agosto 2013

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L’uomo d’acciaio (Man of Steel), Zack Snyder 2013

L’uomo d’acciaio (Man of Steel)
di Zack Snyder, 2013

Sono passati sette anni da quando Bryan Singer prese in mano le sorti di Superman al cinema realizzando un film divertente e sottovalutato, che riuscì comunque nell’impresa di scontentare un po’ tutti, sfracellandosi al botteghino. Sette anni che sembrano settanta: perché nel frattempo il mondo dei supereroi al cinema è cambiato radicalmente. Ci hanno pensato Christopher Nolan, da una parte, con il suo Batman cupo, da gangster movie (le prove generali di Begins erano uscite giusto l’anno prima) e Kevin Feige, dall’altra, con il suo assurdo, titanico progetto, quello di connettere tutti gli eroi della Marvel (o meglio, quelli nelle mani della Disney) e farli puntare tutti su un super crossover finale – diventato poi il maggior incasso di tutti i tempi. Per dare conto del passare del tempo: Iron Man ha soltanto cinque anni.

Intanto, scottato dal flop, l’eroe di Krypton e il suo alter ego hanno continuato con successo a occupare il piccolo schermo (Smallville è durato dieci anni fino al 2011) ma al cinema sono rimasti in un limbo; sempre con la certezza sotterranea, però, che prima o poi la DC avrebbe dovuto prendere una posizione, affrontare la scaramanzia, e tornare in sala. Per riesumarlo, l’hanno affidato alle oscure cure produttive dello stesso Nolan (che a più riprese aveva giurato che nell’universo del “suo” Batman non c’era spazio per alieni umanoidi) e soprattutto a Zack Snyder, che pur con la carriera altalenante aveva dimostrato, quantomeno, di essere in grado di portare sullo schermo in modo eccellente – pur senza riscontro di pubblico – un fumetto impossibile come Watchmen. Le premesse, in una prospettiva storica, erano queste: primo, togliere al personaggio di Superman quell’alone rétro-pop che aveva causato il collasso del film con Brandon Routh, riportarlo in una zona-Nolan (banalizzando) più dark e intimista; secondo, preparare il campo per una tardiva operazione di rilancio del marchio, sulla falsariga del fenomeno Avengers.

È questo, forse, il motivo per cui Man of steel non poteva che essere una origin story di Superman - oltre, ovviamente, alla scaramanzia di cui sopra, visti i risultati di un Returns che ne dava, più coraggiosamente, per scontata l’esistenza: perché questo reboot non può più riguardare soltanto l’area di Metropolis, ma deve gettare le basi per un progetto più ampio – che, infatti, tra due anni comincerà a compiersi con l’incontro tra l’uomo acciaio e l’uomo pipistrello, a quasi tre decenni dall’epocale graphic novel di Frank Miller. Purtroppo, è anche la scelta di raccontare l’arcinota genesi dell’eroe a minare la compiutezza dell’operazione: pur essendo estremamente lungo (più di 140 minuti), il film di Snyder concentra una quantità spropositata di energie a un interminabile duello finale, che coinvolge l’eroe e il Generale Zod, in cui si scatena una violenza catastrofica che vorrebbe essere una risposta alla distruzione di New York di The Avengers, se non fosse che qui, con due personaggi che si danno una montagna di cazzotti tra un mucchio di edicifi in rovina, lo scontro risulta soltanto frastornante e fastidioso.

A Snyder e allo sceneggiatore David S. Goyer (arriva dritto dalla trilogia di Nolan, che insieme a lui firma il soggetto) resta tutta la parte centrale del film per riassumere la storia di Kal-El sulla Terra, il rapporto con il padre (raffazzonato e semplicistico, spesso tirato via con dialoghi di due minuti infarciti di banalità), la fuga da casa, la Fortezza della Solitudine, il costume, la scelta di diventare Superman, e via dicendo – una marea di informazioni, strizzate dalla sintesi, che poi, durante il caos finale, abbiamo tutto il tempo di considerare pretestuose, mentre ci annoiamo a morte tra uno sbatacchiamento e l’altro. In tal senso, procedendo a ritroso, pur se terribilmente sbrigativo (difficile comprendere perché una civiltà destinata alla distruzione totale nel giro di poche ore dovrebbe condannare un pericoloso criminale dandogli pure una palese speranza, fuor di metafora e senza scomodarne la comodità narrativa), è il primo atto la parte più interessante del film – perché è quella in cui Snyder rivela l’interesse per la fantascienza (più che per il fantastico) e perché Krypton è di una bellezza che, nelle prime battute, riesce a lasciare stupefatti.

L’unica ottima intuizione, oltre a una complicata struttura a flashback che riesce perlomeno a rendere più funzionale sequenze abusate come quella dello scuolabus, è quella di dare un maggior peso drammatico (e pizzico di modernità, senza strafare) al personaggio di Lois Lane, affidandola a una delle migliori attrici in circolazione, Amy Adams, che purtroppo rimane spesso ai margini della storia pur avendo il tempo di dare un po’ di lustro al film confusionario in cui si è trovata. Per il resto, Snyder è riuscito a rovinare la festa disattendendo tutte le miracolose premesse, per colpa di una sceneggiatura frettolosa e approssimativa ma anche di una messa in scena fracassona e puerile, senza nemmeno la muscolarità esagitata dei suoi film precedenti. Nonostante tutto, il film è stato un notevole successo di pubblico (650 milioni di dollari già incassati nel mondo) riuscendo già a dare il via al venturo Batman vs Superman, con Ben Affleck nel ruolo del primo. E procedendo, probabilmente, a costruire le radici di un’identità (stilistica e narrativa) a lungo termine, quella di una saga che è ancora tutta da pensare e produrre. Per chi scrive non è la migliore delle notizie, ma la storia, si sa, la fanno i vincitori.

Star Trek Into Darkness, J. J. Abrams 2013

Into Darkness – Star Trek (Star Trek Into Darkness)
di J. J. Abrams, 2013

Non essere un profondo conoscitore del franchise può essere un limite strutturale, nell’approccio all’ultimo film di Star Trek, ma può anche aiutare a guardarlo con distacco; immaginare che questa saga sia appena nata, chiedersi non soltanto quanto il film sia rispettoso o funzionale al passato ma quanto sia riuscito come film a sé stante, cosa dica di sé e della direzione che la saga stessa sta prendendo. Abrams e i suoi fidati sceneggiatori, anche questa volta, hanno infarcito il film di riferimenti per solleticare i fan (che si sono comunque ribellati, bocciandoli senza appello) ma uno dei loro maggiori meriti è proprio essersi impossessati, con furbizia ma pure con fegato, dei personaggi e dell’iconografia di Star Trek, averli rimodellati, in qualche modo, creando qualcosa che sta perfettamente in bilico tra tradizione, innovazione e perfetto senso del tempo. Ora non è più necessario l’artificio narrativo che ha permesso loro di farlo: questo sequel è un’opera molto più lineare, semplice, rilassata, che abbandona le invenzioni cerebrali e i paradossi cari al team di Lost per rifarsi piuttosto (fin dalla prima sequenza) all’idea di un cinema avventuroso ed escapista, oltre che con il piglio di un “episodio” più che di un evento. Pur essendo dannatamente divertente, realizzato  con l’incredibile senso dello spettacolo che Abrams ha ereditato da 35 anni di grande cinema mainstream americano, Into Darkness risulta, a confronto con il primo capitolo, così scarsamente ambizioso da rischiare di risultare, con il senno di poi, esaurita l’eccezionale scarica adrenalinica, quasi trascurabile. La grande differenza del film, in tal senso, è Benedict Cumberbatch: il suo personaggio riesce a legare il film alla storia del franchise (in un modo che risulta, appunto, sorprendente anche ai non-iniziati) mentre l’attore inglese, già uno splendido Sherlock per Moffatt e Gatiss sulla BBC, regala una performance stupefacente, rabbiosa e inquietante, che fa sbiadire un po’ il resto dell’ottimo cast (a cui si aggiunge la brava Alice Eve) finendo per trasformare, forse, Into Darkness in uno di quei film messi in ombra dall’ingombrante carisma del “cattivo” di turno. Diciamo, però, che in questo caso ne vale la pena.

Effetti Collaterali + Behind the Candelabra, Steven Soderbergh 2013

Negli ultimi anni, Steven Soderbergh ha annunciato a più riprese che si sarebbe ritirato dalla professione di regista per un periodo indeterminato. Al momento, infatti, è in un periodo sabbatico, seguìto all’uscita, nel giro di pochi mesi, degli ultimi suoi due film: uno per le sale, l’altro per la tv. È improbabile che la decisione si riveli duratura o irrevocabile, ma è un punto di partenza curioso per giudicare quello che, in tal caso, risulterebbe una sorta di testamento artistico.

Effetti collaterali (Side effects)
di Steven Soderbergh, 2013

La filmografia di Soderbergh degli ultimi dieci anni, se guardata a posteriori con un certo distacco, è una delle più bizzarre ed eterogenee del cinema americano e meriterebbe un lungo discorso a sé. Tra gli elementi più interessanti, c’è il modo in cui il regista, si è mosso tra il cinema indipendente e quello mainstream, tra sperimentazione e tradizione, finendo per rendere meno precisi confini, distinzioni ed etichette dell’intero sistema. Soderbergh non scrive mai i suoi film, che però hanno in comune una metodologia della messa in scena, che parte piuttosto dalla fotografia e dal montaggio: a dirigere entrambi, infatti, c’è il regista stesso, “nascosto” dietro due pseudonimi. È attraverso l’uso personale del mezzo tecnico (l’illuminazione velata, la morbidezza dei movimenti di macchina) che si definisce, prima di tutto, la sua possibile definizione autoriale: che si tratti di un drama dal budget ridotto o un thriller pieno di star hollywoodiane, un film di Soderbergh si riconosce al primo sguardo.

Effetti collaterali non fa eccezione ed è, in un certo senso, il punto d’arrivo del cammino percorso dal regista in film come The informant!Contagion e Haywire: un’altra rivisitazione  di format cinematografici (scritta ancora da Scott Z. Burns) che stavolta gli permette di confrontarsi con un thriller legato all’attualità, come ai tempi di Traffic – ma con tutt’altro risultato. Filtrata attraverso l’insensibilità del regista, la politica diventa un pretesto per un thriller compatto e riuscitissimo, a tratti davvero cinico e terribilmente professionale, privo di vere sorprese (l’invenzione migliore è forse il modo brillante in cui richiama, nell’inquadratura finale, l’establishing shot con cui si apre il film) ma reso meno inerte di un film come Haywire da un cast costruito con più fiuto (Rooney Mara e Jude Law in testa) e meno gusto dell’accumulo. In un certo senso, Effetti collaterali è la summa del Soderbergh più efficace, quello meno compiaciuto ma più divertito, che rinuncia a gran parte della sua personalità pur di chiudere un pacchetto che avrà pure pochi fronzoli ma anche davvero pochi punti deboli.

Behind the Candelabra
di Steven Soderbergh, 2013

Primo film diretto da Soderbergh per la tv (una decina d’anni fa aveva realizzato la miniserie K Street, sempre per HBO), Behind the Candelabra è scritto da Richard LaGravenese, che non azzeccava una sceneggiatura così bella da tantissimi anni, e non è propriamente un biopic di Liberace perché il punto di vista è, interamente, quello del suo compagno Scott Thorson – dalle cui memorie il film è tratto. Se non fosse per l’inconfondibile messa in scena, il film non potrebbe essere più distante dal precedente, anche solo per l’attaccamento che mostra nei confronti dei suoi personaggi. Anche stavolta, Soderbergh inserisce il suo film all’interno di un filone, facendone anche una riflessione amara sulla solitudine, la caducità e la decadenza della fama, ma la configurazione migliore di Behind the candelabra rimane quella di una storia d’amore e codipendenza malinconica e inusuale, non tanto per il genere dei suoi protagonisti ma per i suoi tratti metamorfici – con Scott che rinuncia gradualmente alla sua identità trasformandosi in un clone di Liberace. I due attori principali, però, non sono mere pedine di una scacchiera ma il cuore caldo del film: Douglas e Damon regalano due tra le performance più clamorose della loro carriera, in bilico tra ironia e commozione, senza mai scadere nel patetico o nel grottesco. Grazie a loro, soprattutto, Behind the candelabra, pur nel suo impianto narrativo volutamente “classico”, è uno dei film più originali che Soderbergh abbia girato, uno dei pochi in cui, dietro alla macchinazione di un regista spesso spietato, si intravede un raggio di indulgenza che illumina uno struggente, per quanto disilluso, romanticismo. Meglio tardi che mai.

Solo Dio perdona, Nicolas Winding Refn 2013

Solo Dio perdona (Only God forgives)
di Nicolas Winding Refn, 2013

Una delle argomentazioni che ho letto spesso, a ridosso dell’uscita del nuovo film di Nicolas Winding Refn nelle sale (ma già durante il suo passaggio a Cannes), sia a favore del film che come osservazione neutrale, suona più o meno così: Solo Dio perdona sarebbe un “vero” film di Refn, così come fu Valhalla rising. Il suo meraviglioso Drive, invece, sarebbe un contentino per un pubblico più vasto, un film più semplice e accessibile, derivativo e ruffiano, che sporcandosi le mani con il pop lo avrebbe allontanato dal suo stile più integro e intransigente. Il discorso, pur nelle sue sfumature snob (per le quali chi ama Drive sarebbe meno acuto di chi ama Valhalla rising: io preferisco parlare dei film e tenermi stretto un soggettivismo che si rispecchi nel rispetto, pure dei fan dei film che detesto) ha il suo fascino, e contiene anche una buona parte di verità, ma mi fa sempre sorridere per un motivo del tutto personale: dal canto mio, trovo Valhalla rising un film pressoché insostenibile e Drive un capolavoro – una parola, lo sottolineo, che cerco di usare con una certa cautela – proprio, o anche, per gli aggettivi che ho riportato sopra. La deduzione finale, sotto questa prospettiva e alla luce di questo suo ultimo film, sarebbe questa: il cinema integro e intransigente di Refn e io non sappiamo proprio cosa dirci ed è meglio se non ci frequentiamo più. Perché Solo Dio perdona, ancor più del tedioso epic del 2009, è un’opera di atroce, fastidiosa, dannosa inutilità – il titolo che è venuto fuori con desolante naturalezza quando qualcuno mi ha chiesto quale fosse, secondo me, il peggior film della stagione in corso. E quasi mi dispiace, per farmi due risate in vostra compagnia, dover tirare fuori Drive: il confronto tra i due film non è gentile per nessuno, oltre che fonte inesauribile di banalità da entrambe le parti (l’uno è l’anti-altro! No.) e, soprattutto, Solo Dio perdona non ha certo bisogno di Drive per palesarsi come un disastro. È inevitabile che un film così vistosamente presuntuoso divida il pubblico, ma ridurre tutto a un contrasto manicheo (film popolare vs film d’arte, quando nessuno dei due appartiene a queste due strampalate categorie) non ci porterà mai da nessuna parte; per avere un assaggio della ricchezza e della diversità della filmografia di Refn basta recuperare Bronson, un film che non c’entra quasi nulla con i titoli citati finora eppure è un’opera vibrante, personale, memorabile. Inutile, d’altra parte, pensare che un regista così intelligente e capace abbia fatto un film così terribile e sbagliato apposta, solo per sbatterlo in faccia a un certo tipo di pubblico: l’idea, a dire il vero piuttosto diffusa, che Solo Dio perdona sia una presa per i fondelli del fan di Drive, mi sembra, allo stesso modo, una sciocchezza che non tiene conto di numerosi elementi – dalla densità di riferimenti alla chiarezza espositiva, alla precisione iconografica, cromatica, compositiva di questo orribile, micidiale film da quattro soldi. Il che, forse, rende il tracollo ancora più funesto: Solo Dio perdona è, a tutti gli effetti, una cosa seria, è un film totalmente cosciente di sé, inflessibile nella sua direzione artistica e tecnica; ed è forse proprio questo a danneggiarlo in modo irrevocabile: Refn è così compiaciuto dell’unicità della sua opera, così convinto dell’ostinazione del suo metodo, da dare totalmente per scontato il proprio valore, senza sentire il bisogno, per esempio, di dirigere un film che uno spettatore possa guardare dall’inizio alla fine senza chiedersi chi sia il cretino, tra lui e il film. Infatti, Solo Dio perdona è ricco di elementi di interesse, di idee, è spinto da un’autentica visione: ma la stima per gli intenti non sposta di un millimetro l’avversione per i risultati. È uno di quei film più interessanti da analizzare scena per scena, tonalità di rosso per tonalità di rosso, metafora diabolica per metafora diabolica, che da vedere. Esperienza, quest’ultima, e stiamo parlando di un film che, beffa definitiva, arriva a malapena all’ora e mezza di durata, che mi auguro di non dover mai più fare nella mia vita. Mai più, mai più, ve ne prego.

Fast & Furious 6, Justin Lin 2013

Fast & Furious 6
di Justin Lin, 2013

Dopo essere riuscito con Fast Five a risollevare le sorti di una serie di film sempre più sconclusionata e che sembrava destinata all’oblio – no, lasciatemi riformulare: dopo aver reinventato totalmente la saga (e dopo aver alzato di parecchio, peraltro, l’asticella per l’intero sistema del cinema action) Justin Lin aveva di fronte a sé una strada segnata: ripetere il capitolo precedente, di enorme successo, caricandolo, esagerando ancora di più. Invece, l’imprevedibilità di un testacoda: pur essendo un sequel decisamente coerente, soprattutto nella messa in scena furibonda e inarrestabile (ancora una volta con un minutaggio clamoroso che supera le due ore) questo Fast & Furious, se guardato con un briciolo di attenzione, è lanciato una direzione diversa, con un’attenzione indirizzata quasi totalmente ai rapporti tra i personaggi. Di fatto, Fast & Furious è l’equivalente action di una soap-opera (con tanto di personaggi defunti che ricompaiono dal nulla con poco plausibili giustificazioni), un’operazione che, giunti al sesto capitolo, risulta quasi naturale. L’obiettivo dichiarato (la tagline “all roads lead to this”) è quello di riconnettere questo “nuovo corso” alle origini, per ridare al tutto l’impressione di un saga, per restituire valore (anche commerciale, va detto) al primo poker di episodi. Il risultato è meno sorprendente e radicale che in Fast Five ma ugualmente sorprendente: è facile rimanere di stucco di fronte all’altalena emotiva con cui Lin si approccia ai suoi personaggi (alcuni vitali, altri del tutto sacrificabili) così come alla squadrata sceneggiatura, ma la verità è che Fast & Furious 6 riesce perfettamente nell’intento senza dimenticare il pubblico, agganciando l’action a un imponente monolite tematico – il “valore della famiglia”, intesa ovviamente nelle peculiari modalità della saga. Per chi, invece, di questi ragionamenti non sa che farsene, ci sono una manciata di sequenze formidabili che sfidano, come da tradizione, ogni legge della fisica, una materia che la serie e il regista continuano a sgretolare senza tregua. Con un gusto che può permettersi di ammiccare con il pubblico e di uscire dallo schermo: la sequenza finale, per esempio, è ambientata in una pista d’aeroporto la cui inverosimile lunghezza diventa quasi uno spazio metafisico, con gli spettatori sfidati a calcolarne (e condividerne) le surreali dimensioni. Ma lo stile di Lin, più spesso, va nella direzione di un esasperato e liberatorio romanticismo, come nella memorabile scena del salvataggio a mezz’aria, culmine di una compless, quasi inconcepibile sequenza stradale e forse dell’intero film: perché nell’universo di Fast & Furious, l’amore è in grado di ricomporre a suo piacimento la concretezza del mondo. Hai detto niente.

La grande bellezza, Paolo Sorrentino 2013

La grande bellezza
di Paolo Sorrentino, 2013

“Ero destinato alla sensibilità.”

È naturale che in questi tre mesi si sia detto tutto e il contrario di tutto sull’ultimo film di Paolo Sorrentino, uno dei più bravi e importanti registi italiani degli ultimi vent’anni, tornato in patria dopo una (piuttosto deludente, per chi scrive) parentesi americana. La grande bellezza, infatti, è un’opera tanto ambiziosa negli obiettivi della sua ricerca quanto cosciente dei propri stessi limiti, un film che invita a parlare e discutere di sé, che gode della propria sregolatezza, dell’assenza di un’autentica messa a fuoco, che sia morale o semplicemente narrativa, sull’universo che dipinge, sulla decadenza di un cinismo sopraffatto dalla bellezza e dalla morte. Con un umorismo che si avvicina di soppiatto alla comicità e che lo rende la cosa più vicina a una commedia che abbia mai girato (la sceneggiatura, scritta con Umberto Contarello, vuole chiaramente essere tra le più “citabili” del cinema italiano recente) e che pare quasi una difesa contro un’inarrestabile sensazione di abbandono, Sorrentino mette da parte la compattezza e la precisione di altri momenti della sua carriera per abbandonarsi a un racconto ondivago, stralunato e un po’ folle. Illusorio e forse vano come la ricerca di Jep, il film non va mai al centro del problema, ma vi gira intorno facendo girare la testa allo spettatore, affastellando pezzi di bravura tipici del regista (la fragorosa, eccezionale sequenza del compleanno) e momenti di quieta contemplazione (di cui è protagonista una Roma irreale, poetica e beffarda, fotografata in modo ineccepibile dal solito Luca Bigazzi), con uno spirito di fondo che punta a dialogare con il cinema italiano del passato – non solo il più ovvio, il Fellini di  e La dolce vita di cui Sorrentino sembra quasi proporsi come erede, ma anche l’ironia pungente e surreale di Nanni Moretti, la cui impronta si vede, per esempio, nella presenza di un attore come Dario Cantarelli, nella scena dell’arresto del vicino di casa, nell’incontro notturno con Fanny Ardant. Ad arricchire il film c’è la performance di Toni Servillo, di cui è facile prendere in giro l’ubiquità ma di cui è impossibile negare la strabiliante efficacia, ma nel cast eterogeneo spiccano soprattutto Carlo Buccirosso (una conferma dopo il memorabile Cirino Pomicino del Divo) e una rocciosa Sabrina Ferilli, che trova in Sorrentino un altro regista (dopo Paolo Virzì, ovviamente) capace di far uscire sullo schermo tutto il suo talento d’attrice. Come il suo personaggio, anche il film è effimero, fragile, quasi fantasmatico, ma è proprio nella sua volubile, irrisolta malinconia che si nasconde la sua bellezza, quella di uno dei film più personali, arroganti e maledettamente magnifici dell’anno. Bentornato a casa.

No, Pablo Larraín 2012

No – I giorni dell’arcobaleno (No)
di Pablo Larraín, 2012

Pochi film della stagione appena conclusa sono riusciti a incontrare l’entusiasmo critico univoco con cui è stato accolto No, straordinario e originalissimo film ispirato alla campagna (vera) che contribuì alla caduta di Pinochet nel 1988. Eppure, il film del cileno Pablo Larraín è tutt’altro che un’opera semplice né conciliante: non riflette soltanto su una rivoluzione nel paradigma culturale, ma riesce a giocare con la percezione dello spettatore – fungendo, in qualche modo, da riverbero del proprio sistema di valori, soprattutto in una prospettiva storica, per tracciare i confini tra le luci e le ombre di questa vicenda. Dove finisce, dunque, la vittoria storica contro un regime brutale, e dove inizia la mutazione capitalista della cultura ribelle in uno spot della Coca-Cola? Ma al di là di questa complessità, che si riscontra “fuori” dal film, è nella forza del cinema in sé, oltre che nella sua disarmante sicurezza cinematografica, che No è un autentico gioiello. La trovata tecnica è poco più che azzeccata, ma è applicata in modo magistrale: essendo girato  in U-matic (un formato magnetico dismesso e pressoché dimenticato, precedente al Betamax) il film innesca un inusuale meccanismo iperrealista e interagisce con i materiali d’archivio con una discrezione che un film come Argo, per dirne uno, non può certo permettersi – riscoprendo peraltro le gioie e i dolori dei “quattro terzi” e dell’era analogica. E poi c’è il gusto del racconto spiccatamente pop di Larraín, un senso dell’umorismo satirico e sottile, un gusto (e un talento) per il crescendo drammatico che, pur sotto l’architettura “sperimentale” del film, ne fa un degno erede dei grandi classici americani del genere.