gennaio 2013

You are browsing the site archives by month.

Silver Linings Playbook, David O. Russell 2012

Il lato positivo (Silver Linings Playbook)
di David O. Russell, 2012

“The only way to beat my crazy was by doing something even crazier.”

È la seconda volta di fila che David O. Russell mi fa questo scherzo, di trasformare un post sul suo film, almeno nelle intenzioni, in un piedistallo per la grande interpretazione di una bravissima attrice: due anni prima furono The Fighter e la formidabile, indimenticabile Charlene di Amy Adams, oggi è il turno della Tiffany di Jennifer Lawrence in Silver Linings Playbook. Ancora una volta, un’attrice la cui bravura indiscussa ormai da tempo (The Burning Plain, Winter’s bone, Hunger Games) raggiunge grazie alla direzione di Russell, a soli 22 anni, un livello che gran parte delle sue colleghe più esperte e lanciate si sognano. E ancora una volta, paradossalmente, si tratta di una performance così travolgente da rischiare l’offuscamento di atri meriti del film, che non mancano: la palese ricerca di riscatto da parte di due attori spesso maltrattati come Bradley Cooper e Robert De Niro, riuscita in entrambi i casi – il primo, poi, è in gran forma, anche quando cerca di strafare (e capita) Russell lo tiene a bada; la regia, che è ancora più irrequieta e passionale del solito, con un uso “indisciplinato” dei movimenti di macchina che sembra richiamare l’incontinenza di Cooper; la capacità di costruire singole sequenze davvero memorabili (quasi tutte costruite su dialoghi serrati tra Tiffany e Pat, per esempio il loro primo disastroso appuntamento nel diner); e poi, una sceneggiatura piena di idee e di cuore che affronta lo scheletro della commedia sentimentale, i suoi limiti e anche la sua ricchezza, con intelligenza e sensibilità, pur sventolando una bandiera di indipendenza che forse non gli si addice del tutto. Anche la percezione forse un po’ naif dei problemi mentali dei due protagonisti, segnata pure dall’esperienza di Russell (il regista ha un figlio bipolare e ha trasmesso nel film una sorta di impronta autobiografica nonostante il suo script sia tratto da un romanzo di Matthew Quick), potrebbe trasformarsi in un limite ma permette al film di dirottare il rischio di patetismo verso una visione più autentica e quotidiana (anche attraverso l’uso dell’overlapping dialogue) ma applicando all’illusione di realismo i cliché del caso; l’effetto è quello di una commedia romantica con tutti i crismi, ma ambientata nel mondo reale, che trasmetta un’idea tanto candida e idilliaca quanto irresistibile: amor vincit omnia, pure nella vita vera. In definitiva, è difficile non rimanere coinvolti dall’ottimismo euforico del film, soprattutto nel finale, e del suo inadeguato e logorroico protagonista, a patto di essere inguaribili sognatori – come quelli che, di fronte a un film così ben riuscito, sono disposti a chiudere un occhio o due. In ogni caso, a conti fatti, da quella prima cena imbarazzante a quel fenomenale balletto, ci sono molte cose di Silver Linings Playbook che ci porteremo per molto tempo nel cuore. E anche se riguardano quasi tutte Jennifer Lawrence, di quante commedie odierne possiamo dire lo stesso?

Ah, dimenticavo: Excelsior.

Cogan (Killing them softly), Andrew Dominik 2012

Cogan (Killing them softly)
di Andrew Dominik, 2012

La prendo alla larga con un aneddoto. Negli Stati Uniti esiste una società che svolge da molti anni una ricerca di mercato sul gradimento dei film da parte del pubblico. Si chiama CinemaScore. Con l’aiuto di un sistema di rilevazione statistico che analizza le reazioni “a caldo” degli spettatori, il CinemaScore dà un “voto” ai film in uscita che va dalla A (anzi da A+) alla F. Dove però la C non è una sufficienza. ma un fallimento, una stroncatura da parte del pubblico. In tutti questi anni, sono infatti solo 8 i film che hanno preso una F: sei di questi film gravitano intorno al genere horror, a essi si aggiungono Solaris di Soderbergh e, appunto, Killing Them Softly di Andrew Dominik.

Il dato in sé non significa nulla, si intenda (un film irrilevante come Courageous guadagnò un raro A+), ma può restituire l’idea del grado di insoddisfazione che può dare un film come Killing Them Softly, che si presenta come un cupo gangster movie d’autore (peraltro con una star carismatica come Brad Pitt) ma che, alla fine dei conti, è un noir spocchioso, irritante e mortalmente noioso, terribilmente compiaciuto sia della sua insostenibile staticità, spacciata per scelta stilistica, sia della sua metafora politica ingenuotta (la sottigliezza di usare i discorsi di Bush e Obama sulla crisi economica come colonna sonora: no comment) sia del suo cinismo, che prende la forma della desolazione scenografica e della sgradevolezza un tanto al chilo – come se bastasse far vedere quattro strade di periferia piene di fango e due tizi che non si lavano da settimane per realizzare una parabola dolente sulla dissoluzione dell’America. La violenza gratuita non aiuta a risvegliare dal torpore, i dialoghi sopra le righe, decadenti e raggelanti, fungono più che altro da riempitivi, i nomi più altisonanti del cast sembrano capitati sul set tra un impegno e l’altro e recitano pigramente come se stessero inscenando uno sterile omaggio a sé stessi: un’amara delusione da un regista che, nei suoi film precedenti Chopper e L’assassinio di Jesse James, aveva fatto grandi cose. Qui ritroviamo, a tratti, il talento per la composizione visiva, per il resto Dominik si dà solo un sacco di arie senza andare da nessuna parte, e senza un briciolo di ironia. Un film brutto, seccante, pressoché irrecuperabile.

Flight, Robert Zemeckis 2012

Flight
di Robert Zemeckis, 2012

Non è una coincidenza che gran parte dei discorsi su Flight, il ritorno al cinema live action del grande Robert Zemeckis, si concentri soprattutto sulla sequenza che, all’inizio del film, mostra Denzel Washington alle prese con un atterraggio letteralmente impossibile. Per diverse ragioni; perché risponde alle aspettative sul ritorno di un regista che, tra gli anni 80 e 90, aveva spinto in avanti il progresso degli effetti speciali in modo sempre imprevedibile e intelligente; perché è una sequenza obiettivamente spettacolare, uno dei migliori e più spaventosi incidenti aerei mai visti sullo schermo. Ma anche perché lo sviluppo successivo del film non risponde a queste premesse: si capisce fin dalle prime battute, dalla scelta di aprire il film con una sequenza così dichiaratamente “adulta”, che Flight non ha intenzione di rispondervi. Così come l’intelligente montaggio parallelo iniziale, tra l’impresa di Denzel Washington e la “caduta” di Kelly Reilly (un’ottima scelta di casting), fa intuire subito che Flight sarà qualcosa di molto diverso da ciò che lasciava presagire – e non rivelo di più, seguendo una sorta di implicita richiesta di Zemeckis e soci. Il problema è che, mi si passi la metafora, dopo l’atterraggio il film di Zemeckis mette il pilota automatico, e una volta rivelato il tema portante del film lo script di John Gatins (guarda caso sceneggiatore di un altro film estremamente “formulaico” come Real Steel) segue per filo e per segno i cliché del caso, esagerando nella durata (mezz’ora di meno non avrebbe guastato) e scoprendo tutte le carte senza troppe raffinatezze. La regia di Zemeckis, concentrato come suo solito a mettere alla prova il suo personaggio fino ai limiti del sadismo, è misurata e pressoché invisibile – almeno in apparenza – mentre le zampate sono tutte affidate a Washington, che regala l’ennesima performance memorabile, una delle più umane e “sgradevoli” (in senso buono) della sua carriera; ma Flight mostra spesso il fiato corto, si accomoda su scene e dialoghi didascalici (come il litigio urlato tra i due protagonisti nell’hangar), mentre la dimensione religiosa non è che un accenno pigro e non sviluppato. Verso la fine un paio di sequenze eccellenti (quella del minibar, seguita dall’arrivo provvidenziale di John Goodman) sembrano riportare il film su un binario piacevolmente “immorale”, quantomeno in grado di porre lo spettatore finalmente di fronte ad autentiche domande morali sulla riscattabilità del personaggio; ma la conclusione è quella narrativamente più rassicurante e scolastica, e dà il colpo di grazia al film. Che è tutt’altro che un disastro, si intenda: la bravura e la scioltezza di Zemeckis ci fanno digerire le pesantezze del film come fossero acqua di fonte, e Denzel da solo sarebbe una ragione necessaria e sufficiente a vedere Flight; forse io, personalmente, dopo una dozzina d’anni di attesa mi aspettavo un’opera meno convenzionale.

Alps (Alpeis), Yorgos Lanthimos 2011

Alps (Alpeis)
di Yorgos Lanthimos 2011

Il precedente film di Yorgos Lanthimos, presentato a Cannes ormai quattro anni fa, ha creato aspettative mostruose per questa sua nuova regia: Dogtooth era, in fin dei conti, uno dei più scioccanti e straordinari film europei degli ultimi anni, un’opera estremamente ambiziosa sulla coercizione sociale e sulla manipolazione del linguaggio che viveva all’interno di una trama surreale e che, grazie all’allucinato talento visivo di Lanthimos, era riuscita anche a diventare un vero cult movie presso i cinefili di mezzo mondo. Alps, presentato a Venezia nel 2011, prende il via da un’altra sistematica provocazione: i protagonisti si offrono infatti per un periodo di tempo, previo pagamento, di prendere il posto dei “cari estinti” all’interno di famiglie distrutte dal lutto, cercando di saldare le ferite della perdita attraverso la recita letterale di una quotidianità perduta, diventando, di fatto, fantasmi part time. Un presupposto introdotto gradualmente, quasi come un mistero da risolvere, e che muta, seguendo uno dei personaggi (interpretato dalla dolente Aggeliki Papoulia), da pungente riflessione sul rifiuto della morte a studio sulla fragilità dell’identità e sulla sua frantumazione. Messo in scena da Lanthimos con innegabile talento visivo e un notevole gusto per la composizione, Alps finisce però vittima della sua  presunzione, le scene migliori si alternano ad altre di fastidiosa gratuità, e in mancanza dell’ironia perversa di Dogtooth, qui virata su toni ancora più macabri, anche l’originalità figura come un vuoto esercizio di stile. Conturbante e irritante al tempo stesso, Alps lascia in qualche modo una buona impressione di sé grazie al fascino del tema e al colpo di coda finale (onore ad Ariane Labed) ma tutto sommato è difficile non considerarla un’occasione sprecata.

Del film è già disponibile in dvd un’edizione tedesca, in greco con sottotitoli inglesi. L’edizione britannica sarà disponibile dall’inizio di marzo 2013. Non è al momento prevista un’uscita italiana.

Cloud Atlas, Lana & Andy Wachowski, Tom Tykwer 2012

Cloud Atlas
di Lana & Andy Wachowski e Tom Tykwer, 2012

Se ogni adattamento dalla pagina allo schermo è un lavoro complesso e rischioso, quello di L’atlante delle nuvole di David Mitchell, per forza di cose, era persino una sfida: un romanzo costruito come una matrioska, composto da sei storie “nidificate” ambientate in altrettante epoche e legate tra loro da una mera traccia: ogni capitolo è contenuto nel successivo in una differente forma narrativa. In tal senso, quella svolta dai fratelli Wachowski e da Tom Tykwer è davvero una delle trasposizioni più ardite e più entusiasmanti degli ultimi tempi: facendo tesoro dell’esperienza del cinema “corale”, i tre autori hanno reinventato tutto da capo, utilizzando un gruppo ristretto di attori in tutti i segmenti, incastrando con sapienza tra loro i racconti e non lasciando mai al caso alcun singolo raccordo, per spingere in superficie i significati che Mitchell aveva accennato in modo forse più implicito. Cloud Atlas è infatti, va detto, un film che non si trattiene troppo dall’esporre a chiare lettere la profonda spiritualità dei suoi temi, e l’idea di un’umanità legata da un filo sottile di causa ed effetto, morte e rinascita. Ma questa sua entusiasta franchezza, volendola abbracciare, rientra in verità nei suoi più grandi pregi, come quello di voler recuperare a ogni costo l’idea di uno spettacolo popolare e “totale” che sappia superare tutte le barriere del tempo e dello spazio, attraversando tanto le stagioni dell’uomo quanto la molteplicità del cinema (dal dramma in costume al thriller, dalla commedia alla fantascienza) per trasmettere un messaggio di frustrazione e speranza, in cui il ciclo continuo di oppressione del più debole si rispecchia in un perenne processo di liberazione e rivoluzione. Il tutto inserito in un contesto di assoluta unicità produttiva: ma se il budget (circa 100 milioni di dollari), il cast e le ambizioni del film sono piuttosto inusuali per un film tedesco, non sorprende che Cloud Atlas sia una produzione europea girata, in parte, da una coppia di “esuli” del cinema americano, perché è trascinato da un’idea di cinema che Hollywood sembra aver superato, o forse voler ignorare. Ne è uscito un film affascinante e sfrontato, altisonante e squilibrato, intelligente e spettacolare, passionale ed emozionante. Una sfida stravinta.

7 Psicopatici, Martin McDonagh 2012

7 Psicopatici (Seven Psychopaths)
di Martin McDonagh, 2012

Il secondo film del commediografo inglese dopo il sorprendente, bellissimo In Bruges è accomunato con la sua opera prima dall’assoluta distanza tra il film e l’immagine che vuole dare di sé: ancora una volta, McDonagh parte da una premessa ascrivibile al noir, per così dire, “postmoderno”, ironico e consapevole (due lestofanti che rapiscono cani per incassare le ricompense finiscono per rubare il migliore amico di un pericoloso gangster) e la trasforma di punto in bianco in un’altra opera che sembra guardare più a Samuel Beckett che a Tarantino o Guy Ritchie. Impossibile dire di più senza svelare l’imprevedibile (davvero) svolgimento della trama, ma chi ha visto il precedente è conscio del fatto che questo film non abbia nulla a che fare con la sua pubblicistica. Non si tratta però di un inganno promozionale ai danni del pubblico: Seven Psychopaths utilizza la sorpresa e l’autoreferenzialità per riflettere sul cinema dal privilegiato punto di vista di uno scrittore (in crisi personale e professionale) costretto a vivere in prima persona il proprio racconto. Convoluto e ombelicale per sua stessa natura, il film è colmo di performance clamorose (Christopher Walken è uno spettacolo) e non si può negare che il suo autore abbia un talento raro per i dialoghi, intelligenti ed efficaci. Ma con Seven Psychopaths McDonagh spinge troppo sul pedale cerebrale: terribilmente compiaciuto della sua stessa arguzia, finisce per allontanarci dai suoi personaggi, trasformati in pagine da voltare per le quali è difficile provare davvero qualcosa di autentico.

Lincoln, Steven Spielberg 2012

Lincoln
di Steven Spielberg, 2012

L’immagine che apre il film, di grande impatto e assai familiare per Steven Spielberg, è quella dei soldati della Guerra Civile che si affrontano corpo a corpo. Ma il film abbandona presto il campo di battaglia e non ci tornerà fino al tramonto del conflitto. Lincoln non è infatti un film sulla fine delle ostilità, né un biopic di Lincoln, ma un trattato magistrale sulle regole e sulle prospettive della Democrazia. Lo sceneggiatore Tony Kushner, che aveva già scritto Munich con Eric Roth, sembra far tesoro – come altri hanno già notato – della lezione di The West Wing, non solo per la loquacità del Presidente e la sua tendenza all’aneddoto e alla parabola: in effetti, gran parte del film è costruito su un procedimento burocratico, la caccia a un pugno di voti per far passare un emendamento alla Costituzione, prima che il conflitto finisca. La pulsione ancora attualissima che muove il Presidente (e il regista) è l’idea di una politica che si sforzi di guardare al di là del breve termine, verso l’eredità lasciata alle future generazioni. Il documento, abolendo la schiavitù, cambierà le sorti della nazione: Lincoln accoglie come un martire sul suo corpo le conseguenze della sua scelta (invecchiando di anni in pochi mesi, gli fa notare il Generale Grant verso la fine) e Spielberg riesce a raccontare questa guerra parallela, combattuta tra le stanze del potere con la forza della retorica e con i trucchi che la Democrazia concede, con l’intensità di un thriller. La sequenza decisiva in tal senso è perfetta e trascinante, nonostante siano note a tutti le sue sorti: soltanto un regista come Spielberg, con il suo senso innato dello spettacolo, sarebbe capace di rendere così struggente una seduta del Congresso e una conta di voti. Ai margini e tutto intorno, c’è però anche il ritratto di un Presidente celebrato come nessun altro ma spesso ridotto a un mero simbolo; qui Lincoln viene reso più umano da uno script che sottolinea tanto l’integrità morale quanto l’asprezza della sua vita personale, in particolare il rapporto con la moglie, mai ripresasi dalla morte del figlio: il loro violento litigio nel salotto è uno dei momenti più intensi e drammatici del film. Il contrasto turbolento con il figlio maggiore, interpretato da Joseph Gordon-Levitt, è invece uno dei pochi nei, forse l’unico, di un film pressoché impeccabile: è interessante l’idea che la statura di Lincoln renda impossibile la vita di chi gli sta accanto ma il tema viene affrontato in modo sbrigativo e sembra quasi un’appendice – per quanto assolutamente “spielberghiana”. Per il resto il film, appassionato e malinconico, tutt’altro che polveroso o monocorde, è sostenuto certamente dalla performance, davvero spaventosa, di Daniel Day-Lewis, ma non ne viene mai soffocato. Spielberg gli affianca infatti un cast incredibilmente ricco tra cui spiccano Tommy Lee Jones, a cui è affidata la scena più spudorata e più commovente di tutto il film, e soprattutto una strepitosa, memorabile Sally Field. E sono entrambi in grado di tenergli testa.

Beasts of the Southern Wild, Benh Zeitlin 2012

Re delle terre selvagge (Beasts of the southern wild)
di Benh Zeitlin, 2012

Il primo lungometraggio diretto da Benh Zeitlin, giovane regista newyorkese di casa a New Orleans, sta vivendo un anno davvero eccezionale. Tutto è cominciato al Sundance Film Festival, dove ha ottenuto il Gran Premio della Giuria; il suo viaggio si concluderà ai prossimi premi Oscar: si è aggiudicato quattro nomination, tra cui quella come miglior film. Niente male, per un film costato meno di due milioni di dollari. E non stupisce che Beasts abbia conquistato i favori della critica diventando uno dei titoli più amati dell’anno trascorso, spalla a spalla con nomi grossi come Spielberg, Anderson e Bigelow: Zeitlin ha preso uno spunto storico terribilmente drammatico e ancora bruciante come le conseguenze dell’uragano Katrina, ne ha trasferito le suggestioni e l’immaginario in un mondo ambiguo a sé stante a cui vengono negati attribuiti caratteri specifici, e ha realizzato un film autenticamente curioso per come si muove sul confine tra realismo e fantasy, con una produzione inusuale (almeno, al di fuori del circuito indipendente) che predilige l’utilizzo di attori non professionisti e uno stile che si rifà al documentario. Ciò nonostante, Beasts of the Southern Wild è infinitamente meno convincente della somma dei suoi fattori: molto acerbo nella scrittura e, soprattutto, nella messa in scena che nasconde le sue falle dietro le velleità malickiane del montaggio e la scontata mobilità della macchina da presa, il film di Zeitlin sembra voler utilizzare il linguaggio del fantastico per sublimare l’orrore della realtà ma alla fine, trascinato dalla tracimante colonna sonora, va sempre alla ricerca dell’impatto emotivo e finisce per vendere la sua riflessione sugli uomini, la terra e l’America per un piatto di buoni sentimenti. Forse è ingiusto sostenere che questo film sia la puntuale occasione per un lavaggio collettivo di coscienza, ma ne ha molte caratteristiche: di fatto, è un film che punta quasi solo al cuore, e se il miracolo non funziona si rischia di trovarlo pressoché inconsistente, o addirittura ruffiano. Per fortuna Beasts ha i suoi bei momenti (per esempio l’incontro con gli Aurochs in cui molti hanno visto, non a torto, echi di Miyazaki) e, per fortuna, la minuscola e bravissima Quvenzhané Wallis merita tutto l’affetto dedicatole in questi lunghi mesi dai media. Lei c’è, eccome; il cinema, invece, si lascia desiderare.

Django Unchained, Quentin Tarantino 2012

Django Unchained
di Quentin Tarantino, 2012

Come Bastardi senza gloria, anche il nuovo film di Quentin Tarantino nasce da una pulsione rivoluzionaria, quella di piegare la Storia, con la S maiuscola, al volere del racconto del cinema. Stavolta Tarantino gioca in casa, il premio si alza: l’orrore contro cui si scaglia il regista insieme ai suoi personaggi è una radice della cultura americana, repressa e accantonata dal cinema stesso. In tal senso, se Django Unchained è un film forse meno perfetto del precedente (una gara difficile persino per lo stesso Quentin) è anche un’opera più coraggiosa, a modo suo più dolorosa, pur nella liberatoria catarsi della sua fantasia distruttiva, consapevole di scagliarsi contro un muro difficile da abbattere. E di doverlo fare senza lesinare sulle armi. Trattandosi di Tarantino, il piacere del film si muove su livelli differenti: quello di una “tradizionale” storia di vendetta raccontata con un piglio che unisce spirito civile ed esasperato romanticismo, una riflessione spavalda e provocatoria sul canto del cigno di uno schiavismo decadente e vicino al dirupo (il film è ambientato a un passo dalla guerra civile) ma anche una rivincita del cinema stesso, e del film sul genere che lo ospita. Ma nonostante i riferimenti diretti, il simbolico nome del protagonista, la splendida colonna sonora piena di classici più o meno noti di Bacalov, Ortolani, Micalizzi e, ovviamente, Morricone (che ha scritto una canzone ad hoc insieme a Elisa; Tarantino la usa, come suo solito, in modo intelligente, inaspettato, anticlimatico), Django Unchained è molto più che un mero omaggio allo spaghetti western come in molti l’hanno dipinto, soprattutto a priori. Il genere, notoriamente influente sulla sua filmografia come pochi altri, è usato come piattaforma di partenza per un film complesso ed eccitante, lunghissimo ma privo di momenti di stanca, che mescola blaxploitation e mitologia nordica, affianca ironia e tragedia, violenza sanguinaria e comicità improvvisa (alcuni momenti del film, tra cui una delle più riuscite – quella del KKK – sembrano quasi un omaggio a Blazing Saddles di Mel Brooks) con una scioltezza che non ha assolutamente pari al mondo: sono passati vent’anni da Le Iene ma Tarantino è sempre un passo avanti rispetto ai suoi epigoni. Meglio ancora, un passo di lato: Django Unchained è l’ennesima conferma dell’inafferrabile vitalità di un genio del cinema, ma contribuisce ancora di più a restituire la sensazione di un regista che è stato perlopiù confuso per qualcos’altro, così come i suoi film sono stati spesso scambiati per modesti giochi di società, da scansare quando arrivano gli adulti. Sciocchezze: con una sceneggiatura strabiliante, una messa in scena formidabile e un pugno di attori tutti in impressionante stato di grazia (il micidiale Stephen di Samuel L. Jackson tra una ventina d’anni sarà riverito nei manuali, alla faccia dell’Academy), Quentin Tarantino ha caricato fino in cima la sua botte di dinamite, non lasciando un frammento che non fosse di fuoco e fiamme; e l’epica esilarante e terribile del suo Django è l’esperienza cinematografica definitiva di questa stagione, un altro maledetto capolavoro, un cinema impossibile che contiene tutto il cinema possibile.

Nei cinema dal 17 gennaio 2013

Castaway on the moon, Lee Hae-Jun 2009

Castaway on the moon (Kimssi pyoryugi)
di Lee Hae-Jun, 2009 

Il trionfatore indiscusso del Far East Film Festival di Udine, nell’edizione di tre anni fa, è effettivamente una commedia sentimentale sui generis davvero sorprendente. Lee Hae-Jun, anche sceneggiatore, porta alle estreme conseguenze il discorso sull’alienazione urbana raccontando la storia di due personaggi sull’orlo del precipizio: lui è un aspirante suicida che finisce naufrago su un isola disabitata nel bel mezzo di Seoul (esiste davvero, si chiama Bamseom); lei è una ragazza che, a causa di una bruciatura sul viso, è rinchiusa da anni nella sua stanza dove ha maturato una dipendenza dal social network Cyworld, sul quale ha creato un’identità fittizia. Ovviamente i due sono destinati a incontrarsi, ma sarà una strada lunga che li metterà alla prova fino alle estreme conseguenze, in un film che con talento e leggerezza mescola una comicità quasi demenziale, un’intensità da melodramma e un tenerissimo romanticismo: un piccolo gioiello.

***

Poco tempo fa, per vedere un film come questo, avremmo dovuto fare i salti mortali. Ora, grazie alla moltiplicazione dell’offerta digitale e, soprattutto, all’intervento di un distributore illuminato come la Tucker Film e di un canale pronto a sperimentare come Rai4, Castaway on the moon è andato in onda in Italia in tv, in prima serata e in chiaro. Ecco i prossimi titoli del ciclo, ogni martedì sera, tutti imperdibili:

15 gennaio: A bittersweet life di Kim Ji-Woon
22 gennaio: Exiled di Johnnie To
29 gennaio: Blind di Ahn Sang-hoon
5 febbraio: The man from nowhere di Lee Jeong-beom
12 febbraio: Overheard di Alan Mak e Felix Chong
19 febbraio: Overheard 2 di Alan Mak e Felix Chong
26 febbraio: Reign of assassins di di Su Chao-Bin e John Woo

John Dies at the End, Don Coscarelli 2012

John Dies at the End
di Don Coscarelli, 2012

Ci sono voluti dieci anni, se si esclude uno dei più convincenti episodi di Masters of Horror, perché Don Coscarelli tornasse alla regia dopo uno dei “cult movie” per eccellenza dello scorso decennio, l’incredibile Bubba Ho-Tep con Bruce Campbell nel ruolo di Elvis. Ma il suo nuovo film, tratto da un libro di David Wong (nato a sua volta sul web) prometteva di essere ancora più folle del precedente: fin dal titolo, John Dies at the End si presenta come un gioco con lo spettatore, chiamato a sfidare ogni possibile aspettativa sulle convenzioni narrative. Che vengono infatti letteralmente frantumate da una narrazione sfrenata, tra paradossi temporali e viaggi interdimensionali, con un gusto spiccato per l’invenzione di mostri – in particolare quello composto da tagli di carne e, ovviamente, il Korrok. Coscarelli sembra divertirsi un mondo a caricare il film di situazioni morbose e personaggi inquietanti (o semplicemente assurdi) fino a farlo strabordare, ma questo suo atteso ritorno, anche questa volta, è tutt’altro che fuori controllo. Anzi, John Dies at the End è realizzato con grande cura, recitato con senso dell’umorismo e talento (non solo da Paul Giamatti, anche Chase Williamson e Rob Mayes se la cavano bene) e possiede una sua innegabile coerenza interna; diciamo così, sembra una sorta di origin story, o un pilot per una serie che (purtroppo) non vedremo mai. Alla fine il film cede alla tentazione dell’immancabile twist narrativo, che rispetto alle bizzarrie precedenti sembra quasi stonare; ma l’umorismo beffardo dei titoli di coda ripaga qualche perdonabile sbracatura di stile e qualche sciocchezza di troppo. Insomma, è una gran pacchia.

Jack Reacher – La prova decisiva, Christopher McQuarrie 2012

Jack Reacher – La prova decisiva (Jack Reacher)
di Christopher McQuarrie, 2012

Bisognerebbe affrontare una spinosa questione: quanto è ingombrante Tom Cruise in un film di questo tipo? Non tanto per l’ammirevole tenacia con cui cerca di incarnare un personaggio che sembra lontano dalle sue corde (peraltro il film è prodotto dallo stesso Cruise, con il beneplacito ufficiale dell’autore Lee Child) quanto per il parallelo con la filmografia dell’attore, che rischia di confondere lo spettatore. Ma Jack Reacher non è Mission Impossible, questo non è un action movie ma una detective story e Jack Reacher, il personaggio intendo, è piuttosto distante da Ethan Hunt: l’unico aspetto che li accomuna è quello di essere pressoché indistruttibili. McQuarrie che, come sappiamo, è soprattutto uno sceneggiatore, ha adattato La prova decisiva in modo sapiente, tra ironia ed efferatezza, e i dialoghi si sposano all’indole hard boiled del progetto originario. Ma si è dimenticato il lavoro di regia, e la sua assenza si nota in quasi tutto il film, soprattutto a metà percorso, durante un lungo dialogo tra Reacher e Helen, dove il film sembra letteralmente abbandonato a se stesso. E da quell’impasse faticherà molto a rialzarsi, risultando piatto e inerme, senza personalità. Non mancano sequenze efficaci, sparatorie e inseguimenti, forse pensati per risvegliare un pubblico più vasto, ma la strada più originale percorsa dal film si incaglia spesso nell’indecisione tra thriller medio e opera per appassionati, consegnando a Reacher tutto il gusto di un film che, intorno a lui, sa di poco: persino il cattivo Werner Herzog, trovata assai brillante sulla carta, è più divertente da raccontare che da vedere. Ciò nonostante, Reacher è un personaggio dal carisma micidiale, con una morale (e sua esecuzione) abbastanza inusuale per un eroe americano a cui Cruise, diciamolo, rende giustizia meglio del previsto. Imparando dai suoi errori, potrebbe uscirne una saga stimolante, di cui però questo film, per il momento, sembra al massimo una premessa.

Zero Dark Thirty, Kathryn Bigelow 2012

Zero Dark Thirty
di Kathryn Bigelow, 2012

“Who are you?”
“I’m the motherfucker who found this place.”

Non se ne avrà a male Kathryn Bigelow, se le rubo un paragrafo in favore di Alexandre Desplat. Il compositore francese è infatti, a mio avviso, la più sbalorditiva costante del cinema del 2012, non tanto per una casualità, quella di essere l’autore della colonna sonora di alcune delle migliori pellicole uscite nell’anno appena trascorso (Un sapore di ruggine e ossa, Moonrise Kingdom, Argo) ma proprio per l’importanza che le sue musiche fiabesche, incantevoli e stranianti rivestono in questi film; fanno quasi sempre la differenza (soprattutto in Reality di Garrone), ma senza peccare di presunzione. Anche in Zero Dark Thirthy, dove l’annunciata sequenza che accompagna il film verso la sua conclusione è resa ancora più tenebrosa e maestosa dalle note di Desplat.

Per arrivare al punto finale, il film di Kathryn Bigelow ha attraversato, nel corso di due ore e mezza, quasi un decennio nella vita di Maya, una solitaria e decisa agente della CIA che ha fatto della cattura di Bin Laden il suo unico e solo scopo e che, contro tutto e tutti (peraltro, tutti uomini) persegue con insistenza lo sviluppo di un indizio ritenuto fatale. L’idea, alla base della più diffusa sciocca battuta sul film, che il finale sia scontato perché sappiamo che (e sappiamo quando, e come) Bin Laden sarà trovato e ucciso, non tiene infatti conto della posta in gioco: che non è tanto l’eliminazione del bersaglio, quanto l’intera vita della protagonista; in tal senso, il “vero” e necessario finale del film è straziante, e diventa una riflessione sul sacrificio che sfuma tra le lacrime ogni possibile catarsi patriottistica.

Costruito su una narrazione che segue il format, più che dell’operazione bellica, dell’indagine procedurale, Zero Dark Thirty è un film che unisce una tensione incredibile, e che lo rende uno dei thriller più avvincenti della stagione, a un’asciuttezza analitica che sembra rifarsi alla docufiction (ma è solo un trucco) e a una spavalda onestà intellettuale. Molto più decisa ed efficace che in The Hurt Locker (un buon film, forse sopravvalutato), la Bigelow fa sempre il giro più stretto intorno a ogni questione e non si tira indietro di fronte a (quasi) nulla: quello dipinto dal film è un mondo in cui nessuno è più al sicuro, nemmeno dietro la protezione di una torretta di sicurezza, dove si muore per un inganno, per un errore o per una casualità. Le possibili critiche (come quelle che l’hanno accusata, assai semplicisticamente, di supportare l’uso della tortura) non sembrano interessare la regista, che con un’inflessibilità simile a quella di Maya vuole solo fare del cinema, intelligente e di grande impatto. Lo sceneggiatore Mark Boal la segue a ruota e ne approfitta, scrivendo serratissimi dialoghi da spy story e battute memorabili da action movie.

Se la chiave di volta è sempre Maya, e la strabiliante Jessica Chastain che la interpreta in quello che sarà – con tutta probabilità – il ruolo decisivo della sua carriera, la Bigelow sfrutta con intelligenza i membri del cast che, nel corso degli anni, a turno, girano intorno come satelliti (maschili) della sua grande ossessione, dal feroce, bravissimo Jason Clarke ai barbuti Joel Edgerton e Chris Pratt con i quali la Bigelow umanizza le premesse dell’interminabile sequenza di cui si parlava all’inizio: uno dei più eccitanti e spaventosi pezzi di cinema di questi ultimi mesi, un viaggio nel buio tra fucili, paura e morte che toglie il respiro per mezz’ora e poi lascia una voragine nello stomaco e nel cuore.

Nei cinema dal 7 febbraio 2013

Dredd, Pete Travis 2012

Dredd
di Pete Travis, 2012

“Negotiation is over. Sentence is death.”

C’è questo grande palazzo-quartiere, dominato da un villain che vive nei piani più alti. L’eroe entra nell’edificio, il villain invita apertamente gli abitanti a trasformarsi in armi, a ucciderlo prima che possa risalire. Suona familiare? Bastava il trailer a intuirlo, ma la visione del film lo conferma: il meccanismo narrativo, nella sua semplicità, è pressoché ricalcato da The Raid: Redemption, travolgente film indonesiano di Gareth Evans che è divenuto uno dei nuovi punti di riferimento del cinema action mondiale – e, immagino, uno dei più invidiati dai colleghi. Purtroppo il film del regista britannico Pete Travis, girato interamente in Sudafrica, non possiede la medesima forza rivoluzionaria, ma si difende bene: forte di un confronto piuttosto facile da vincere (quello con il Dredd del ’95 con Stallone), la pellicola fotografata da Anthony Dod Mantle (collaboratore fisso di Danny Boyle) possiede una sua personalità e una sua inflessibile coerenza che si manifesta bene nell’idea di non levare mai il casco dalla testa di Karl Urban, che infatti recita tutto il film solo con la bocca e un vocione tra Eastwood e Batman.

Violentissimo e fracassone (gli effetti speciali più sanguinari sono spesso pensati per la visione in 3D), Dredd è stato un autentico flop al box office americano. Ma è un peccato, perché le idee non mancano: il design di una città di centinaia di milioni di abitanti, costretta quindi a svilupparsi in verticale, è inquietante e suggestivo; la droga di turno si chiama “slo-mo” ed è un’ingegnosa giustificazione per ridare un senso diegetico all’abuso dei ralenti; lo script di Alex Garland (quello di Never let me go) mette un po’ da parte il potenziale satirico ma è divertito, pieno di “one-liner” vecchio stile, e ha la dote di non prendersi mai troppo sul serio; infine, quello che Urban toglie con la sua voluta assenza di espressività, backstory o scavo psicologico, il film lo riprende grazie ai due personaggi femminili: la deliziosa Olivia Thirlby nei panni di una fragile recluta con poteri psichici che deve imparare a diventare cazzuta come il mandibolato collega, ma soprattutto Lena Headey nel ruolo di Ma-Ma. Quest’ultima, ex prostituta sfregiata che si è vendicata del suo torturatore strappandoglielo a morsi (esatto) e diventando così temuta e rispettata, è un cattivo feroce e davvero memorabile: come motivo per vedere il film, lei basta e avanza.

Looper, Rian Johnson 2012

Looper
di Rian Johnson, 2012

A ridosso dell’uscita di Inception nelle sale, due anni e mezzo fa, in molti si interrogavano sull’eredità che il film avrebbe lasciato nel panorama del cinema d’intrattenimento americano: il successo di un film dal budget così imponente eppure caratterizzato dalla visione di Nolan avrebbe spinto i produttori (e i distributori) a investire di più sulle sceneggiature originali a discapito dei franchise? Alla fine, Inception incassò 825 milioni di dollari, diventando il quarto incasso dell’anno dopo Toy Story 3,  Alice in Wonderland e Iron Man 2. Ciò nonostante, le cose non sembrano essere cambiate: sia nel 2011 che nell’anno appena concluso, tutti i campioni del box office, belli o brutti che siano, sono sèguiti di franchise già popolari oppure, al limite, primi capitoli di nuove saghe.

Looper è invece tratto da una sceneggiatura originale del regista, il bravissimo Rian Johnson di The Brothers BloomBrick, che qui torna a lavorare con Joseph Gordon-Levitt, mutandolo con un make up bizzarro eppure efficacissimo in un giovane Bruce Willis. Ambientato nel 2044, il film ha come protagonista Joe, uno dei “looper”, giovani disadattati reclutati da un’organizzazione malavitosa allo scopo di eliminare i cadaveri mandati illegalmente indietro nel tempo dal 2074, per non lasciare tracce degli omicidi. A un certo punto della loro carriera però, per contratto, i “looper” devono “chiudere il loop”: uccidere la versione di sé stessi trent’anni più vecchia. Invece di basarsi sulle norme stabilite da decenni di film e letteratura sul viaggio nel tempo, Johnson ha scelto di costruire la complicata vicenda su una concezione nuova, e più elastica, del viaggio temporale, creando nuove premesse e nuove regole. Ci vuole un bel coraggio, e infatti in molti hanno rigettate entrambe: la loro accoglienza varia a seconda della sensibilità personale (io trovo che, una volta accettato l’assioma, il tutto fili liscio come l’olio) ma per fortuna Looper non vuol essere un rigido trattato scientifico, quanto una storia sui confini e sui limiti che gli esseri umani sono disposti a sorpassare per difendere ciò a cui tengono, che sognano o che amano; di fatto, è uno dei film sul viaggio nel tempo più umanisti e caldi mai realizzati. E infatti, una volta messo in gioco il meccanismo narrativo, il film prende una piega imprevedibile, spostando il baricentro sul personaggio di Emily Blunt e del figlio (e non dico di più), una scelta che lo allontana ancora di più dal perimetro della fantascienza e, in generale, dal cinema d’azione degli ultimi anni. Ma nonostante il tocco di Johnson contribuisca in ogni momento a renderlo più personale e originale di quanto possa sembrare – basti guardare l’abilità e la sagacia con cui è scritta e messa in scena la sequenza più rischiosa del film, ovvero l’incontro tra i due Joe nel diner – Looper è anche pieno di sequenze spettacolari e memorabili; come il montaggio struggente della vita di Joe, che lo convincerà a ribellarsi alla propria fine: anch’esso un time travel sui generis, trent’anni risucchiati in pochi minuti.

Ricollegandomi al primo paragrafo, Looper sembra rappresentare proprio il tipo di prodotto che Inception sembrava voler anticipare: un ambizioso film d’azione fantascientifico, indubbiamente “mainstream” eppure “d’autore”, intricato eppure divertentissimo, basato su un’idea e non su un marchio. Se quelle previsioni fossero state corrette, forse il film di Rian Johnson avrebbe giovato di un budget, di un’attenzione e di un successo maggiori. Poco male: il film, costato “solo” 30 milioni, ha incassato comunque cinque volte tanto: ma rimane una mosca bianca all’interno di un mercato impigrito. È probabile che la sua fama crescerà con gli anni: Looper è un film ingegnoso, realizzato in modo eccellente, a tratti emozionante, con un ottimo cast e un senso dello spettacolo che non trascura mai l’intelligenza a favore dell’effetto. E destinato, ci si augura, a fare scuola.

Nei cinema dal 31 gennaio 2013

The Grey, Joe Carnahan 2012

The Grey
di Joe Carnahan, 2012

Era difficile immaginare che il regista del brutto remake cinematografico di The A-Team avrebbe aperto il suo film successivo con un incipit che sembra più che altro rifarsi allo stile di Terrence Malick. Forse per Joe Carnahan, autore anche della sceneggiatura, si tratta della ricerca di un riscatto: era dai tempi (lontani) di Narc che un suo film non veniva preso sul serio dalla critica. Anzi: quatto quatto, The Grey è riuscito a finire anche in un pugno di classifiche di fine anno. Un’attenzione meritata per un film originale e inaspettato, che vive dell’incontro tra il racconto avventuroso da “survival horror” e una decisa spinta verso ambizioni più filosofiche: la storia di un gruppo di sopravvissuti a un incidente aereo tra i ghiacci dell’Alaska, che diventano presto obiettivo di un branco di enormi e famelici lupi, si trasforma così in una storia di sopravvivenza e di annullamento della cultura di fronte alla natura (la lotta tra i personaggi e il branco è raccontata in modo scopertamente speculare) e, soprattutto, in una cupissima riflessione esistenzialista sulla morte. Forse meno riuscito di come è stato dipinto dai più entusiasti per una certa difficoltà nel bilanciare pesantezza ed evasione, The Grey è comunque un film interessante in grado di venire incontro a chi è alla ricerca di un thriller teso e spaventoso, e a chi si aspetta che un film abbia il coraggio di porsi qualche domanda in più. Ma il rischio è quello di non accontentare nessuno.

La migliore offerta, Giuseppe Tornatore 2013

La migliore offerta
di Giuseppe Tornatore, 2013

Virgil Oldman è un famoso esperto d’arte, antiquario, perito e battitore d’asta. Solitario e insensibile, ha una sola vera passione: una stanza segreta nel suo appartamento dove colleziona preziosi ritratti femminili, sottratti con l’inganno alle sue stesse aste. Un giorno riceve la telefonata di Claire, una giovane donna rimasta orfana che gli commissiona un sopralluogo nella sua villa. Dopo qualche tempo, Virgil viene a conoscenza del motivo per cui Claire non si presenta mai di persona ai suoi appuntamenti: la ragazza soffre di un’acuta forma di agorafobia e vive murata nella sua stanza da più di 10 anni. Dopo la sbronza di Baaria, con cui si era cercato un ritorno ai fasti di Nuovo cinema Paradiso sbattendo contro le barriere artistiche di Malèna, Giuseppe Tornatore è tornato con questo film all’aspirazione apolide che aveva generato il suo lavoro più riuscito (tra quelli che ho avuto l’occasione di vedere), ovvero Una pura formalità. Non è una coincidenza che il suo piccolo, bellissimo ma spesso dimenticato film del 1994 venga ora citato così spesso: anche qui troviamo una struttura da racconto breve che utilizza le forme del thriller per dirigersi, attraverso una sceneggiatura di ferro, verso un finale sorprendente. Poco importa che la conclusione stessa sia o meno presumibile, in senso stretto: anzi, il regista non fa che disseminare il film di indizi, sfidando lo spettatore a un gioco intelligente e raffinato in cui, da un certo punto in poi, entra piuttosto in ballo una sorta di reciproca, cinica complicità. La classe del film si vede però soprattutto nella chiusura: non perché sia perfetta, ma perché Tornatore sa esporla con sapienza e rigore, preferendo le immagini alla delucidazione letterale, e lasciando persino un filo di ambiguità nell’efficace tocco finale. Un modo di fare assai poco italiano: quello di non dare per scontato che lo spettatore sia uno sciocco. Lo stile di Tornatore, poi, è pressoché irriconoscibile: i suoi barocchismi e i dolly sperticati sono sostituiti da una messa in scena compatta, precisa, che rispecchia a tratti l’ossessività del suo protagonista e che dà il giusto valore all’ottima performance di Geoffey Rush. Il film non è impeccabile, e non tutto convince in pieno: la durata è forse un eccessiva (anche se necessaria a descrivere compiutamente il rapporto tra Virgil e Claire), l’adeguata fotografia a volte è troppo patinata, e le musiche di Ennio Morricone sono strabordanti, onnipresenti, un po’ presuntuose nel loro voler prendere possesso della scena. Ma il film del regista siciliano, in definitiva, è davvero una bella sorpresa, oltre che una rara eccezione: una produzione tutta italiana con un’autentica indole internazionale. Insomma, un buon esempio da seguire. E un gradito ritorno.

Link: il parere di Federico Gironi su ComingSoon e quello di Gabriele Niola su BadTaste.

The Master, Paul Thomas Anderson 2012

The Master
di Paul Thomas Anderson, 2012

“You look like you’ve traveled here.”
“How else do you get someplace?”

Non succede spesso, ma può succedere quando è nelle mani di un regista come Paul Thomas Anderson, che una decisione apparentemente tecnica divenga ben più che una dichiarazione d’intenti: così, la scelta di girare quasi interamente in 65mm (è la prima volta in un film di finzione dal 1996) è diventata quasi un seme tematico. Se Anderson vuole che sembri un film del periodo in cui è ambientato, non è certo un vezzo estetico: The Master è realizzato con una tecnologia considerata defunta, più che sorpassata, e lo splendore delle immagini risuona come un tuffo nel passato, un immacolato, definitivo sguardo su un cimitero di confusioni ideologiche che vanno a costituire le radici della società contemporanea.

Ma nonostante la stupefacente, scioccante fotografia del rumeno Mihai Malaimare Jr. sia in tal modo parte della narrazione stessa, The Master non si limita a essere un racconto per immagini. Anderson, dopo Il petroliere, torna a scavare con la medesima profondità nel mito e nei paradossi fondativi del sogno americano, concentrandosi sul rapporto tra l’ambiguo scrittore e filosofo Lancaster Dodd, fondatore di un movimento che mescola psicanalisi e fantascienza chiamato “La Causa”, e Freddie Quill, un ex soldato che sembra mosso soltanto da istinti primari – lo conosciamo mentre mima un rapporto sessuale con una donna fatta di sabbia, e mentre dà interpretazioni ossessivamente erotiche alle macchie di Rorschach. Gli insistiti tentativi da parte di Lancaster di domare la brutalità di Freddie (“a dirty animal that eats its own feces when hungry”) contro il volere della moglie Mary Sue, la solita meravigliosa Amy Adams (“perhaps he’s past help”), costituiscono lo scheletro narrativo del film; che, in parallelo, è giocato sul contrasto tra due grandissime interpretazioni: quella metodica, gigantesca di Philip Seymour Hoffman e quella ancora più letteralmente impressionante di Joaquin Phoenix, che il regista lascia spesso a briglia sciolta. Le sequenze che li vedono recitare in coppia, da quella (già celeberrima) del primo “processing”, sono momenti di cinema colossale che lasciano davvero senza fiato in gola.

Ancora una volta, però, The Master non si limita nemmeno a essere un film d’attori e performance, anche perché Anderson, tra i più grandi metteur en scène che il cinema americano abbia mai coltivato, si fa riconoscere fin dalle prime battute, da quell’ammaliante ballo in long take di Martha tra i banchi del negozio; inoltre, pur in un film che è indubbiamente il meno immediato e il più intransigente della sua carriera, regala una sceneggiatura di rara efficacia in cui l’inesorabile crudeltà dei dialoghi è attraversata da una vena di ironia che, all’occorrenza, si trasforma in risata beffarda. Ma al di là di tutti i suoi formidabili elementi, il segreto definitivo del film è proprio nella narrazione liberissima che li unisce, che li fa danzare sulla magnifica colonna sonora di Jonny Greenwood, alternando fascinazione e frustrazione, trasformando la rabbiosa seduzione tra i due personaggi nel ritratto di un’intera nazione alla ricerca disperata e vana della propria identità. Un film avvolgente, di lancinante bellezza, l’ennesima conferma di un talento impagabile, quello di un grande, forse del più grande autore del cinema americano odierno.