professore. Nel 2009 sembra tutto perduto. Nel 2010 arriva l’annuncio: il film è finito e uscirà, portandosi dietro una reputazione da film maledetto – peggio ancora, da film fallimentare. Ci vogliono comunque circa sei anni, una vera eternità, non senza l’aiuto dello stesso Scorsese accompagnato dalla fedele montatrice Thelma Schoonmaker, perché Margaret possa arrivare a vedere la luce dello schermo e il buio delle (poche) sale in una versione lunga due ore e mezza. A quel punto è diventato un oggetto strano che sembra arrivato a noi rinchiuso in una capsula temporale, da un passato lontano: Anna Paquin non sarebbe diventata Sookie Stackhouse per altri tre anni.
Chiedersi di cosa sia fatto un film è quasi come chiedersi di cosa sia fatta la vita. Cosa lo definisce, quando lo diventa. Cosa succede ai brandelli di una pellicola a cui viene negata la sutura. “Chissà cosa stava cercando Lonergan in tutto quel girato” si chiede Wesley Morris sul Boston Globe, e la domanda non potrebbe essere più azzeccata per inquadrare una storia di amore e di ossessione, quella di un regista per la propria opera, che ha messo in luce, radicalizzandola, la distanza tra sistema produttivo e ambizioni autoriali nella Hollywood di oggi – o meglio, dello scorso decennio. La domanda più interessante è, in verità: cosa è rinato dalle ceneri di questo film presunto morto?
Ambientato in una New York in cui è ancora più vivo il ricordo dell’11 settembre, Margaret è un dramma innescato da un episodio casuale: una donna viene investita da un autobus il cui guidatore è stato distratto per qualche istante dalla protagonista del film, la liceale Lisa Cohen, e muore tra le braccia di quest’ultima. Ma ci vuol poco per capire che il film non prenderà la strada segnata. Certo, la trama del film, in senso stretto, racconta il tentativo piuttosto tardivo di Lisa di “fare giustizia”, espiando peraltro la sua colpa, quella di non aver denunciato subito l’autista: era passato con il rosso. Ma risulta quasi un pretesto: Lonergan si sofferma a lungo su dettagli apparentemente periferici della vita di Lisa (le lunghe telefonate con il padre che vive in California, alcune lezioni scolastiche assai più rivelatorie di quanto possano sembrare), sposta spesso la sua attenzione sul rapporto sempre più conflittuale di Lisa con la madre (un’attrice di teatro), su quello con Emily, migliore amica della defunta interpretata dalla magnifica Jeannie Berlin, e con gli uomini della sua vita – un professore (Matt Damon) con cui flirta apertamente, un ragazzo che le muore dietro, un altro a cui regala la propria verginità. Il tutto per restituire il ritratto complesso e, a suo modo, estremo (anche grazie all’interpretazione formidabile e violenta di Anna Paquin, forse la migliore della sua carriera) di una ragazza arrogante e sicura di sé murata tra certezze della sua vita che scopre la tragicità della condizione umana, e in particolare l’assoluta marginalità delle proprie passioni e del proprio ruolo del mondo; un’impotenza che si scontra brutalmente con il fervore adolescenziale della stessa Lisa, con la sua insistita e frustrante ricerca di un’impossibile catarsi “narrativa” che riporti nei ranghi il racconto. Come le urla in faccia Emily, in una delle scene più intense e drammatiche del film: “This isn’t an opera! And we are not all supporting characters to the drama of your amazing life”. Non a caso il film si risolve, in modo necessariamente straziante, proprio a teatro, di fronte ai Racconti di Hoffman.
Del film si potrebbe scrivere per giorni, perché la sua ricchezza e la sua densità si prestano a infinite sfumature interpretative: alcuni dei migliori critici e blogger americani hanno fatto a spallate per prenderne le parti. Ma va detto che Margaret si merita queste e ben altre attenzioni: al di là delle sue ambizioni spropositate, e delle disavventure produttive che a volte fanno sentire il suo peso sul risultato finale, il film di Lonergan nel suo progettuale ma davvero magnetico disordine alterna momenti di palese indecisione a lampi di improvvisa lucidità, fiammate di verità e grandezza. Che sia un capolavoro mancato o meno, Margaret è un gioiello, uno dei film americani più stimolanti, eccentrici e temerari usciti quest’anno.