settembre 2013

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The East, Zal Batmanglij 2013

The East
di Zal Batmanglij, 2013

Da queste parti si è parlato a più riprese di Brit Marling, una delle più interessanti e anomale figure del cinema indipendente americano. Dopo aver scritto e interpretato due film eccezionali come Another Earth e Sound of my voice, era quasi naturale che l’attrice si confrontasse con una produzione più ambiziosa e (molto relativamente: siamo intorno ai 6,5 milioni di dollari) più ricca, grazie al patrocinio dei fratelli Scott. Diretta ancora una volta dal Batmanglij di Sound, la Marling mantiene anche il ruolo di co-sceneggiatrice e produttrice, ma The East è un film meno inconsueto dei precedenti: si tratta, di fatto, di un ecothriller all’apparenza piuttosto semplice, su una talentuosa ex agente dell’Fbi, ora impiegata nel settore privato, che si infiltra in un gruppo di attivisti. Il formato dell’undercover cop che rivede le sue posizioni affascinato dal carisma del capo della setta (comprensibile, trattandosi di Alexander Skarsgård) è rispettato, ma il film affronta i temi legati ai metodi e alle responsabilità della sovversione sociale ed economica con una lucidità decisamente superiore alla media hollywoodiana. Poco interessati a dare risposte compiute, tantomeno a tracciare definizioni di merito e colpa, Marling e Batmanglij giocano tutto sull’ambiguità morale dell’una e dell’altra parte; suggerendo, semmai, un’interpretazione più forte con la cinica rigidità di Patricia Clarkson, autentico villain del film. Chiaramente, la Marling si ritaglia il ruolo centrale e lo porta a casa con una prova di notevole intensità, anche se qua e là si fa rubare la scena, e non soltanto da uno Skarsgård terribilmente magnetico: pur relegata al secondo piano, Ellen Page mostra ancora una volta una comprensione assoluta della parte e finisce per regalare alcuni dei momenti migliori del film. Chiuso, ed è un marchio di fabbrica, da un finale a effetto che mette in discussione quanto visto fino ad allora, The East ha portato forse Brit Marling e soci in territori cinematografici più rassicuranti, ma il cinema della sua personalissima setta (il cui prossimo capitolo sarà I Origins di Mike Cahill nel 2014) continua a produrre opere in grado di porre questioni delicate, in particolare sulle nostre aspettative legate al patto narrativo, mascherate da un approccio professionale e impeccabile alle stesse convenzioni del genere. Non è mica da tutti.

Pacific Rim, Guillermo Del Toro 2013

Pacific Rim
di Guillermo Del Toro, 2013

Quand’ero giovane – e dico giovane per davvero, mica per titolo – mi poteva capitare di rivedere un film nuovo una seconda volta. Avevo più tempo libero, più energie? Se non riesco nemmeno a stare a pari con i post sui film che vedo, chiese con un’evidente domanda retorica, quanto tempo potrò mai avere per fare un bis? Nel corso di quest’anno solare, per esempio, mi è successo di rivedere in sala soltanto un film.

Questo film è Pacific Rim.

Il motivo per cui sono tornato a vederlo non ha nulla a che vedere con la razionalità. La prima volta che vedi Pacific Rim, se hai la fortuna ma anche il desiderio di “entrarci” (dimenticando per un’ora e mezza di essere uno sbuffante, bolso, noiosissimo adulto), può essere un’esperienza emotiva totalizzante. In tal senso, il film di Guillermo Del Toro è uno dei più generosi blockbuster degli ultimi (parecchi) anni, si offre totalmente allo spettatore, sostituisce lo strato (sottile o spesso che sia) di sarcasmo con un’avvolgente crosta di passione per l’avventura pura, per le sue meravigliose macchine, per i suoi eroi senza macchia e con qualche paura. Farsi letteralmente travolgere da un film come Pacific Rim (non per forza da lui, dico, ma preferibilmente) è un’esperienza che consiglio, una volta ogni tanto; perché è vero, sembrerai meno figo agli occhi dei tuoi amici (pace all’anima loro) perché tremavi mentre gli jaeger si immergevano sott’acqua per sfidare i kaiju, perché non riuscivi a trattenere una lacrima mentre Idris Elba in armatura motivava i suoi uomini a cancellare l’Apocalisse – ma il film ti invita a fare proprio questo, a fare un viaggio nel tempo, a goderti lo spettacolo del cinema come quando avevi tredici anni, spingendoti a ricordare che quel ragazzino è ancora lì dentro da qualche parte. Perché non accontentarlo? Per quello sono tornato a vedere Pacific Rim, perché la prima cosa che ho pensato quando sono partiti i titoli di coda è stata: dio, che voglia di rivedere questo film. Quante volte vi capita, ormai?

L’ho fatto alla prima occasione – sempre in un teatro IMAX, che fa sicuramente la differenza. E ho capito, o meglio ho avuto conferma (perchè sarò pure un emotivo, ma non sono uno sprovveduto) che un film non può funzionare così bene a livello immediato senza essere un grande film – tanto più che si tratta di un’opera che, nella generale indolenza dei franchise, ha avuto il coraggio di scrivere la propria mitologia su un foglio bianco. La seconda volta ci si diverte ancora, quindi, ma si comincia ad apprezzare, veramente, tutto quello che c’è sotto. La semplice, forse artigianale cura con cui sono disegnati i personaggi, in particolare quello di Rinko Kikuchi. La brillante scaltrezza con cui Del Toro e il co-sceneggiatore Travis Beacham sfruttano sia la comodità dei cliché da action movie (come le schermaglie à la Top Gun) sia una ricchissima dote di precursori culturali (un discorso a sé che sono troppo pigro per fare, e che comunque hanno già fatto tutti), ma sempre e comunque a vantaggio del racconto, sempre con in mente lo spettatore e non i riferimenti stessi. Gli elementi più tipici del regista, come la direzione degli attori, l’abilità nell’usare il comic relief con pertinenza narrativa (Ron Perlman, Charlie Day e Burn Gorman: sono tutti suoi), di bilanciare l’ingombrante carisma dell’incredibile Pentecost con un’ironia imprevista e impeccabile. La fotografia di Guillermo Navarro, il cui apporto è fondamentale in molte sequenze, come quella più clamorosa e complessa del film, il flashback di Mako Mori. Una produzione che è sontuosa, ma serrata, in cui nemmeno un dollaro sembra andare sprecato e dove si respira un’aria di diversità culturale che è difficile riscontrare nei più redditizi (e “più americani”) blockbuster recenti.

Non sono tornato a vedere nessun altro film, forse, perché non c’era nessuno che lo meritasse altrettanto. Lo dico a prescindere da un discorso di qualità, di lista, ma lo dico con il cuore e con la testa – e pure con un pizzico di acrimonia, visto lo scarso successo che Pacific Rim ha avuto presso il pigro, bolso, sbuffante pubblico occidentale. E sapete che c’è? Ho già voglia di vederlo per la terza volta.

Your Sister’s Sister, Lynn Shelton 2011

Your Sister’s Sister
di Lynn Shelton, 2011

La breve era del mumblecore è ormai finita da un pezzo, i suoi protagonisti stanno facendo carriera a Hollywood (anche Mark Duplass, che qui è il protagonista), ma a posteriori un film come Your sister’s sister, diretto dalla regista di Humpday che nel frattempo si è fatta notare anche in tv dirigendo episodi di Mad Men (“Hands and knees”) e New Girl (tra gli altri, lo stupendo “Injured” è opera sua), mostra che il cinema americano può trarre un insegnamento dal metodo di un cinema super indipendente. Con un impianto ridotto all’osso (il film ha solo tre personaggi ed è quasi interamente ambientato in una casa nel bosco), girato in meno di due settimane e costato una miseria (circa 125 mila dollari), il film di Lynn Shelton è una delle migliori, più inusuali commedie romantiche americane degli ultimi tempi: un originale triangolo di segreti, bugie, sentimenti nascosti e madornali errori, sostenuto non solo dai tre splendidi attori (Emily Blunt è sempre una meraviglia, Rosemarie DeWitt sostituisce degnamente Rachel Weisz per la quale era stato scritto il ruolo) ma sulla sceneggiatura impeccabile della stessa Shelton, che gioca in modo singolare e brillante con il conformismo del genere. A impreziosire il film c’è poi il metodo della Shelton, che richiama le sue origini, quello di lasciare a briglia sciolta l’improvvisazione degli attori: una scelta rischiosa (don’t try this at home!) ma che funziona alla perfezione, dando al film una sensazione di genuinità che non ha prezzo.

Purtroppo il film, essendo appunto una commedia originale e intelligente con tre bravissimi attori, non è mai uscito in Italia. Potete rivarvi a pochi euro con il dvd britannico.

Admission, Paul Weitz 2013

Admission
di Paul Weitz, 2013

Anche la simpatia e la bravura di due attori come Tina Fey e Paul Rudd possono essere messe a dura prova quando non sono sostenute da personaggi che valgano la pena di essere seguiti. Ed è quello che accade nell’ultimo dimenticabile film di Paul Weitz, che ritorna a percorrere la strada dei suoi primi due (buoni) film in solitaria, A good company e American Dreamz, quella di una commedia adulta e aggrappata con le unghie alla realtà, purtroppo con risultati assai meno soddisfacenti. La sceneggiatura, troppo intenta a girare intorno al tema dell’istinto materno, dipinge il personaggio di Tina Fey come quello di una donna completamente in balia degli eventi che non sa mai che pesci pigliare, una delle professioniste meno professionali mai viste sullo schermo, e quello di Paul Rudd non è da meno, visto che l’intero improbabile plot è basato su una sua imprecisione dovuta a un eccesso di buona fede e ottimismo. Non è la prima volta che i due non funzionano al cinema, ma come era successo con Date night (dove lui era Steve Carell) anche la loro accoppiata romantica è prova di qualsiasi alchimio; almeno nel film di Shawn Levy c’era un Mark Wahlberg memorabile, qui nemmeno i personaggi secondari (la mamma femminista Lily Tomlin, l’inglese fedifrago Michael Sheen) destano alcun interesse. Si guarda dall’inizio alla fine, perché Tina e Paul sono comunque una delizia e ce la mettono tutta: meritavano uno script e una regia alla loro altezza.

Warm Bodies, Jonathan Levine 2013

Warm bodies
di Jonathan Levine, 2013

Girare una “commedia romantica con gli zombi” dopo Shaun of the dead e Zombieland portando a casa un risultato dignitoso non era un’impresa da niente. Per fortuna, Jonathan Levine è un regista e sceneggiatore in gamba e intelligente che già in 50 / 50 aveva saputo ribaltare le convenzioni del cancer movie e che anche qui decide di fregarsene delle regole e fare di testa sua. Warm bodies parte da due idee vincenti, non solo quella di assumere totalmente il punto di vista di uno zombi (utilizzando la voce fuori campo in modo assolutamente funzionale, per una volta), ma anche quella di partire dai postumi della pandemia; creando, di fatto, una sua mitologia autonoma, in cui gli zombi apprendono i ricordi delle vittime, “invecchiano” (diventando orribili mostri in CGI) e, addirittura, possono guarire. Levine ci tiene a mettere gli obiettivi di questa sua tenera parabola sull’insensibilità generazionale davanti ai precetti del sottogenere, e finisce per trasformare questo disinteresse per il ”canone” in un punto a suo favore. La risoluzione, magari, potrà sembrare un po’ troppo candida (e un paio di passaggi della sceneggiatura sono buttati via con colpevole distrazione) ma l’operazione è condotta con freschezza e senza troppa ruffianeria, una messa in scena adeguata, un ottimo cast e un equilibrio perfetto tra senso dell’umorismo e sentimentalismo spudorato. Un film terribilmente divertente sul micidiale potere terapeutico degli affetti.

Stoker, Park Chan-wook 2013

Stoker
di Park Chan-wook, 2013

Quando hai un blog che sta per compiere dieci anni, è inevitabile, talvolta, che si diventi insopportabilmente nostalgici. La trappola è sempre aperta, nascosta dal fogliame dei pretesti. Chi ha avuto la fortuna di frequentare i (pochi ma buoni) blog italiani di cinema intorno alla metà dello scorso decennio, come autore o come lettore, sa cosa abbia rappresentato Park Chan-wook in quegli anni per noi, piccola inascoltata setta dedita al culto di film come Joint Security AreaMr Vengeance e – ovviamente - Oldboy. Ma anche se quest’ultimo titolo ha goduto, insieme al suo successivo capolavoro Lady Vendetta, di una popolarità che non avremmo mai immaginato, l’interesse per Park è scemato non appena si sono esaurite le etichette che rendevano facilmente vendibili i suoi film.

Ovviamente Stoker è tutto un altro discorso: è il suo primo film in inglese. Non è, perlomeno, la canonica “svendita americana” dell’autore asiatico di culto (la produzione è anglo-statunitense) e nonostante sia un’opera su commissione o giù di lì (la celebrata sceneggiatura preesistente è firmata da Wentworth Miller, l’attore di Prison Break) nel film si ritrova indubbiamente il gusto visivo del regista, l’incredibile talento di Park nel giocare con gli ambienti, con i colori, e più in particolare con gli oggetti. Il problema è che, sotto al persistente ondeggiare della macchina da presa, c’è il vuoto assoluto: Stoker è un film che ci suggerisce il suo essere ambiguo, inquietante, perverso, ostinandoci a ripertercelo (un po’ come quando un film pensa che per commuovere basti un personaggio che piange) e associando alla raffinatezza della direzione artistica dei dialoghi risibili e una direzione d’attori che al centesimo sguardo intenso sfocia nell’auto-parodia. L’esperienza perlopiù innocua, perdonabile, di Stoker diventa davvero irritante solo a posteriori: il film, infatti, ingrana la marcia negli ultimi dieci minuti, diventando all’improvviso favoloso, interessante – e lasciandoci sui titoli di coda con l’impressione di aver assistito a un lungo, tedioso antefatto. A salvarsi, ancora una volta, è invece Mia Wasikowska, che riempie lo schermo con la sua enigmatica, impenetrabile bellezza, restituendo un po’ di quel senso di stravagante sconcerto che nel resto del film risulta preconfezionato e fasullo.

In definitiva, di questo Park elegante, infido e sostanzialmente pigro da morire, non so che farmene. Chiediamoci, invece, che fine abbiano fatto i suoi due film precedenti, da lui co-sceneggiati come tutte le altre sue regie, minori ma comunque splendidi: I’m a cyborg e Thirst sono due sbalorditive anomalie d’autore che in Italia non hanno trovato un centimetro di spazio, nemmeno tirando in ballo cyborg e vampiri, nemmeno in mercati onnivori e indiscriminati come l’home video e il satellite. Forse senza la fascetta “della vendetta” non sarà così facile, ma è incredibile che, dopo quasi dieci anni, ci si debba ancora lamentare di una cecità, della distribuzione ma anche di parte del pubblico, che nasconde una forma sibillina ma radicata di razzismo. Pensavate che fosse cambiato tutto? Non è cambiato proprio niente.

The Lone Ranger, Gore Verbinski 2013

The Lone Ranger
di Gore Verbinski, 2013

The Lone Ranger si è portato dietro il nuvolone nero della sfiga fin dal suo concepimento e non era difficile prevedere che diventasse, a posteriori, il simbolo prediletto, quando non il capro espiatorio, di una zoppicante, deludente stagione estiva com’è stata quella da poco conclusa. Ancora scottata da John Carter, la Disney ha preso una batosta ancora peggiore, vedendo cadere in battaglia il team produttivo e artistico responsabile di una saga come quella dei Pirati dei Caraibi. Il film di Verbisnki, ispirato a un personaggio nato in radio 80 anni fa, non è piaciuto quasi a nessuno e ha incassato quanto il suo budget (da metà a un terzo del necessario a mettersi in pari, circa), con un lungo strascico di polemiche e accuse reciproche tra la critica e la produzione. È un vero peccato, perché The Lone Ranger è, a modo suo, un film originale e dal cuore pulsante; certo, è tutt’altro che un’opera compiuta, è interminabile, è minato tanto dallo scarto di carisma tra Armie Hammer e Johnny Depp quanto dall’ingombrante presenza di quest’ultimo, è privo di un vero equilibrio morale e narrativo, spesso non si capisce dove voglia andare a parare, altre volte invece pare proprio totalmente fuori controllo. Ma la sua confusione nei toni, che rimbalzano di continuo tra una comicità sciocchina e un senso di funebre disperazione, fa parte della sua unicità – risultato, con tutta probabilità, dell’urto, finora rimandato, tra le esigenze di Bruckheimer e la sensibilità di Verbinski. Impossibile contare i cocci e i vetri rotti che lo schianto ha causato, ma il contrasto tra elementi cartoon (come il personaggio di Helena Bonham-Carter, tenutaria di un bordello con una gamba-fucile di legno) e quelli più tragici (tra cui un feroce massacro di nativi), indigesto al pubblico americano, rientra nel progetto, forse troppo ambizioso, sicuramente mal calcolato, di impiantare una sorta di sconsolata consapevolezza storica in un blockbuster naif per famiglie da 250 milioni di dollari. E se pure è impossibile assistere a certe sequenze, cannibalismo in testa, chiedendosi chi possa essere il vero target di questo film bizzarro e costoso, troppo infantile per un adulto e troppo violento per un bambino, Verbisnki sfoggia un senso dello spettacolo (oltre che una passione per il cinema d’avventura e, ancora una volta dopo Rango, per il western) anacronistico e a tratti davvero travolgente che culmina in un lunghissimo, incredibile inseguimento ferroviario (una sequenza che fa impallidire gran parte della concorrenza, parlando di stagione estiva) ma che non annulla la desolante malinconia dell’inquadratura finale. Forse si poteva in qualche modo annullare la sfiga, cambiare rotta, appiattire tutto e incassare. Verbisnki, la sfiga, ha deciso di cavalcarla fino all’orizzonte.

#Venezia70 – Mostra del Cinema 2013

La scorsa settimana, sono stato qualche giorno alla 70a Mostra del Cinema di Venezia, dove tra una cosa e l’altra sono riuscito a vedere una dozzina di film. Eccoli.

GRAVITY

“L’arbitro” di Paolo Zucca (Giornate degli Autori)

Come sarebbe Shaolin soccer diretto da Ciprì e Maresco? È il paragone migliore che mi viene per descrivere, quantomeno, la sequenza conclusiva (quella direttamente derivata dal corto originale) del film di Zucca, un oggetto piuttosto alieno nel cinema italiano, già a partire dalla fotografia in bianco e nero. Ogni tanto il film scivola per colpa di una sceneggiatura un po’ sciocca, qualche attore fuori posto e l’ansia di dover fare la commedia a tutti i costi, ma si fa perdonare grazie a un paio di ruoli memorabili (l’allenatore cieco di Benito Urgu, il fuoriclasse argentino di Jacopo Cullin) e soprattutto alla voglia forsennata di utilizzare tutti i mezzi tecnici che il cinema ha a disposizione: L’arbitro è girato molto meglio di gran parte della produzione italiana recente, e questa è già una mezza vittoria.

“Gravity” di Alfonso Cuaron (Fuori Concorso, Film d’Apertura)

Non si poteva scegliere un titolo migliore per aprire la Mostra del Cinema: il film di Cuarón traccia infatti una linea ideale tra le esigenze hollywoodiane (80 milioni di budget, effetti speciali, due star come Clooney e Bullock) e l’evidente attitudine autoriale di un autore come Cuarón, che ha scritto il film insieme al figlio Jonás riempiendolo delle sue ossessioni, e trovando in questa storia di sopravvivenza estrema uno dei momenti più alti della sua carriera, proseguimento ideale di Children of men. Anche qui, il virtuosismo cela sempre un interesse umano, la tecnologia spinge i limiti del possibile e del rappresentabile ma è in qualche modo “nascosta” dietro un linguaggio di drastico, ossessivo realismo. Aperto da un poderoso piano-sequenza di tredici minuti (che ridefinisce i confini del termine, la questione meriterebbe un capitolo a sé), Gravity è un film che lascia letteralmente senza fiato. Di un’intensità quasi insostenibile, è un’opera clamorosa, una piccola apocalisse spaziale che non sbaglia nulla – nemmeno il minutaggio, nemmeno il cast: per Sandra Bullock è un vero tour de force, e non è mai stata così brava. La narrazione, pur piegandosi volentieri nella seconda parte a uno sviluppo sentimentale forse meno rigoroso, non prende mai la strada più facile: erede ideale dello Zemeckis più radicale, quello di Contact e Cast Away, Cuarón porta a compimento la sintesi perfetta tra tecnologia, anima e spettacolo. Un grandissimo film.

“Gerontophilia” di Bruce LaBruce (Giornate)

Un diciottenne scopre la sua passione per gli anziani, si fa assumere come infermiere in un ospizio, dove si innamora di un ex attore, organizzandone la fuga verso l’oceano. A dispetto della carriera e della filmografia di LaBruce, il suo ultimo film, primo a rivolgersi dichiaramente a un pubblico più ampio, è tutt’altro che una provocazione fine a se stessa. Anzi, Gerontophilia (che molti hanno paragonato, non a torto, Harold & Maude) è una storia d’amore divertente, originale e di coinvolgente tenerezza, girata con mano sicura, con alcune caratterizzazioni davvero brillanti (come la fidanzata del protagonista, ossessionata dalla compilazione di una lista di donne “rivoluzionarie”) e una colonna sonora strepitosa: pezzi di Liars, Horrors, titoli di coda da applausi scroscianti su “Help the aged” dei Pulp.

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“Why don’t you play in hell?” di Sion Sono (Orizzonti)

Da una parte, un gruppo di appassionati di cinema sogna di girare il film che li renderà famosi. Dall’altra, due gang di yakuza si preparano per interrompere una tregua durata dieci anni. Un film che sembra una parodia degli yakuza eiga ma che si trasforma man mano in un trattato cinefilo, divertito ma anche piuttosto definitivo, in cui le esigenze e i sentimenti dei personaggi sono piegati alle esigenze di un lunghissimo e sanguinario massacro finale. Con l’aiuto di alcuni grandi attori come Jun Kunimura e Shinichi Tsutsumi (oltre alla splendida Fumi Nikaido) e senza prendere nulla sul serio, Sion Sono fa a pezzi i cliché del genere con un gusto dell’assurdo quasi nichilista e un travolgente senso dell’umorismo. Esilarante.

“Tracks” di John Curran (Concorso)

La mia sola, vera obiezione nei confronti del film di John Curran, ispirato alla vera storia di Robyn Davidson, giovane australiana che nel 1977 attraversò a piedi il suo paese per quasi tremila chilometri, è una certa tendenza al paesaggismo – e una colonna sonora troppo ingombrante per un film su un personaggio alla ricerca del silenzio e della solitudine. Americano trapiantato in Australia, Curran mostra un grande rispetto (che a volte si trasforma, giustamente, in timore e soggezione) per lo splendore del suo paese e l’unicità dei suoi abitanti, rischiando di risultare troppo gentile. Ma il suo film dipinge con cura e appassionata dedizione la spaventosa determinazione di Robyn, decisa a tutti i costi ad affrontare un viaggio che potrebbe ucciderla, pur di sentirsi ancora viva. Ancora una volta, è soprattutto la fenomenale, perfetta Mia Wasikowska a fare la differenza. Da citare, però, anche il sorprendente apporto di Adam Driver (Adam di Girls) a cui è affidato un ruolo di comic relief (e di interesse romantico) che gli sta a pennello.

“Nobody’s home” (“Köksüz”) di Deniz Akçay (Giornate degli Autori)

Opera prima della giovane regista e sceneggiatrice Deniz Akçay, Nobody’s home è uno dei tesori nascosti della Mostra: dramma famigliare con un approccio realista, il film è raccontato con un’imprevista leggerezza che gli permette di riflettere con freschezza e senza didascalie sulla società contemporanea turca, in particolare sul ruolo della donna – con un finale sintetico e bellissimo, di straordinaria amarezza. Il cast è decisamente all’altezza: Ahu Türkpençe, tra tutti, è un colpo di fulmine.

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“The Police Officer’s Wife” di Philip Groning (Concorso)

Tre ore secche, divise in capitoli (forse è un peccato dire quanti: fa parte del gioco), per raccontare una storia di violenza quotidiana, apparentemente ordinaria ma dalle conseguenze tragiche: quella di Philip Gröning è una sfida che spinge lo spettatore, da un lato, a immergersi in uno sguardo sull’abuso domestico che non è mai stato così spietato, intimo, analitico e glaciale, allontanandolo poi puntualmente con dei cartelli (aperti e chiusi da una lenta dissolvenza in nero) concepiti non solo con una funzione teorica o provocatoria, ma anche per destrutturare il racconto configurandolo come un enigma da decifrare e trasformando la banalità del male in un thriller implacabile da cui è quasi impossibile sfuggire. Uno dei più snervanti film europei degli ultimi anni, è un’esperienza cinematografica devastante, un film insopportabile e quindi perfettamente riuscito. A suo modo, magnifico.

“Joe” di David Gordon Green (Concorso)

Dopo la lunga parentesi comedy e il ritorno al cinema indipendente con il delizioso Prince Avalanche, David Gordon Green è tornato finalmente alla sua passione originaria per il dramma della provincia americana, e con essa ha ritrovato anche la forma degli esordi. Tratto da un libro di Larry Brown, racconto dell’amicizia tra uno stimato ex galeotto e un vitale ragazzino con un padre violento e alcolizzato (interpretato dal pazzesco attore non professionista Gary Poulter, scomparso poco dopo le riprese) Joe è un “southern” sporco, ruvido e violento che forse non rappresenterà una rivoluzione (anzi, è volutamente ed efficacemente “classico”) ma che restituisce l’immagine dura, tutt’altro che scontata, di un’America privata del mito della frontiera e abbandonata a se stessa. Tra le grandi sorprese del film, oltre alla suggestiva colonna sonora, c’è la performance misurata, perfetta di Nicolas Cage: una delle migliori della sua carriera.

“Night Moves” di Kelly Reichardt (Concorso)

Sebbene ci vogliano sei parole per raccontare la trama di questo film (tre ambientalisti vogliono distruggere una diga), trattandosi di Kelly Reichardt non ci troviamo di fronte a un semplice ecothriller – così come Meek’s cutoff non era un semplice western. Night moves vuole essere, piuttosto, una riflessione morale, figlia di Delitto e Castigo; ma senza l’incredibile regia, non resterebbe molto che un “crime gone awry” spezzato in due. Difficile lamentarsi: la Reichardt possiede un talento formidabile nel concentrarsi sui dettagli, nel raccontare per immagini, quando lascia che il film glielo permetta. Qua e là spunta qualche lezioncina troppo esplicita, ma non fa troppi danni, anche perché tutta la seconda parte è ben supportata dall’inusuale lato inquietante di Jesse Eisenberg.

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“Philomena” di Stephen Frears (Concorso)

Uno dei film più applauditi della Mostra sembra fin troppo perfetto per un Concorso veneziano: che sia il suo posto o meno, Philomena è un’opera magistrale che trova un bilanciamento prodigioso tra la risata e la lacrima (entrambe in quantità esorbitanti), tra tenerezza e indignazione, riuscendo miracolosamente a funzionare sia come riflessione amara (e impietosa, a tratti) sulla morale cattolica che come meditazione sul valore autentico della fede. Stephen Frears, dopo qualche film non troppo rilevante, ritrova la classe e la maestria dei suoi film migliori e Judi Dench, per questo ruolo, vincerà tutto quello che c’è da vincere – e se lo merita. Ma il mio cuore è tutto per Steve Coogan, che del film è sceneggiatore, produttore e autentico protagonista: un talento e un fiuto, in tutti e tre i campi, che ha pochissimi pari.

“Con il fiato sospeso” di Costanza Quatriglio (Fuori Concorso)

Tra un film e l’altro, il corto (di circa mezz’ora) diretto da Costanza Quatriglio si è rivelato una notevole sorpresa. Sorretto dall’interpretazione di Alba Rohrwacher, in una delle sue performance più intense, il film ha la sua forza soprattutto nel linguaggio: per trasmettere un messaggio di sdegno, sceglie di non limitarsi al documentario, ma di mescolare intervista e finzione, con un’indole che è insieme sperimentale e civile. Un piccolo film, ma riuscito e molto interessante.

“The Wind Rises” di Hayao Miyazaki (Concorso)

L’ultimo film di Miyazaki si apre con le immagini di un sogno, quello che guiderà tutta la vita del protagonista: nel sogno, un ingegnere italiano mostra a Jiro le sue creature volanti. Al risveglio, Jiro ha già preso una decisione: passerà la sua vita a cercare di costruire gli aerei più belli del mondo. In questo struggente melodramma, Miyazaki abbandona la magia improvvisa e la strabiliante ingenuità dei suoi ultimi film, per raccontare una storia dolorosa che sembra riflettersi nell’autobiografia; e se da una parte la vicenda è quella di un uomo che ha il coraggio di inseguire i suoi sogni, dall’altra è anche quella di un sacrificio grande come la vita, non solo nei confronti dei propri affetti ma anche della propria morale. Più complesso e stratificato di quanto appaia, colto e disperatamente nostalgico, The wind rises è l’ennesimo, probabilmente l’ultimo capolavoro di Miyazaki, e pur essendo la prima volta in cui si confronta direttamente con un pubblico adulto, il regista non ha perso la capacità di meravigliare e meravigliarsi. Non potevamo sperare in un addio più compiuto, non potremmo immaginare un film più commovente.

“Parkland” di Peter Landesman (Concorso)

Difficile comprendere cosa ci faccia in Concorso un film come Parkland: racconto corale incentrato su un pugno di personaggi che gravitano attorno all’assassinio di Kennedy, il film dell’esordiente Peter Landesman è davvero terribile, privo di qualunque personalità. Non è nemmeno una questione di patina televisiva: Parkland è di una desolante banalità, è scritto con i piedi e diretto peggio, tanto che persino i migliori del suo impressionante cast sembrano dei cani. I cartelli sui titoli di coda sono una chiosa perfetta dell’inutilità del film: veniamo a conoscenza dei destini di un gruppo di personaggi di cui però non ci è mai interessato nulla e il taglio agiografico non racconta nulla (né intende farlo) delle complessità politiche e storiche di quell’evento. L’unico elemento di interesse sarebbe la storia del filmino di Zapruder, ma il fatto che tutti i personaggi parlino e agiscano con una consapevolezza perfetta del loro ruolo nella Storia rende il tutto ancora più risibile.