Upstream color
di Shane Carruth, 2012
“I’m gonna go wherever you go. You know that.”
Ci è voluto quasi un decennio perché il regista di Primer, intricato e strabiliante esperimento narrativo “scientifico” sul viaggio nel tempo, uno dei film dello scorso decennio che merita di più l’etichetta (abusata) di cult movie, riuscisse a tornare a dirigere un lungometraggio. Il suo secondo film non tradisce le aspettative dei suoi seguaci: prima di tutto perché, nella sua ricercata ed esasperata enigmaticità (inutile o nocivo raccontarne la trama), è anche un’opera di una bellezza immediata e commovente, con una messa in scena ipnotica e rarefatta, eppure organica e sanguigna. Ma il film rispetta soprattutto l’idea di un autore che mette l’intelligenza delle sue idee e la profondità dei suoi temi davanti a ogni tipo di compromesso nei confronti dello spettatore, fosse anche l’idea più diffusa e tradizionale che abbiamo della comprensione del testo. Upstream color è, invece, un film che scopre gradualmente le sue carte, che non ha intenzione di rispondere a tutte le domande, che procede sulla sua strada con inflessibile, spietata coerenza, fino a un finale di grande impatto emotivo. Non c’è, in questo, l’intenzione di far spazientire lo spettatore, bensì di fornirgli la possibilità di colorare da sé gli spazi vuoti, di decidere cosa sia Upstream color, se un surreale thriller fantastico, una struggente storia d’amore che sfida i condizionamenti della necessità e le leggi della natura, una parabola rivoluzionaria sulla libertà e sull’identità, tutto questo, molto altro ancora. Una cosa è certa: è la spettacolare, frastornante conferma della bravura fulminante e unica di uno dei pochi autentici innovatori del cinema indipendente americano.
Credo che le premesse siano buone, ed anche il non spiegato funziona alla grande, così come l’occhio malickiano delle riprese della vita (non) quotidiana, ma a conti fatti inserisco questo film nel momento crepuscolare che sta attraversando il cinema indipendente americano, non in grado, a mio avviso, di abbandonare stilemi oramai abusati per proporre nuove visioni disturbanti, cosa che invece riesce alla grande al nuovo cinema indipendente britannico.
adoro venire qui ogni tanto perchè basta leggere un post per avere almeno un paio di film da guardare, ed è quello che ho fatto anche questa volta: prima mi sono visto primer e poi upstream color.
Le suggestioni che lascia il film di questa recensione sono numerose e notevoli, e se non mi sento tanto intelligente dopo averlo visto (perchè insomma, inutile nasconde che io il film non l’ho capito e seguito del tutto) resto comunque soddisfatto di averlo visto e, nei prossimi giorni, pensarci un po’ su. (con primer invece mi sono andato in cerca degli schemetti che spiegavano l’intricato flusso temporale)
Giovane cinefilo, questa è l’ultima volta che ti do retta! Il film è insopportabile e supponente e mi dispiace che tu ci sia cascato. Non basta mescolare le inquadrature per fare “arte”. Il film non solo non ha le qualità di un film d’avanguardia ma ha anche tutti i difetti di un film tradizionale. Mi permetto di darti una dritta: quando la colonna sonora del film è rappresentata da un’unica nota di tastiera tenuta per cinque minuti di fila ti deve venire il dubbio che dietro non ci sia niente…
Stammi bene.
Dario