Holy Motors
di Leos Carax, 2012
Un mito da sfatare, quando si parla di Holy Motors, è che si tratti di un film in cui non è dato penetrare, un film dalle porte serrate. La cui bellezza, sfacciata e spesso spropositata, risieda semplicemente nell’accostamento bizzarro e straniante dei suoi elementi. Che non ci sia nulla da svelare, dietro le mille maschere e le mille storie interpretate da Oscar in una Parigi suggestiva, fuori dal tempo, terribile e spettrale. Peggio ancora, d’altra parte: che questo compiuto svelamento sia davvero necessario. Come ogni operazione puramente surrealista, lo straordinario film di Leos Carax – che richiama all’appello il favoloso Denis Lavant, rimettendogli pure per qualche minuto il mostruoso make up di Tokyo! - fa scivolare l’interpretazione oggettiva tra le mani dello spettatore, introducendo raccordi impossibili, paradossi, scherzi e tragedie, con una perfidia che è pari solo alla ricchezza di idee, di spunti e di dettagli, e alla capacità di trasformarli in grandi momenti di cinema. Come l’apparizione musical di Kylie Minogue, che canta una canzone scritta dallo stesso Carax, o come l’incredibile, ipnotica sequenza di sesso tra Lavant e la contorsionista Zlata in uno studio di motion capture – forse la più palese tra le dichiarazione d’intenti del film – o come quella, commovente, con Elise Lhomeau al capezzale di un Oscar novantenne: impossibile, quanto inutile, citarle tutte. Ma che ci si voglia fermare all’impatto francamente innegabile e a tratti allucinatorio del film in sé, dalle sue immagini all’epocale performance di Lavant (vale la pena di citarlo il più possibile) o che si preferisca usarlo come base di una metafora autoriflessiva, è impossibile rimanere indifferenti di fronte a questo viaggio entusiasmante e disturbante, eccitante e sinceramente folle, mostruosamente ambizioso eppure stranamente leggiadro, ma sicuramente irresistibile, all’interno del film e dei suoi generi, che sembra tramutarsi gradualmente in una sorta di rimandato, malinconico e sempre più beffardo rito funebre. Come fossero le esequie definitive del cinema, l’ultimo canto di un’arte che muore.
che muore e rinasce, muore e rinasce
io comunque ho avuto la sensazione che il film sia anche un atto d’amore verso la compagna morta, Yekaterina Golubeva di Pola X
un film profondamente vivo, spiazzante, pieno di roba e anche di contenuti, oltre a essere esteticamente qualcosa di fenomenale.
una pellicola davvero holy!
se questo é il miglior film del 2012, la posizione successiva da assegnare dev’essere quantomeno la sesta, altrimenti resterebbe troppo poco distacco con la concorrenza.
capolavoro