The Lone Ranger
di Gore Verbinski, 2013
The Lone Ranger si è portato dietro il nuvolone nero della sfiga fin dal suo concepimento e non era difficile prevedere che diventasse, a posteriori, il simbolo prediletto, quando non il capro espiatorio, di una zoppicante, deludente stagione estiva com’è stata quella da poco conclusa. Ancora scottata da John Carter, la Disney ha preso una batosta ancora peggiore, vedendo cadere in battaglia il team produttivo e artistico responsabile di una saga come quella dei Pirati dei Caraibi. Il film di Verbisnki, ispirato a un personaggio nato in radio 80 anni fa, non è piaciuto quasi a nessuno e ha incassato quanto il suo budget (da metà a un terzo del necessario a mettersi in pari, circa), con un lungo strascico di polemiche e accuse reciproche tra la critica e la produzione. È un vero peccato, perché The Lone Ranger è, a modo suo, un film originale e dal cuore pulsante; certo, è tutt’altro che un’opera compiuta, è interminabile, è minato tanto dallo scarto di carisma tra Armie Hammer e Johnny Depp quanto dall’ingombrante presenza di quest’ultimo, è privo di un vero equilibrio morale e narrativo, spesso non si capisce dove voglia andare a parare, altre volte invece pare proprio totalmente fuori controllo. Ma la sua confusione nei toni, che rimbalzano di continuo tra una comicità sciocchina e un senso di funebre disperazione, fa parte della sua unicità – risultato, con tutta probabilità, dell’urto, finora rimandato, tra le esigenze di Bruckheimer e la sensibilità di Verbinski. Impossibile contare i cocci e i vetri rotti che lo schianto ha causato, ma il contrasto tra elementi cartoon (come il personaggio di Helena Bonham-Carter, tenutaria di un bordello con una gamba-fucile di legno) e quelli più tragici (tra cui un feroce massacro di nativi), indigesto al pubblico americano, rientra nel progetto, forse troppo ambizioso, sicuramente mal calcolato, di impiantare una sorta di sconsolata consapevolezza storica in un blockbuster naif per famiglie da 250 milioni di dollari. E se pure è impossibile assistere a certe sequenze, cannibalismo in testa, chiedendosi chi possa essere il vero target di questo film bizzarro e costoso, troppo infantile per un adulto e troppo violento per un bambino, Verbisnki sfoggia un senso dello spettacolo (oltre che una passione per il cinema d’avventura e, ancora una volta dopo Rango, per il western) anacronistico e a tratti davvero travolgente che culmina in un lunghissimo, incredibile inseguimento ferroviario (una sequenza che fa impallidire gran parte della concorrenza, parlando di stagione estiva) ma che non annulla la desolante malinconia dell’inquadratura finale. Forse si poteva in qualche modo annullare la sfiga, cambiare rotta, appiattire tutto e incassare. Verbisnki, la sfiga, ha deciso di cavalcarla fino all’orizzonte.
Contrariamente a tutte le aspettative mi è piaciuto molto, proprio per le sue varie incongruenze. Peccato sia stato cassato a priori perché è sicuramente meglio e più divertente di molti blockbuster recenti!