marzo 2013

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Anna Karenina, Joe Wright 2012

Anna Karenina
di Joe Wright, 2012

Da un regista che ha legato il suo nome ai virtuosismi, come ormai l’arcinoto e davvero memorabile piano-sequenza in Espiazione (tutt’altro che un caso isolato, vedasi Hanna), ci si aspetta quantomeno una smania di stupire il pubblico che può essere, a seconda delle occorrenze, entusiasmante o tautologica. Oppure entrambe le cose, dipende dai gusti. Con l’aiuto della sceneggiatura di Tom Stoppard, uno che ha lavorato spesso sul confine tra teatro e cinema (e qui ritroviamo un po’ dell’inventiva del suo capolavoro Rosencrantz e Guildenstern sono morti), Joe Wright fa proprio questo per tutta la prima mezz’ora del film: più che l’idea piuttosto curiosa, quella di ambientare quasi interamente il film all’interno di un teatro, solleticando all’istante le papille di migliaia di tesisti di cinema sparsi per il mondo, è la sua realizzazione, furiosa e magistrale, che lascia a bocca aperta. Da un certo punto in poi,  il film smette di essere elettrizzante come quello spaventoso primo atto: è come se il motore si fosse avviato e non avesse più bisogno di troppa energia per farlo andare avanti, ma Wright ne conserva quanto basta per mantenere viva, pulsante, moderna una storia che è già stata sullo schermo più di dieci volte, con un’attenzione maniacale nella scelta delle luci e delle inquadrature (la fotografia è di Seamus McGarvey, lo stesso di Espiazione) incomparabile con la media del cinema cosiddetto in costume. In ogni caso, questa bizzarra, intellettuale soluzione tutta d’interni è così efficace che la prima “apertura” (letterale, del sipario) su una pianura innevata toglie quasi il respiro.

Joe Wright è anche noto per essere uno dei pochi registi capaci, sul serio, di dirigere Keira Knightley, di tenere a bada un’attrice il cui problema non è tanto la carenza di talento, come dicono ingiustamente in molti, ma la convinzione di averne più di quanto le possiamo riconoscere. Anche qui, il regista inglese porta a compimento il suo lavoro con onesta caparbietà, e comunque Aaron Taylor-Johnson e Jude Law sono entrambi abbastanza fuori parte da non farla sfigurare al confronto.

Les Misérables, Tom Hooper 2012

les_miserables_ver6_xlgLes Misérables
di Tom Hooper, 2012

Si è già affrontato in passato, parlando per esempio di un film fallimentare come Rock of ages, il discorso sulle diverse necessità di un musical e del suo adattamento cinematografico, bisogni di cui un regista e una produzione non possono non farsi carico, tanto più quando ne hanno i mezzi (un grande cast, un budget all’altezza, una trama che rimanda a un inestimabile immaginario storico). È possibile invece, ancora una volta, che un musical magnifico diventi un brutto film, in grado di scontentare persino i fan più accaniti dell’originale? Va detto che Les Misérables sconta una struttura tutt’altro che organica, giocata soprattutto su grandi assoli e duetti. Ma invece di regalare al musical un respiro cinematografico, attraverso l’applicazione di una visione personale d’insieme, Tom Hooper ha deciso di stringere costantemente i personaggi all’interno del quadro, in una serie interminabile di primi piani – tanto che per la maggior parte del tempo il film potrebbe essere ambientato in un set completamente deserto e non coglieremmo la differenza. Ma l’efficacia, la forza espressiva di un primo piano è inversamente proporzionale al suo abuso, e non ci vuole una scuola di cinema per capire che il troppo stroppia. L’idea di cinema di Hooper, comunque, si ferma qui: al di là dei soliti ineleganti cento grandangoli di maniera, Les Misérables è un film sostanzialmente privo di una qualunque direzione, che non sia quella di preparare l’occhio di bue per il successivo pezzo di bravura, senza però avere le spalle coperte dalla professionalità di un cast di Broadway o di West End. Le performance del cast, in tal senso, sono rese certamente più interessanti, per via della loro imperfezione, dalla scelta di utilizzare la presa diretta restituendo al musical una sensazione di realismo piuttosto inusuale per il genere – ma è quel tipo di idea che fa la differenza nelle cartelle stampa più che sullo schermo, e una volta passata la sbornia di I dreamed a dream (dove una straordinaria Anne Hathaway dà tutta se stessa, ricordiamolo, per una risicata manciata di minuti) ci si ritrova a sbadigliare nervosamente in attesa che finiscano le due ore e quaranta più lunghe, massacranti della stagione, buone giusto per riscrivere la definizione di mattone.

 

Una particolare nota di demerito all’edizione italiana: il film, quasi interamente cantato, è stato distribuito in inglese con i sottotitoli (e vorrei ben vedere) ma le pochissime parti parlate sono state doppiate, anche quando si trovano nel bel mezzo delle canzoni. Non ci vuole un genio per capire che l’effetto è tremendo: era davvero impossibile distribuirlo interamente in lingua originale? Vale la pena di domandarsi, in un esempio limite come questo, quale sia il prezzo di un ticket da timbrare per favorire voci che stanno in campo per una decina di minuti al massimo in totale. In ogni caso, una parte la pagano gli spettatori.

Upside down, Juan Diego Solanas 2012

Upside down
di Juan Diego Solanas, 2012

Che un film come Upside down possa presto trovarsi in difficoltà lo si intuisce fin dalle prime battute, quando a causa dell’estrema complessità dell’assunto di base (in breve: in un sistema solare dalla doppia gravità con due pianeti abitati contigui, uno è riuscito a prevalere economicamente sull’altro) e delle leggi fisiche che regolano questo universo, è costretto a spiegarsi esplicitamente in un lungo preambolo, con tanto di schemi. Va detto che l’idea in sé è tra le più interessanti degli ultimi anni, in un panorama abbastanza monocolore com’è quello del cinema fantastico odierno, e va premiata la sua originalità, dovuta forse in qualche modo alla lontananza da Hollywood – il film è infatti una produzione franco-canadese diretta da un regista argentino. Purtroppo Upside down è un film davvero poco riuscito, pasticciato e goffo, segnato irreparabilmente dalla scarsezza di Jim Sturgess, rovinato da una sceneggiatura che perde tempo su dettagli di poco conto per poi saltare a piè pari interi passaggi rendendosi poco comprensibile. Impossibile non pensare, con una punta di malignità, che Solanas abbia dedicato poca attenzione a uno script così frettoloso per concentrarsi soprattutto sull’apparato visivo; ma anche lì, il lavoro del direttore della fotografia Pierre Gill sembra sfuggirgli di mano, e una volta superato lo stupore causato dalle scenografie e dalle scene che sfruttano in modo più spettacolare i paradossi della doppia gravità, le sue saturazioni diventano stucchevoli. Anche perché sotto non c’è granché, un metaforone banalotto sulla segregazione sociale annacquato dall’ennesima variazione sul tema di Romeo e Giulietta, con Kristen Dunst ridotta a statuina inerme. In buona sostanza, uno dei più imperdonabili sprechi della stagione: il cinema fantastico ha sete di idee di questo tipo, coraggiose e creative, magari un po’ sciocche ma stimolanti, e Solanas dimostra di averne; solo, andrebbero affidate a persone capaci di tenerle in piedi per cento minuti.

Celeste and Jesse Forever, Lee Toland Krieger 2012

Celeste and Jesse Forever*
di Lee Toland Krieger, 2012

Mi si faceva notare, dopo la visione, che Celeste and Jesse Forever è un titolo quasi fuorviante, perchè si potrebbe intitolare Celeste e basta: il terzo film di Lee Toland Krieger è costruito infatti quasi interamente sul personaggio interpretato da Rashida Jones, che in qualità di sceneggiatrice (alla sua primissima esperienza) infonde totalmente nel film la sua personalità e quel misto di charme e inadeguatezza che ha sfoggiato per molto tempo, tra le altre cose, in Parks and Recreation. Il film vorrebbe essere un ribaltamento degli schemi della commedia romantica – si apre a cose fatte, e racconta i tentativi di una donna di rimettere a posto i pezzi della propria vita, aggrappata all’ultima illusione di un amore ormai finito – ma alla fine, nonostante una messa in scena che ammicca allo stile del cinema indipendente, cede volentieri alle regole del gioco. Non ci sarebbe niente di male, se non fosse che, a causa di una certa acerbezza sia nella scrittura che nella regia, rimane invischiata nell’inconsistenza dei personaggi secondari: come l’amico gay di Elijah Wood che fa di tutto per scostarsi dalla macchietta finendo per diventarlo, o Emma Roberts la cui parodia di Ke$ha non porta la storia da nessuna parte. In ogni caso, la Jones ha avuto il coraggio (e l’astuzia) di cucirsi addosso un personaggio tutt’altro che gradevole; aiutata da un buon cast di volti noti (Andy Samberg è convincente anche lontano dalle usuali buffonerie, Chris Messina è sempre uguale a se stesso ma funziona), regala alcuni momenti di autenticità, anche dolorosa – e non è affatto scontato. Peccato che il film che gira intorno a Celeste sia confuso, privo di una direzione, di un vero registro. Un film raccontato come se fosse un sequel è, al massimo, la premessa di un talento ancora tutto da costruire.

*Il film è uscito in sala in Italia, alla chetichella e all’insaputa di tutti (compreso il sottoscritto) nell’ottobre dello scorso anno, con il titolo italiano “Separati Innamorati”. Esatto.

La colonna sonora del film è molto interessante. Già che ci siamo, ve la faccio sentire.