La scorsa settimana, sono stato qualche giorno alla 70a Mostra del Cinema di Venezia, dove tra una cosa e l’altra sono riuscito a vedere una dozzina di film. Eccoli.
“L’arbitro” di Paolo Zucca (Giornate degli Autori)
Come sarebbe Shaolin soccer diretto da Ciprì e Maresco? È il paragone migliore che mi viene per descrivere, quantomeno, la sequenza conclusiva (quella direttamente derivata dal corto originale) del film di Zucca, un oggetto piuttosto alieno nel cinema italiano, già a partire dalla fotografia in bianco e nero. Ogni tanto il film scivola per colpa di una sceneggiatura un po’ sciocca, qualche attore fuori posto e l’ansia di dover fare la commedia a tutti i costi, ma si fa perdonare grazie a un paio di ruoli memorabili (l’allenatore cieco di Benito Urgu, il fuoriclasse argentino di Jacopo Cullin) e soprattutto alla voglia forsennata di utilizzare tutti i mezzi tecnici che il cinema ha a disposizione: L’arbitro è girato molto meglio di gran parte della produzione italiana recente, e questa è già una mezza vittoria.
“Gravity” di Alfonso Cuaron (Fuori Concorso, Film d’Apertura)
Non si poteva scegliere un titolo migliore per aprire la Mostra del Cinema: il film di Cuarón traccia infatti una linea ideale tra le esigenze hollywoodiane (80 milioni di budget, effetti speciali, due star come Clooney e Bullock) e l’evidente attitudine autoriale di un autore come Cuarón, che ha scritto il film insieme al figlio Jonás riempiendolo delle sue ossessioni, e trovando in questa storia di sopravvivenza estrema uno dei momenti più alti della sua carriera, proseguimento ideale di Children of men. Anche qui, il virtuosismo cela sempre un interesse umano, la tecnologia spinge i limiti del possibile e del rappresentabile ma è in qualche modo “nascosta” dietro un linguaggio di drastico, ossessivo realismo. Aperto da un poderoso piano-sequenza di tredici minuti (che ridefinisce i confini del termine, la questione meriterebbe un capitolo a sé), Gravity è un film che lascia letteralmente senza fiato. Di un’intensità quasi insostenibile, è un’opera clamorosa, una piccola apocalisse spaziale che non sbaglia nulla – nemmeno il minutaggio, nemmeno il cast: per Sandra Bullock è un vero tour de force, e non è mai stata così brava. La narrazione, pur piegandosi volentieri nella seconda parte a uno sviluppo sentimentale forse meno rigoroso, non prende mai la strada più facile: erede ideale dello Zemeckis più radicale, quello di Contact e Cast Away, Cuarón porta a compimento la sintesi perfetta tra tecnologia, anima e spettacolo. Un grandissimo film.
“Gerontophilia” di Bruce LaBruce (Giornate)
Un diciottenne scopre la sua passione per gli anziani, si fa assumere come infermiere in un ospizio, dove si innamora di un ex attore, organizzandone la fuga verso l’oceano. A dispetto della carriera e della filmografia di LaBruce, il suo ultimo film, primo a rivolgersi dichiaramente a un pubblico più ampio, è tutt’altro che una provocazione fine a se stessa. Anzi, Gerontophilia (che molti hanno paragonato, non a torto, Harold & Maude) è una storia d’amore divertente, originale e di coinvolgente tenerezza, girata con mano sicura, con alcune caratterizzazioni davvero brillanti (come la fidanzata del protagonista, ossessionata dalla compilazione di una lista di donne “rivoluzionarie”) e una colonna sonora strepitosa: pezzi di Liars, Horrors, titoli di coda da applausi scroscianti su “Help the aged” dei Pulp.
“Why don’t you play in hell?” di Sion Sono (Orizzonti)
Da una parte, un gruppo di appassionati di cinema sogna di girare il film che li renderà famosi. Dall’altra, due gang di yakuza si preparano per interrompere una tregua durata dieci anni. Un film che sembra una parodia degli yakuza eiga ma che si trasforma man mano in un trattato cinefilo, divertito ma anche piuttosto definitivo, in cui le esigenze e i sentimenti dei personaggi sono piegati alle esigenze di un lunghissimo e sanguinario massacro finale. Con l’aiuto di alcuni grandi attori come Jun Kunimura e Shinichi Tsutsumi (oltre alla splendida Fumi Nikaido) e senza prendere nulla sul serio, Sion Sono fa a pezzi i cliché del genere con un gusto dell’assurdo quasi nichilista e un travolgente senso dell’umorismo. Esilarante.
“Tracks” di John Curran (Concorso)
La mia sola, vera obiezione nei confronti del film di John Curran, ispirato alla vera storia di Robyn Davidson, giovane australiana che nel 1977 attraversò a piedi il suo paese per quasi tremila chilometri, è una certa tendenza al paesaggismo – e una colonna sonora troppo ingombrante per un film su un personaggio alla ricerca del silenzio e della solitudine. Americano trapiantato in Australia, Curran mostra un grande rispetto (che a volte si trasforma, giustamente, in timore e soggezione) per lo splendore del suo paese e l’unicità dei suoi abitanti, rischiando di risultare troppo gentile. Ma il suo film dipinge con cura e appassionata dedizione la spaventosa determinazione di Robyn, decisa a tutti i costi ad affrontare un viaggio che potrebbe ucciderla, pur di sentirsi ancora viva. Ancora una volta, è soprattutto la fenomenale, perfetta Mia Wasikowska a fare la differenza. Da citare, però, anche il sorprendente apporto di Adam Driver (Adam di Girls) a cui è affidato un ruolo di comic relief (e di interesse romantico) che gli sta a pennello.
“Nobody’s home” (“Köksüz”) di Deniz Akçay (Giornate degli Autori)
Opera prima della giovane regista e sceneggiatrice Deniz Akçay, Nobody’s home è uno dei tesori nascosti della Mostra: dramma famigliare con un approccio realista, il film è raccontato con un’imprevista leggerezza che gli permette di riflettere con freschezza e senza didascalie sulla società contemporanea turca, in particolare sul ruolo della donna – con un finale sintetico e bellissimo, di straordinaria amarezza. Il cast è decisamente all’altezza: Ahu Türkpençe, tra tutti, è un colpo di fulmine.
“The Police Officer’s Wife” di Philip Groning (Concorso)
Tre ore secche, divise in capitoli (forse è un peccato dire quanti: fa parte del gioco), per raccontare una storia di violenza quotidiana, apparentemente ordinaria ma dalle conseguenze tragiche: quella di Philip Gröning è una sfida che spinge lo spettatore, da un lato, a immergersi in uno sguardo sull’abuso domestico che non è mai stato così spietato, intimo, analitico e glaciale, allontanandolo poi puntualmente con dei cartelli (aperti e chiusi da una lenta dissolvenza in nero) concepiti non solo con una funzione teorica o provocatoria, ma anche per destrutturare il racconto configurandolo come un enigma da decifrare e trasformando la banalità del male in un thriller implacabile da cui è quasi impossibile sfuggire. Uno dei più snervanti film europei degli ultimi anni, è un’esperienza cinematografica devastante, un film insopportabile e quindi perfettamente riuscito. A suo modo, magnifico.
“Joe” di David Gordon Green (Concorso)
Dopo la lunga parentesi comedy e il ritorno al cinema indipendente con il delizioso Prince Avalanche, David Gordon Green è tornato finalmente alla sua passione originaria per il dramma della provincia americana, e con essa ha ritrovato anche la forma degli esordi. Tratto da un libro di Larry Brown, racconto dell’amicizia tra uno stimato ex galeotto e un vitale ragazzino con un padre violento e alcolizzato (interpretato dal pazzesco attore non professionista Gary Poulter, scomparso poco dopo le riprese) Joe è un “southern” sporco, ruvido e violento che forse non rappresenterà una rivoluzione (anzi, è volutamente ed efficacemente “classico”) ma che restituisce l’immagine dura, tutt’altro che scontata, di un’America privata del mito della frontiera e abbandonata a se stessa. Tra le grandi sorprese del film, oltre alla suggestiva colonna sonora, c’è la performance misurata, perfetta di Nicolas Cage: una delle migliori della sua carriera.
“Night Moves” di Kelly Reichardt (Concorso)
Sebbene ci vogliano sei parole per raccontare la trama di questo film (tre ambientalisti vogliono distruggere una diga), trattandosi di Kelly Reichardt non ci troviamo di fronte a un semplice ecothriller – così come Meek’s cutoff non era un semplice western. Night moves vuole essere, piuttosto, una riflessione morale, figlia di Delitto e Castigo; ma senza l’incredibile regia, non resterebbe molto che un “crime gone awry” spezzato in due. Difficile lamentarsi: la Reichardt possiede un talento formidabile nel concentrarsi sui dettagli, nel raccontare per immagini, quando lascia che il film glielo permetta. Qua e là spunta qualche lezioncina troppo esplicita, ma non fa troppi danni, anche perché tutta la seconda parte è ben supportata dall’inusuale lato inquietante di Jesse Eisenberg.
“Philomena” di Stephen Frears (Concorso)
Uno dei film più applauditi della Mostra sembra fin troppo perfetto per un Concorso veneziano: che sia il suo posto o meno, Philomena è un’opera magistrale che trova un bilanciamento prodigioso tra la risata e la lacrima (entrambe in quantità esorbitanti), tra tenerezza e indignazione, riuscendo miracolosamente a funzionare sia come riflessione amara (e impietosa, a tratti) sulla morale cattolica che come meditazione sul valore autentico della fede. Stephen Frears, dopo qualche film non troppo rilevante, ritrova la classe e la maestria dei suoi film migliori e Judi Dench, per questo ruolo, vincerà tutto quello che c’è da vincere – e se lo merita. Ma il mio cuore è tutto per Steve Coogan, che del film è sceneggiatore, produttore e autentico protagonista: un talento e un fiuto, in tutti e tre i campi, che ha pochissimi pari.
“Con il fiato sospeso” di Costanza Quatriglio (Fuori Concorso)
Tra un film e l’altro, il corto (di circa mezz’ora) diretto da Costanza Quatriglio si è rivelato una notevole sorpresa. Sorretto dall’interpretazione di Alba Rohrwacher, in una delle sue performance più intense, il film ha la sua forza soprattutto nel linguaggio: per trasmettere un messaggio di sdegno, sceglie di non limitarsi al documentario, ma di mescolare intervista e finzione, con un’indole che è insieme sperimentale e civile. Un piccolo film, ma riuscito e molto interessante.
“The Wind Rises” di Hayao Miyazaki (Concorso)
L’ultimo film di Miyazaki si apre con le immagini di un sogno, quello che guiderà tutta la vita del protagonista: nel sogno, un ingegnere italiano mostra a Jiro le sue creature volanti. Al risveglio, Jiro ha già preso una decisione: passerà la sua vita a cercare di costruire gli aerei più belli del mondo. In questo struggente melodramma, Miyazaki abbandona la magia improvvisa e la strabiliante ingenuità dei suoi ultimi film, per raccontare una storia dolorosa che sembra riflettersi nell’autobiografia; e se da una parte la vicenda è quella di un uomo che ha il coraggio di inseguire i suoi sogni, dall’altra è anche quella di un sacrificio grande come la vita, non solo nei confronti dei propri affetti ma anche della propria morale. Più complesso e stratificato di quanto appaia, colto e disperatamente nostalgico, The wind rises è l’ennesimo, probabilmente l’ultimo capolavoro di Miyazaki, e pur essendo la prima volta in cui si confronta direttamente con un pubblico adulto, il regista non ha perso la capacità di meravigliare e meravigliarsi. Non potevamo sperare in un addio più compiuto, non potremmo immaginare un film più commovente.
“Parkland” di Peter Landesman (Concorso)
Difficile comprendere cosa ci faccia in Concorso un film come Parkland: racconto corale incentrato su un pugno di personaggi che gravitano attorno all’assassinio di Kennedy, il film dell’esordiente Peter Landesman è davvero terribile, privo di qualunque personalità. Non è nemmeno una questione di patina televisiva: Parkland è di una desolante banalità, è scritto con i piedi e diretto peggio, tanto che persino i migliori del suo impressionante cast sembrano dei cani. I cartelli sui titoli di coda sono una chiosa perfetta dell’inutilità del film: veniamo a conoscenza dei destini di un gruppo di personaggi di cui però non ci è mai interessato nulla e il taglio agiografico non racconta nulla (né intende farlo) delle complessità politiche e storiche di quell’evento. L’unico elemento di interesse sarebbe la storia del filmino di Zapruder, ma il fatto che tutti i personaggi parlino e agiscano con una consapevolezza perfetta del loro ruolo nella Storia rende il tutto ancora più risibile.
“Con il fiato sospeso” personalmente l’ho trovato orribile, ma credo che sia obiettivamente un capolavoro l’altro corto proiettato insieme a quello della Quatriglio: Redemption di Gomes.
Philomena è l’unico film, finora, degno di essere rappresentato alla mostra. Gli altri hanno sceneggiature fiacche e la fine del film sembra arrivare più che altro perchè non c’è più tempo. Nicolas Cage ha fatto cose senz’altro migliori, Il cattivo tenente, solo per citarne una.
Jonas Cuaron è il figlio…
ero convinto di averlo corretto da mesi, grazie btw