aprile 2013

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Oblivion, Joseph Kosinski 2013

Oblivion
di Joseph Kosinski, 2013

Se c’è una cosa che Joseph Kosinski aveva dimostrato, pur in un film deludente come Tron: Legacy (di cui dirigerà anche il sequel il prossimo anno) era il suo talento visivo: un’opera malriuscita in cui si riuscivano comunque a intuire e apprezzare le sue capacità, soprattutto nell’utilizzo degli effetti speciali e delle musiche, forse persino già uno stile da coltivare. La conferma arriva, in qualche modo, con il suo secondo film: forte del successo del debutto, Kosinski si scrolla di dosso l’ingrombro di un franchise (e della Disney, che avrebbe dovuto realizzare anche Oblivion, ma ha poi ceduto i diritti alla Universal), e si fa produrre una sua sceneggiatura originale, pensata originariamente in forma di graphic novel. Il film è prima di tutto un sentito omaggio alla fantascienza, ha le sue radici nella letteratura di Philip K. Dick nell’affrontare i suoi temi principali, quelli sul rapporto tra identità e memoria, e nella rappresentazione di un pianeta abbandonato sembra rifarsi (anzi, piuttosto esplicitamente) alle visioni pixariane di Wall-E. La sceneggiatura, va detto, non è il punto forte di Oblivion: non tanto per l’interessante soggetto o per il colpo di scena (a dire il vero abbastanza sorprendente, anche se tutt’altro che innovativo) che cambia la rotta del film a metà della corsa, quanto per dialoghi e dettagli che, forse per via delle riscritture e dei passaggi di mano, lasciano ben poco spazio all’intuizione dello spettatore e un approccio “sentimentale” che rischia di sembrare stucchevole al fianco di una messa in scena così asettica e precisa. Ma è proprio sotto il profilo visivo che Kosinski si dimostra capace di autentiche meraviglie: visto in un teatro IMAX, formato per cui è stato pensato fin dal principio (e purtroppo in Italia la scelta è scarsa) il film è uno spettacolo sensazionale, soprattutto nelle sue parti più descrittive (l’incipit, con la prima visione della Luna distrutta, lascia senza fiato) e in quelle più “action”, per esempio gli inseguimenti che strizzano l’occhio al modello degli sparatutto, da Rebel Assault in avanti, oltre a essere lo stato dell’arte delle tecnologie digitali. Che mantenga o meno lo stesso effetto in una sala normale o sul “piccolo” schermo, sarà un discorso da fare a parte. Ancora una volta, poi, Kosinski mostra un particolare gusto per la scelta della colonna sonora, qui affidata ai francesi M83 che regalano uno score roboante e rétro (splendida la canzone sui titoli di coda, cantata dalla norvegese Susanne Sundfør) che pur esagerando a tratti aiuta a dare personalità al film. Tom Cruise, alla ricerca di rivalsa in un biennio poco fortunato, si comporta come sempre con grande professionalità; ma a colpire è soprattutto la sorprendente Andrea Riseborough, pur recitando tutte le sue parti in un pugno di metri quadri.

La frode (Arbitrage), Nicholas Jarecki 2012

La frode (Arbitrage) 
di Nicholas Jarecki, 2012

“You think money’s gonna fix this?”
“What else is there?”

C’è un momento in cui Arbitrage sembra il pilot per una serie tv, sul modello di Colombo, in cui il detective interpretato (con la solita classe, quella di chi non deve fare alcuno sforzo per funzionare) da Tim Roth indaga il crimine di turno con una missione, quella di riequilibrare la stortura sociale causata dalle speculazioni finanziarie: non sarebbe nemmeno una brutta idea. In verità, il personaggio su cui il film è costruito, e con cui siamo chiamati a identificarci, è proprio un ricco magnate, giunto al traguardo dei sessanta: coinvolto in un terribile incidente che rischia di scoperchiare le illusioni del benessere, i segreti e le bugie di una doppia vita, ma anche lo spudorato amore per il rischio che potrebbe rovinare la sua vita e quella della sua famiglia. L’apparenza, vista la regia corretta ma senza troppa personalità di Jarecki (fratello di Andrew e Eugene, al suo esordio come regista di fiction) è quella di un thriller medio o, appunto, di un prodotto tv di alta qualità: ma in questo “thriller sulla crisi economica” pulsa una vena politica; è una graffiante parabola sullo strapotere del denaro, che lavora sulle contraddizioni morali tanti dei personaggi quanto degli spettatori, spinti a fare il tifo per un protagonista ambiguo e sgradevole. La sceneggiatura (dello stesso Jarecki) è robusta e spietata, concretissimo il cast: Richard Gere non era così bravo da tempo e duetta magnificamente con Susan Sarandon nelle sequenze migliori del film (“The world is cold” “Then you’re gonna need a warm coat”), ma anche Brit Marling non delude, nel suo piccolo, chi la tiene d’occhio da tempo per film più personali come Sound of my voice e Another Earth. Occhi aperti per il cameo di Graydon Carter, direttore di Vanity Fair.

Menzione d’onore per la colonna sonora di Cliff Martinez e per i titoli di coda su I see who you are di Björk.

Sinister, Scott Derrickson 2012

Sinister
di Scott Derrickson, 2012

Ellison Oswalt è uno scrittore specializzato in “true crime” che ha passato anni cercando di replicare il successo del suo primo romanzo, trasferendosi di volta in volta, insieme con la sua famiglia, nei quartieri dove sono stati commessi i più tremendi omicidi. L’ultima casa degli Oswalt, i cui precedenti inquilini sono finiti impiccati in giardino, riserva subito una bella sorpresa: una scatola con dentro alcuni misteriosi filmati in Super 8 e la scritta “home movies”. Sfruttando con abilità tutti i cliché del caso (i bambini, il buio, la casa) Derrickson ha scritto e girato un horror efficace e intelligente che funziona su più livelli, sia come inquietante storia demoniaca che come riflessione sul potere evocativo della riproduzione in immagini del mondo, considerata come un elemento in evoluzione. Un’idea particolarmente azzeccata, visto che arriva alla fine (o nel mezzo) di un lungo periodo dominato dal “found footage” – presente qui, letteralmente, all’interno della storia stessa. E se da una parte Derrickson utilizza il metodo “sporco” del finto-amatoriale per rappresentare una vera e propria mutilazione dei simboli del benessere famigliare (la villetta, l’auto, la piscina e il prato ben curato) si mostra capace anche di restituire nel “tempo presente” un’atmosfera inquietante e piena di presagi (uno dei colpi meglio assestati arriva nelle prime battute, e non ha nulla di soprannaturale), prima di assalire il pubblico con i più classici tra gli spaventi. Alcuni dei quali, va detto, vanno davvero a segno. In ogni caso, la presenza di Ethan Hawke fa la differenza: non succede tutti i giorni che un horror possa contare su un attore vero, tantomeno che questi reciti all’altezza delle sue capacità.

Spring Breakers, Harmony Korine 2012

Spring Breakers
di Harmony Korine, 2012

Le teen idol della Disney che diventano le pupe di un gangster, rubano, scopano, menano, ammazzano. La mitologia visiva dello “spring break”, il sogno soft-porno dell’accecante incipit in slow-motion, che dialoga con il suo opposto diventando un incubo di ferite, paura e morte. Spring Breakers lavora su opposizioni semplici, quasi trasparenti; allo stesso modo Harmony Korine non va certo sul sottile: a spiegare il film basterebbe la scena in cui James Franco, sgradevole e sublime nel ruolo di un trafficante con denti di metallo, rasta e tatuaggi, esprime ad alta voce la sua idea di “sogno americano”: due ragazze in costume su un letto pieno di soldi sovrastato da una parete ricoperta di pistole e coltelli. Il film intreccia questi elementi (denaro, armi, sesso) in modo volutamente inquietante, ma è così incessante e abrasivo da non rimanere sulla superficie, così sfacciato da diventare uno dei più inesorabili assalti all’immaginario americano che si siano visti di recente, realizzato da Korine con un impressionismo nella messa in scena e nel montaggio preso in prestito da Malick ma mutato in qualcosa di personale, strisciante, quasi totalmente inedito. Che va di pari passo con una frastornante colonna sonora, a cura di Skrillex e Cliff Martinez; anche se il vero colpo di genio è l’utilizzo di Everytime in uno dei momenti più (giustamente) citati del film, cantata dai personaggi a bordo piscina e, poi, dalla stessa voce di Britney Spears sullo sfondo di un montaggio furibondo e violento. Anche qui si tratta di un gioco scoperto, una contrapposizione che si spiega da sé: eppure dà vita a una sequenza magistrale e fulminante. Il film, con la sua narrazione onirica, il suo ribaltamento morale, le sue ripetizioni che diventano rituali (“Spring break per sempre!”), nasce senza dubbio da un’esigenza essenzialmente provocatoria, ma non si ferma davanti a nulla (o quasi), non lascia alcuno scampo ai suoi personaggi – divisi tra l’orribile, insostenibile quotidianità e l’opprimente sensazione di morte – né allo spettatore, turbato e frastornato da un film spaventoso ed elettrizzante, stupefacente e terribile.

Smashed, James Ponsoldt 2012

Smashed
di James Ponsoldt, 2012

Kate e Charlie sono una bella coppia: lei insegna alle elementari, lui scrive di musica, la sera escono a bere qualcosa con gli amici. Ma bastano pochi minuti di film per capire che qualcosa non va: Kate che, appena sveglia, finisce la birra iniziata la sera prima, sotto la doccia. Quando si ritrova in ginocchio a vomitare di fronte alla sua classe, comincia a comprendere la natura del suo problema, e a cercare di risolverlo. Un film che affronti a viso così aperto il tema dell’alcolismo è molto rischioso, perché la tentazione di cedere ai cliché del caso è fortissima e non risparmia nessuno. Ma la verità è che l’impostazione di Smashed è abbastanza diversa dalla norma: il film non racconta la storia di un personaggio che trova se stesso ripulendosi da una dipendenza, ma quella di un personaggio che per liberarsi di un demone si vede costretto a lasciare indietro un pezzo della propria vita, a sacrificare sé stessa, o la propria idea di sé, trovando nel mondo “un’infelicità per cui essere grato”. Schivando con impressionante naturalezza le velleità del cinema indipendente, James Ponsoldt fa quasi tutte le scelte giuste: riduce il minutaggio a soli 80 minuti (evitando di accanirsi con sadismo sui personaggi, osservati con tenerezza ed empatia anche nei momenti più angoscianti), trova un ruolo perfetto per il bravissimo Aaron Paul di Breaking bad, usa due volti “comici” come Nick Offerman e Megan Mullally in modo inusuale dedicando loro degli sprazzi inaspettati di spietata ironia, non si fa piegare dalle ristrettezze del budget (mezzo milione di dollari) realizzando un film che sa rendere espressivi persino i luoghi, in particolare gli interni. E azzecca uno sguardo finale silenzioso e dolente, assolutamente perfetto. Ma soprattutto, decide di mettere gran parte del film nelle mani di Mary Elizabeth Winstead: un’attrice che fino a questo film aveva mostrato un talento e una bellezza “naturali”, e fuori dagli schemi, qui dimostra anche di essere un’interprete di strabiliante, disarmante intensità.

Il film ha saltato le sale ed è uscito in Italia questa settimana direttamente in dvd.

R.I.P. Roger Ebert (1942 – 2013)

Ebert

“So on this day of reflection I say again, thank you for going on this journey with me. I’ll see you at the movies.” (Roger Ebert, 1942-2013)

Hitchcock, Sacha Gervasi 2012

Hitchcock
di Sacha Gervasi, 2012

Un regista come Alfred Hitchcock non ha certo bisogno di essere “riscoperto”, ma ci troviamo ugualmente in un periodo di intensa rielaborazione (inclusa la serie tv Bates Motel che, citando Serialmente, è più una fanfiction su Psycho che un prequel) le cui conseguenze assomigliano a quelle che coinvolsero la figura di Truman Capote qualche anno fa. Infatti, anche stavolta nel giro di pochi mesi sono stati prodotti due film che si concentrano su una fetta della vita (privata e professionale) del grande regista inglese: il primo è The Girl, film tv con Toby Jones (che, guarda caso, era stato Capote in Infamous) sul morboso rapporto di Hitchcock con Tippi Hedren; il secondo è questo, è diretto da Sacha Gervasi (che aveva esordito con lo splendido documentario sugli Anvil), è certamente più “gentile” con le perversioni di Hitch, e racconta proprio il periodo della rischiosa produzione di Psycho, fatta ancora più drammatica dall’esigenza di rendere in qualche modo “decisiva” la narrazione, concentrandosi soprattutto sulla relazione privata e professionale con la moglie Alma Reville. Il tratto più distintivo del film è indubbiamente la performance di Anthony Hopkins, che interpreta Hitch con un gusto mimetico che sta a metà strada tra la meraviglia e la mascherata da quattro soldi; il resto del cast finisce un po’ nell’ombra, come è ovvio che sia, ma il film cerca soprattutto di spingere sul gioco “interattivo” con i fan del regista – coinvolti, a qualunque livello: gran parte del minutaggio è speso indicando lo schermo dicendo “questa la sapevo” (la realizzazione di alcune scene, il rapporto con Vera Miles e Janet Leigh, la curiosità di sentir dire che Vertigo era stato un macello commerciale) o considerazioni sparse sulla somiglianza (a dire il vero, notevole) tra James D’Arcy e Anthony Perkins. Uno dei grossi problemi del film, semmai, parte proprio dal suo titolo, Hitchcock: forse è un gioco della sedia in cui c’è una sola sedia, ma non si può certo ignorare l’intenzione sottesa. Perché una cosa è dire che Psycho è un capolavoro, e ci siamo; un’altra è spingersi (anche se lo si fa implicitamente) a definirlo come unico e indiscutibile culmine della carriera di Hitchcock, con la pretesa di poter spiegare non solo tutta l’arte ma persino tutta la psicologia dell’autore attraverso questo limitato e tutt’altro che oscuro periodo. Quindi, se come racconto divertito, sciocco e inoffensivo di una manciata di mesi, o meglio ancora come ricostruzione “storica” della produzione di un titolo leggendario, si lascia guardare (ogni piccolo spiraglio su un sistema superato o defunto è irresistibile per qualunque cinefilo, nostalgico o meno), come ritratto compiuto dell’uomo e del genio un film come Hitchcock è sostanzialmente improponibile.

Il grande e potente Oz, Sam Raimi 2013

Il grande e potente Oz (The Great and Powerful Oz)
di Sam Raimi, 2013

Nonostante si possa applicare, si sa bene, pressoché a qualunque opera audiovisiva, una delle letture più interessanti di questo film è proprio quella autoreferenziale. Raimi non ne fa certo un mistero: il suo Oz, ossessionato dalle forme preistoriche del cinema e dalla figura di Thomas Edison, è di fatto un cinefilo ante litteram, il suo percorso riflette (come sostiene anche Roy Menarini su Twitter) quello della carriera di Raimi, dall’amatorialità de La Casa fino ai miliardi della Disney, e l’intero script – sia nello sviluppo narrativo che nei singoli dialoghi – è costruito sull’abbinamento tra l’illusionismo e il cinema stesso. In qualche modo, questa prospettiva lo avvicina più a Hugo Cabret che ad Alice, e ci permette, quantomeno, di illuminare con una fioca luce di consapevolezza un progetto che, a grandi linee, è speculare a quello che tre anni fa Tim Burton consegnò alla Disney. E che risulta, similmente e inevitabilmente, una delusione per qualunque fan del regista o del “marchio” di Oz. Come già aveva fatto nella trilogia di Spider-Man, Raimi nasconde qua e là dei “graffi” che lo rendono improvvisamente riconoscibile (più che altro sfumature, dettagli, uno zoom o un movimento di macchina fuori posto) e regala una prima ventina di minuti (in bianco e nero e in 4:3) davvero entusiasmante; per il resto, si mette al servizio di un progetto che, per sua natura, deve accontentare un pubblico di straordinaria ampiezza, e che spesso cede a un infantilismo che sciacqua la ricchezza delle invenzioni visive e l’imponenza produttiva. Tutto sommato, il disastro totale di Alice è lontano, perché la favolosa Rachel Weisz riequilibra da sola la prova (volutamente) caricaturale di Kunis e Williams, perché James Franco è così terribilmente “estraneo” da risultare efficace, ma questo Oz è proprio una sciocchezza di poco conto. E non del tutto innocua: sarebbe anche divertente di per sé, se solo fosse possibile ignorarne le origini e le conseguenze. Però, viste le premesse di un prequel “monco” (la Disney possiede i diritti dei libri ma non del film del ’39), mettiamola così, poteva andare peggio.