giugno 2013

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Nella casa (Dans la maison), François Ozon 2012

Nella casa (Dans la maison)
di François Ozon, 2012

Un burbero professore di liceo, marito annoiato e romanziere fallito, riceve da uno dei suoi studenti la prima parte di un tema: riguarda un compagno di classe che aiuta con i compiti di matematica, la nascita della loro amicizia, l’ossessione per la loro casa e per la loro famiglia. Colpito dal suo stile narrativo, avvinto dall’apparente ingenuità dell’alunno e dalla morbosità della storia (il cui baricentro si sposta presto sull’attrazione verso la madre dell’amico) decide di diventare il suo mentore, finendo per condizionare la scrittura e, con esso, anche la vita stessa dei personaggi: ma il confine tra il racconto e la realtà è meno stabile di quanto il maestro possa immaginare. Una delle più grandi doti di Ozon, almeno in questo caso, è non aver mai paura di risultare troppo intelligente per il suo pubblico: questo suo strabiliante piccolo film è un gioiello di sottile ferocia, ma l’elemento più ludico, interessante e indubbiamente centrale (la brillante riflessione “meta” sull’ambiguità e il potere della narrazione, inclusa quella cinematografica) non svilisce il dato più immediato, la bravura del regista francese nel mettere in scena, con una sceneggiatura di incredibile densità e un cast perfetto (in particolare Ernst Umhauer, che pare nato per questo ruolo), una sorta di thriller intellettuale, in tono minore ma ugualmente teso, che porta all’ennesima, inesorabile disgregazione borghese. L’inquadratura finale, tra le più efficaci degli ultimi tempi, solleva il velo con gusto surrealista dando una lucida chiave di lettura all’intero film: un colpo di genio.

Eden, Megan Griffiths 2013

Eden
di Megan Griffiths, 2013

Una diciottenne di origine coreana viene rapita e costretta a diventare una prostituta da un’organizzazione gestita da uno sceriffo corrotto: vivrà per mesi in un buio garage, insieme ad altre decine di ragazze quasi tutte minorenni, dentro un capannone nel deserto del Nevada. Ispirato a un’incredibile storia vera avvenuta negli Anni 90, Eden è una storia di resistenza estrema che si confronta con un dilemma morale: quanto siamo disposti a rinunciare di noi stessi, della nostra dignità e umanità, pur di sopravvivere? Aiutata da scelte di casting assolutamente azzeccate (Beau Bridges è un villain perfetto proprio per la sua apparenza ordinaria; la splendida Jamie Cheung, che ha oltre dieci anni più del suo personaggio, regala la performance della sua carriera), la regista e co-sceneggiatrice Megan Griffiths riesce a sfuggire al pericolo maggiore di un film di questo tipo, schivando la morbosità del caso e adottando completamente il drammatico, complesso punto di vista della giovane protagonista; nonostante sia davvero duro e angosciante, il film è molto più digeribile di quanto possa apparire, anche perché la messa in scena e la sceneggiatura, entrambe robustissime, lo trattano a tutti gli effetti come un thriller. Anche se le sue ripercussioni finiscono per trasformarlo, con un’onestà che a volte mette i brividi, in un viaggio nel cuore della malvagità più inconcepibile, di fronte al quale è impossibile rimanere indifferenti.

Un giorno devi andare, Giorgio Diritti 2013

Un giorno devi andare
di Giorgio Diritti, 2013

Una giovane donna piange guardando la luna che si riflette sul Rio delle Amazzoni: la donna si chiama Augusta, quella luna assomiglia a un figlio che non è mai nato, a un matrimonio finito, a un padre che non c’è più. Augusta un giorno è dovuta andare lontano per trovare risposta al “dolore che la interroga”: la cercherà prima in Dio, poi negli altri, infine in se stessa. Dopo aver raccontato, nello splendido L’uomo che verrà, una dolorosa pagina di storia italiana mescolando il realismo dialettale con il pathos della fiction, una delle firme più sorprendenti del cinema italiano d’autore odierno racconta una storia intima sfruttando, e non poco, la sua esperienza nel documentario. Un giorno devi andare forse non sarà devastante come il lavoro precedente né implacabile come Il vento fa il suo giro, e la parte del film ambientata in un glaciale Nord Italia, con Anne Alvaro nel ruolo della madre di Augusta, non ha (forse volutamente) lo stesso fascino o la forza espressiva di quella girata tra la foresta Amazzonica e le favelas di Manaus, fotografata magnificamente dal collaboratore abituale di Diritti, Roberto Cimatti. Ma riesce comunque a stupire, talvolta a commuovere: è un film che si interroga insieme alla sua protagonista, non ha intenzione di fornirle chiare risposte, lezioni morali, è più interessato alla domanda stessa; e in questo viaggio, il film si permette di esporre le proprie ferite, proponendo ai margini del racconto riflessioni rischiose, ma per nulla banali, sulla solitudine e sulla fede, mantenendo un’equilibrata sobrietà ben rappresentata dalla notevole prova di Jasmine Trinca. In ogni caso, l’idea di voler indagare le profondità del dolore e della perdita, senza chiudersi nelle solite quattro mura, spingendo con forza i propri confini geografici, e con essi i limiti che spesso sono quelli del cinema italiano, è un atteggiamento che fa onore al film. E che andrebbe preso come esempio.

Il sospetto, Thomas Vinterberg 2012

Il sospetto (Jagten)
di Thomas Vinterberg, 2012

Quanto è cambiato il cinema danese, dai tempi del Dogma 95 a quelli dell’ultimo Refn? È una domanda retorica, nel frattempo dopo 14 anni Thomas Vinterberg è riuscito finalmente, a mio avviso, a scollarsi davvero di dosso l’ingombrante celebrità di Festen, la cui innegabile efficacia, a distanza di tempo, viene perlopiù offuscata da ciò che rappresentava, come parte e come specchio di un momento (e di un movimento) culturale – e non a caso quel titolo ancora trova posto nelle locandine di tutto il mondo. L’eccellente Jagten gli permette invece di affermare totalmente la personalità del suo sguardo, quello di uno tra i più spietati autori europei, che non si ferma di fronte a nulla pur di sezionare a colpi d’accetta le convenzioni sociali, pur di permetterci di scovarne il marcio all’interno. Pur contando molto sulla memorabile interpretazione di Mads Mikkelsen (premiato a Cannes), la riuscita del film dipende soprattutto dal talento di Vinterberg nello spostare il baricentro morale della pellicola fuori dallo schermo, coinvolgendo gli spettatori in un gioco crudele (e davvero sfiancante) di complicità, senso di colpa, rigetto, che contribuisce a fare di Jagten una delle più disturbanti esperienze emotive del cinema europeo recente.