febbraio 2013

You are browsing the site archives by month.

The Impossible, Juan Antonio Bayona 2012

The Impossible
di Juan Antonio Bayona, 2012

L’incipit di The Impossible mostra subito l’estrazione horror di Juan Antonio Bayona, già regista dell’ottimo The Orphanage: la famiglia protagonista, che noi sappiamo già (anche grazie a un cartello che ci avverte che questa è la versione riarrangiata di una storia vera) essere vittima designata dello tsunami che colpì la Thailandia nel dicembre 2004, si scambia sull’aereo una serie di battute che fungono da nefasti presagi per l’ora e mezza a venire. Un procedimento noto, che viene confermato quando Bayona, senza girarci attorno troppo a lungo, sbatte l’onda anomala in faccia ai cinque personaggi, dividendoli in due parti che sembrano le anime stesse del film. La madre, intepretata con intensa dedizione da Naomi Watts, occupa la prima metà del film e su di lei Bayona sfoga una furia che avvicina il film proprio a un horror di truce stampo europeo (forse più “gentile” ma comunque impressionante), insistendo sul deterioramento del corpo con un pizzico di sadismo e costruendo con quella terribile nuotata nel fango una sequenza davvero magistrale, spettacolare e drammatica. A seguire, il baricentro del film si sposta sul primogenito Lucas, il cui romanzo di formazione funziona piuttosto bene: l’insistenza sulla timidezza di Lucas di fronte al corpo nudo e martoriato della madre può passare inosservata ma è una grande finezza di scrittura. Dall’altra parte, quando ci si sposta sul punto di vista del padre Ewan McGregor, viene fuori tutta l’anima più sentimentale di Bayona, che fa precipitare il film verso una parte finale dove l’approccio “di pancia” del film resta sempe vivo, ma abbandona il territorio del genere per entrare in quello del puro melodramma familiare. A ciascuno decidere se farsi strappare le lacrime a calci e pugni (cit. gniola), se sia meglio questo stravolgimento emotivo rispetto alla compattezza delle dinamiche più horror della prima metà o sia un “tradimento”; in ogni caso The Impossibile è un film curioso e interessante, perché è una produzione europea che non teme i confronti e tiene testa sotto quasi tutti gli aspetti (in primis tecnicamente; Bayona, poi, è veramente bravo da matti), perché il regista ha sì uno sguardo che sembra rifarsi soprattutto al cinema di Spielberg (L’impero del sole, La guerra dei mondi, eccetera) ma dà l’impressione di averne colto il succo, e in definitiva, con tutti i suoi difetti e le sue mille sbracature, è difficile (o impossibile?) non divertirsi, spaventarsi ed emozionarsi quanto basta (e avanza).

Qualcosa nell’aria (Après Mai), Olivier Assayas 2012

Qualcosa nell’aria (Après Mai)
di Olivier Assayas, 2012

Ciò che riesce meglio a Olivier Assayas, in questo romanzo di formazione sentimentale e politica di un giovane studente nella Francia dei primi Anni 70, è l’idea di ricostruzione storica come rievocazione di uno stato d’animo collettivo, in cui si scontrano le esigenze private dei singoli e le ispirazioni civili, quelle di una generazione a cui è stata lasciata un’eredità tanto importante quanto ingombrante; più che attraverso costumi e scenografie, Assayas restituisce quegli anni grazie a elementi marginali come la colonna sonora, che ha un ruolo assolutamente centrale ed è straordinaria – anche quando non è imprevedibile, come nei casi di Nick Drake o Syd Barrett, invocato con tanto di vinile sul giradischi. Il suo maggior pregio, più semplicemente, è quello di aver azzeccato tutte le facce, dal debuttante Clément Métayer (che ha l’espressione da schiaffi che meglio si addice al ruolo di Gilles) alla formidabile Lola Créton, a cui basta uno sguardo per comprendere le sfumature del suo personaggio, fino a un’esordiente terribilmente fotogenica come Carole Combs, alla cui drammatica, celata intensità è dedicata pure la sequenza più riuscita (e più dolorosa) del film. È in scene come queste, e più in generale negli interni degli appartamenti, delle ville e degli scantinati che Assayas mostra la sua bravura tecnica, senza mai sfoggiarla apertamente; meno convincente, anche se convinta, la scelta di costruire il film allineando uno dietro l’altro situazioni e spunti, anche autoriflessivi (il dibattito interno ai dialoghi sulla rivoluzione del linguaggio del cinema avviene in un film il cui linguaggio, pur con tutte le sue libertà, è piuttosto tradizionale e riconoscibile) con lo spirito euforico, malinconico e di chi scrive la propria autobiografia, dilungandosi sui dettagli più inessenziali e nostalgici, e si stufa (o muore) prima di poterla rileggere per bene. Il risultato è un film che ricerca la sua vitalità proprio nell’assenza di una vera struttura, ma senza mai trasgredire davvero alle regole, svelando infine un destino necessario ma costruito con un confuso, disordinato entusiasmo.

Frankenweenie, Tim Burton 2012

Frankenweenie
di Tim Burton, 2012

Quant’è ironico che la Disney abbia promosso con entusiasmo il remake di un cortometraggio che, una trentina d’anni fa, costò al suo autore il posto di lavoro proprio alla Disney? Dopotutto è anche ironico che, grazie alla loro produzione, il maggior risultato commerciale di Tim Burton sia stato, in fin dei conti, il suo film meno riuscito. Ma tutto è bene, se l’exploit di Alice gli ha potuto procurare questa sorta di risarcimento in extremis: un lungometraggio animato in stop-motion che nonostante la tecnica magistrale rappresenta un viaggio alle radici del suo cinema, alla riscoperta delle ossessioni originarie. La quintessenza, o il bignami che dir si voglia, del burtonismo, dagli omaggi al cinema di James Whale alla fissazione per l’immaginario rètro e ripetitivo della provincia americana, fino all’adorazione per Vincent Price che rivive nel personaggio di Rzykruski, doppiato da Martin Landau (che già aveva resuscitato Bela Lugosi in Ed Wood). Raccontando la storia di Vincent, Burton rimette in scena la purezza della sua prospettiva unica, quella degli emarginati e dei diversi, e se tutta la perfezione formale (e narrativa, nella sua semplicità) rischia di farlo risultare un po’ troppo asettico e sterile, questo nuovo Frankenweenie è uno dei risultati più indiscutibili della sua filmografia recente – anche se il finale ammorbidisce molto il contrasto tra l’innocenza fanciullesca e l’irritante ipocrisia del mondo adulto. Burton, che tra alti e bassi non ha mai smesso di fare bei film (tra gli ultimi, Sweeney Todd e Dark Shadows sono ingiustamente sottostimati), finalmente ha girato qualcosa capace di riavvicinare tutti, anche i più inflessibili fan della prima ora, quelli che sono cresciuti con Edward e Beetlejuice e non hanno mai mandato giù Planet of the apes. Un curioso, tenero e divertentissimo viaggio nel tempo, pieno di trovate e di cuore, e con una favolosa sfilata finale di mostri horror.