Negli ultimi anni, Steven Soderbergh ha annunciato a più riprese che si sarebbe ritirato dalla professione di regista per un periodo indeterminato. Al momento, infatti, è in un periodo sabbatico, seguìto all’uscita, nel giro di pochi mesi, degli ultimi suoi due film: uno per le sale, l’altro per la tv. È improbabile che la decisione si riveli duratura o irrevocabile, ma è un punto di partenza curioso per giudicare quello che, in tal caso, risulterebbe una sorta di testamento artistico.
Effetti collaterali (Side effects)
di Steven Soderbergh, 2013
La filmografia di Soderbergh degli ultimi dieci anni, se guardata a posteriori con un certo distacco, è una delle più bizzarre ed eterogenee del cinema americano e meriterebbe un lungo discorso a sé. Tra gli elementi più interessanti, c’è il modo in cui il regista, si è mosso tra il cinema indipendente e quello mainstream, tra sperimentazione e tradizione, finendo per rendere meno precisi confini, distinzioni ed etichette dell’intero sistema. Soderbergh non scrive mai i suoi film, che però hanno in comune una metodologia della messa in scena, che parte piuttosto dalla fotografia e dal montaggio: a dirigere entrambi, infatti, c’è il regista stesso, “nascosto” dietro due pseudonimi. È attraverso l’uso personale del mezzo tecnico (l’illuminazione velata, la morbidezza dei movimenti di macchina) che si definisce, prima di tutto, la sua possibile definizione autoriale: che si tratti di un drama dal budget ridotto o un thriller pieno di star hollywoodiane, un film di Soderbergh si riconosce al primo sguardo.
Effetti collaterali non fa eccezione ed è, in un certo senso, il punto d’arrivo del cammino percorso dal regista in film come The informant!, Contagion e Haywire: un’altra rivisitazione di format cinematografici (scritta ancora da Scott Z. Burns) che stavolta gli permette di confrontarsi con un thriller legato all’attualità, come ai tempi di Traffic – ma con tutt’altro risultato. Filtrata attraverso l’insensibilità del regista, la politica diventa un pretesto per un thriller compatto e riuscitissimo, a tratti davvero cinico e terribilmente professionale, privo di vere sorprese (l’invenzione migliore è forse il modo brillante in cui richiama, nell’inquadratura finale, l’establishing shot con cui si apre il film) ma reso meno inerte di un film come Haywire da un cast costruito con più fiuto (Rooney Mara e Jude Law in testa) e meno gusto dell’accumulo. In un certo senso, Effetti collaterali è la summa del Soderbergh più efficace, quello meno compiaciuto ma più divertito, che rinuncia a gran parte della sua personalità pur di chiudere un pacchetto che avrà pure pochi fronzoli ma anche davvero pochi punti deboli.
Behind the Candelabra
di Steven Soderbergh, 2013
Primo film diretto da Soderbergh per la tv (una decina d’anni fa aveva realizzato la miniserie K Street, sempre per HBO), Behind the Candelabra è scritto da Richard LaGravenese, che non azzeccava una sceneggiatura così bella da tantissimi anni, e non è propriamente un biopic di Liberace perché il punto di vista è, interamente, quello del suo compagno Scott Thorson – dalle cui memorie il film è tratto. Se non fosse per l’inconfondibile messa in scena, il film non potrebbe essere più distante dal precedente, anche solo per l’attaccamento che mostra nei confronti dei suoi personaggi. Anche stavolta, Soderbergh inserisce il suo film all’interno di un filone, facendone anche una riflessione amara sulla solitudine, la caducità e la decadenza della fama, ma la configurazione migliore di Behind the candelabra rimane quella di una storia d’amore e codipendenza malinconica e inusuale, non tanto per il genere dei suoi protagonisti ma per i suoi tratti metamorfici – con Scott che rinuncia gradualmente alla sua identità trasformandosi in un clone di Liberace. I due attori principali, però, non sono mere pedine di una scacchiera ma il cuore caldo del film: Douglas e Damon regalano due tra le performance più clamorose della loro carriera, in bilico tra ironia e commozione, senza mai scadere nel patetico o nel grottesco. Grazie a loro, soprattutto, Behind the candelabra, pur nel suo impianto narrativo volutamente “classico”, è uno dei film più originali che Soderbergh abbia girato, uno dei pochi in cui, dietro alla macchinazione di un regista spesso spietato, si intravede un raggio di indulgenza che illumina uno struggente, per quanto disilluso, romanticismo. Meglio tardi che mai.
Commento Effetti collaterali. Quando vedo un film cerco sempre di abbandonarmi alla storia; nel giudizio finale non ha alcuna importanza la filmografia di chi lo ha diretto o l’importanza del cast ma solo “quello che mi rimane addosso”. Questo film non mi ha lasciato assolutamente nulla. Sembra più un telefilm poliziesco, di quelli che si vedono su Fox, magari in versione allungata, che un thriller, come con molta benevolenza lo considera il giovane cinefilo padrone di casa.
La narrazione scivola via piatta, con scarsi sussulti. Il protagonista maschile ha un po’ la faccia del baccalà e subisce le avversità del caso senza particolare pathos. La Zeta Jones comincia a mostrare i suoi anni, nonostante le abbiano stuccato ben bene collo e viso e regge con mestiere il ruolo lesbo che le viene affidato. (Curioso che Soderbergh, quasi in contemporanea, abbia richiesto scene di baci omosessuali sia a Caterina che a Michael).
In definitiva un modesto telefilm poliziesco di 90 minuti, che ho già rimosso e su cui non voglio sprecare più nemmeno un byte.