Amour
di Michael Haneke, 2012
L’ultimo film del grande regista austriaco poteva sembrare, a una prima occhiata distratta, una deviazione dalla cifra abituale del suo cinema, dai suoi temi e dal suo stile, ma in verità si tratta di un altro spietato ritratto, a suo modo persino più estremo del solito, di una sicurezza borghese che si frantuma, meglio ancora che si decompone lentamente di fronte ai nostri occhi, ambientato ancora una volta in una casa – che, non a caso, è stata da poco oggetto di una tentata effrazione – che diventa una trappola e una prigione, in cui tutto ciò che vi è contenuto – la musica, la cultura, la memoria – finisce per diventare l’ultima beffa di fronte alla fragilità dell’esistenza e all’ineluttabilità della morte. Dopo aver aperto la storia in modo sconcertante e insieme necessario (ai suoi occhi una progressione narrativa verso questa conclusione sarebbe, probabilmente, un tradimento e un ricatto nei confronti dello spettatore), Haneke racconta la storia di Georges e di Anne in un lungo flashback, spezzando il tempo a colpi di accetta e poi diluendolo con tenerezza e brutalità, non concedendo alcuna tregua a loro né a noi (e nemmeno ai sogni) e facendo viaggiare il suo sguardo glaciale in parallelo al nostro: il regista sembra quasi mettersi in disparte, a osservare con il cinismo di un etnologo nascosto dietro una parete trasparente. Girato con la solita precisione chirurgica attraverso un uso magistrale degli spazi interni, Amour è un film apparentemente semplice ed essenziale ma scardina gli equilibri delle nostre certezze e delle nostre coscienze con una franchezza quasi insostenibile, lasciando infine un dubbio aperto e bruciante sui confini dei sentimenti, sulla natura stessa di un gesto definitivo, sull’egoismo, sulla dolcezza, e sulla crudeltà dell’amore.
scusa, non c’è (sallusti docet) la faccio…
immagino volessi dire effrazione, le infrazioni sono quelle al codice della strada
sì, ecco, grazie, l’età si fa sentire anche da queste parti eh.