maggio 2013

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Upstream color, Shane Carruth 2012

Upstream color
di Shane Carruth, 2012

“I’m gonna go wherever you go. You know that.”

Ci è voluto quasi un decennio perché il regista di Primer, intricato e strabiliante esperimento narrativo “scientifico” sul viaggio nel tempo, uno dei film dello scorso decennio che merita di più l’etichetta (abusata) di cult movie, riuscisse a tornare a dirigere un lungometraggio. Il suo secondo film non tradisce le aspettative dei suoi seguaci: prima di tutto perché, nella sua ricercata ed esasperata enigmaticità (inutile o nocivo raccontarne la trama), è anche un’opera di una bellezza immediata e commovente, con una messa in scena ipnotica e rarefatta, eppure organica e sanguigna. Ma il film rispetta soprattutto l’idea di un autore che mette l’intelligenza delle sue idee e la profondità dei suoi temi davanti a ogni tipo di compromesso nei confronti dello spettatore, fosse anche l’idea più diffusa e tradizionale che abbiamo della comprensione del testo. Upstream color è, invece, un film che scopre gradualmente le sue carte, che non ha intenzione di rispondere a tutte le domande, che procede sulla sua strada con inflessibile, spietata coerenza, fino a un finale di grande impatto emotivo. Non c’è, in questo, l’intenzione di far spazientire lo spettatore, bensì di fornirgli la possibilità di colorare da sé gli spazi vuoti, di decidere cosa sia Upstream color, se un surreale thriller fantastico, una struggente storia d’amore che sfida i condizionamenti della necessità e le leggi della natura, una parabola rivoluzionaria sulla libertà e sull’identità, tutto questo, molto altro ancora. Una cosa è certa: è la spettacolare, frastornante conferma della bravura fulminante e unica di uno dei pochi autentici innovatori del cinema indipendente americano.

Antiviral, Brandon Cronenberg 2012

Antiviral
di Brandon Cronenberg, 2012

È facile (e ammissibile) ironizzare su un film come Antiviral. Il solo fatto che il figlio di David Cronenberg abbia deciso di debuttare con una storia simile (una società che inietta a pagamento ai suoi clienti le malattie delle celebrity) rende quasi automatiche riflessioni sulla sua inevitabilità; dovuta, magari, a una formazione personale che (scioccamente) ci piace immaginare piuttosto disturbata. Ma la verità su Antiviral è che Brandon, in questo primo film, mostra già una personalità notevole, rarissima per un regista al suo esordio. I temi del film, in primis quello della mutazione della carne, non sono certo nuovi (la sequenza horror onirica, splendidamente disturbante, sembra quasi un omaggio a registi come il padre o Tsukamoto) ma quella di Brandon è tutt’altro che un’imitazione di David; è, piuttosto, una sorta di prosecuzione. Fatta, però, non dall’ennesimo emulo, ma da un giovane autore ambizioso ed estremamente preparato, aggressivo ma dotato di un ammirevole controllo del mezzo espressivo, che mostra di aver colto la chiave, lo spirito del suo predecessore. E che decide di raccogliere la staffetta, quella di una testimonianza importante per il cinema degli ultimi trent’anni. Dimostrando, tra le altre cose, un talento visivo impressionante, giocato sul contrasto tra ambienti asettici e pulsioni morbose, tra l’esattezza delle simmetrie e la furia delle materie organiche, sfruttando in modo perfetto il volto unico di Caleb Landry Jones, e realizzando una strepitosa riflessione sulle ossessioni somatiche della nostra civiltà, in bilico tra fantascienza, parabola e incubo.

Noi siamo infinito (The perks of being a wallflower), Stephen Chbosky 2012

Noi siamo infinito (The perks of being a wallflower)
di Stephen Chbosky, 2012

“We accept the love we think we deserve.”

Raccontare l’adolescenza non è un affare da poco, soprattutto se si vuole cogliere quella sensazione di inadeguatezza, di slancio verso qualcosa di intangibile, che spesso il cinema ha preferito racchiudere in cliché, etichette e status sociali, soprattutto nella commedia. Stephen Chbosky non partiva avvantaggiato: chi sceglie di (o viene spinto a) dirigere un adattamento di un proprio romanzo ha sì il vantaggio di poter scegliere con libertà il grado di aderenza all’originale, d’altra parte però, da romanziere, rischia di non avere una sufficiente padronanza del mezzo per un film così facile da sbagliare, proprio per la sua apparente semplicità e leggerezza. Ma di là di qualche perdonabile errore (come la fotografia troppo patinata, quasi fuori controllo), Chbosky è riuscito a confezionare, sulla base di una storia tutt’altro che originale, un film piccolo e delicato, romantico e intelligente, con un giovane cast strepitoso (Ezra Miller e Mae Whitman sono impagabili) e una bellissima colonna sonora in cui classici di Morrissey e Bowie interagiscono in modo sensato e coerente con la storia. In tal senso, uno degli elementi più sorprendenti del film, ambientato una ventina d’anni fa, è la sua negazione dei canoni più pigri del period movie: se non fosse per alcuni “indizi” (come le cassettine) il film potrebbe svolgersi in qualunque periodo; segnale di universalità per un film che tratta sentimenti comuni e riconoscibili, anche se verso la fine l’universalità lascia il passo, per forza di cose, a una più particolare drammaticità. Ma l’intento originario, di una nostalgia che non dimentichi quanto possano essere terribili quegli anni, non va perduto.

La madre (Mama), Andrés Muschietti 2013

La madre (Mama)
di Andrés Muschietti, 2013

Non è la prima volta che un lungometraggio viene tratto da un corto, ma Andrés Muschietti è al centro di un’operazione leggermente diversa: Mama non amplia la premessa dell’originale (spaventoso gioiello lungo solo tre minuti, datato 2008), bensì ci costruisce un intero film intorno. Letteralmente: il corto in questione viene praticamente replicato a metà della corsa. Per fortuna il talento del regista argentino “scoperto” da Guillermo Del Toro, che patrocina questo suo debutto, non era un abbaglio: Mama non eccelle in compattezza e prende a piene mani a destra e a manca (l’impianto narrativo e tematico arriva dritto dai migliori anni del j-horror), ma Muschietti dimostra un talento visivo straordinario (il suo direttore della fotografia è Antonio Riestra) e una notevole sapienza nella costruzione di personaggi che non sembrino le solite pretestuose macchiette il cui unico scopo è occupare il tempo tra uno spavento e l’altro. Lo aiuta avere per le mani un co-sceneggiatore come Neil Cross e soprattutto un’attrice come Jessica Chastain: la sua Annabel è un personaggio interessante, tutt’altro che “gradevole”, decisamente in controtendenza rispetto al cinema horror, e fa la fortuna del film.

Io e te, Bernardo Bertolucci 2012

Io e te
di Bernardo Bertolucci, 2012

C’è stato un periodo in cui sembrava che Io e te, ritorno alla regia di Bernardo Bertolucci dopo nove anni (e primo suo film recitato interamente in italiano in più di trenta) sarebbe stato realizzato in 3D. Una scelta bizzarra per chiunque abbia letto il breve romanzo di Niccolò Ammaniti; una sfida che il regista ha abbandonato presto, quando si è reso conto che il 3D non faceva per lui né per il film. Che però rimane una stranezza, a suo modo: uno degli autori italiani più affermati nel mondo, che in passato si è confrontato con la grandezza, con la coralità, con imponenti produzioni internazionali, torna dopo un lungo silenzio con una storia “minuscola”, che ruota intorno a (quasi) solo due personaggi e (quasi) solo un ambiente ristretto, quello di uno scantinato, dove un introverso quattordicenne Lorenzo si nasconde per evitare la gita scolastica e per stare con se stesso per una settimana – e dove lo scoverà la sorellastra tossicodipendente. Con un’aderenza al testo quasi letterale (a parte il finale, più “aperto” rispetto alla chiusura di Ammaniti), Bertolucci utilizza la sua bravura senza dare troppo nell’occhio, muovendosi negli stretti spazi con maestria ma senza audacia, concentrando ogni sforzo sul ritratto di Lorenzo (Jacopo Olmo Antinori, buona scelta di casting) e finendo per realizzare un film che non si spinge al di là delle stesse pareti del set: efficace e corretto ma ristretto e pacifico, e più limitato che davvero soffocante. La grande rivelazione del film, quella che fa davvero la differenza, è Tea Falco nel ruolo di Olivia: una performance impegnativa, affrontata a volte in modo un po’ scolastico e acerbo, che apre però il sipario su un nuovo talento dalle potenzialità enormi: a un’attrice così intensa le due dimensioni del cinema bastano eccome.