Il grande Gatsby (The Great Gatsby)
di Baz Luhrmann, 2013
Scrivere di un film molte settimane dopo la visione, me ne sto accorgendo in questo periodo di arretrati, è una sorta di esercizio intellettuale parallelo alla scrittura in sé. Faticoso, certo, ma a suo modo utile e stimolante. Una volta tolta ogni possibile pretesa di un’analisi compiuta, resta il recupero discontinuo di particolari estetici e dettagli emotivi. Quanto e cosa mi ha lasciato di sé, questo film, dopo due mesi e mezzo? La risposta per questo quarto adattamento di Il grande Gatsby, in realtà, non è molto diversa da quella che avrei fornito il mattino successivo: poco, pochissimo. Sono sempre stato un fervente ammiratore, all’occorrenza un difensore, del cinema di Baz Luhrmann, anche o proprio per la sua sfrontatezza, per la tendenza a mettersi davanti a tutto – al suo pubblico, alle sue fonti di ispirazione, ai suoi stessi film. Forse sono i tempi a essere cambiati, forse siamo noi, fatto sta che questo Gatsby è un film tanto luhrmanniano quanto rovinoso. Il fraintendimento alla base del progetto è l’adattabilità di un romanzo tra i più noti della letteratura americana allo stile barocco del regista australiano: non ci sarebbe nulla di male, anzi, ma al di là della scaltra colonna sonora e dei barocchismi della messa in scena, è proprio una sorta di inaspettata, paradossale fedeltà al testo a tagliare le gambe al film. Si nota bene in una lunga e rivelatoria sequenza ambientata in un piccolo appartamento, dove la staticità prende definitivamente il possesso del film, gettando alle ortiche gli spunti del roboante incipit. Luhrmann infatti, come già in passato, carica tutte le sue energie nel primo, travolgente atto. Ma ci vuol poco perché la benzina finisca e il motore si inceppi: da un certo punto in avanti, l’unico motivo per sfuggire alle sbirciate d’orologio (il film dura due ore e mezza, ma sembrano quattro) pare essere il carisma di Leonardo DiCaprio – che è bravo, come sempre, ma che rispetto alla sua prova in Django Unchained qui sembra una figurina pallida e pigra. Non lo aiuta certo il resto del cast: Carey Mulligan, che altrove è un’attrice strabiliante (rivedere Never let me go, poi parlare) è vittima di un tipico caso di miscasting, una Daisy poco convincente che si ricorda in ritardo di dover essere anche sgradevole – e il civettuolo doppiaggio italiano non le viene in aiuto. L’unica, autentica sorpresa di questo film doverosamente sbruffone eppure mortalmente noioso è la pazzesca Elizabeth Debicki, un’australiana di 22 anni che nessuno aveva sentito nominare finora, e che in un ruolo pur marginale come quello di Jordan riesce a portare sullo schermo, in un film tra i più deludenti della stagione sotto quasi ogni aspetto, qualche sporadica vampata di vitalità.
D’accordo al 100%, Debicki compresa, piaciuta tantissimo anche a me.
happy to disagree ( tranne per la Debicki che è meravigliosa) http://firstimpressions86.blogspot.it/2013/05/the-great-gatsby.html