Upstream color
di Shane Carruth, 2012
“I’m gonna go wherever you go. You know that.”
Ci è voluto quasi un decennio perché il regista di Primer, intricato e strabiliante esperimento narrativo “scientifico” sul viaggio nel tempo, uno dei film dello scorso decennio che merita di più l’etichetta (abusata) di cult movie, riuscisse a tornare a dirigere un lungometraggio. Il suo secondo film non tradisce le aspettative dei suoi seguaci: prima di tutto perché, nella sua ricercata ed esasperata enigmaticità (inutile o nocivo raccontarne la trama), è anche un’opera di una bellezza immediata e commovente, con una messa in scena ipnotica e rarefatta, eppure organica e sanguigna. Ma il film rispetta soprattutto l’idea di un autore che mette l’intelligenza delle sue idee e la profondità dei suoi temi davanti a ogni tipo di compromesso nei confronti dello spettatore, fosse anche l’idea più diffusa e tradizionale che abbiamo della comprensione del testo. Upstream color è, invece, un film che scopre gradualmente le sue carte, che non ha intenzione di rispondere a tutte le domande, che procede sulla sua strada con inflessibile, spietata coerenza, fino a un finale di grande impatto emotivo. Non c’è, in questo, l’intenzione di far spazientire lo spettatore, bensì di fornirgli la possibilità di colorare da sé gli spazi vuoti, di decidere cosa sia Upstream color, se un surreale thriller fantastico, una struggente storia d’amore che sfida i condizionamenti della necessità e le leggi della natura, una parabola rivoluzionaria sulla libertà e sull’identità, tutto questo, molto altro ancora. Una cosa è certa: è la spettacolare, frastornante conferma della bravura fulminante e unica di uno dei pochi autentici innovatori del cinema indipendente americano.