Frances Halladay ha 27 anni, è una ballerina, vive a New York, e presto non avrà più una casa. La sua migliore amica, Sophie, ha trovato un altro appartamento, un’altra coinquilina con cui dividerlo. Potremmo dire che Frances Ha racconta i suoi tentativi di trovare un posto dove vivere, tra Brooklyn e Washington Heights passando per Sacramento e Parigi, se non fosse che la trama e la struttura vengono meno di fronte alla stravagante libertà con cui Baumbach narra la storia della sua eroina. Ideato e scritto dal grande regista di Il calamaro e la balena e Margot at the wedding a quattro mani con la sua fenomenale protagonista Greta Gerwig (che dopo Greenberg è diventata anche la sua compagna nella vita) e costruito nelle sua grandi linee anche come una storia d’amore (platonico) in assenza, tra la protagonista e l’amica perduta, Frances Ha è uno dei film più belli di quest’anno – un vero gioiello di cinema indipendente, intelligente ed emozionante nella sua impalpabile leggerezza. Una commedia brillante e nostalgica, tenera e caustica al tempo stesso, girata in un suggestivo e sognante bianco e nero digitale che rimanda ai contrasti di Gordon Willis per la Manhattan di Woody Allen, e dotata di una grazia che la rende un oggetto piacevolmente alieno persino nel frastagliato panorama del cinema indie americano. Un film la cui apparente frivolezza, nelle situazioni e nei (perfetti, divertentissimi) dialoghi, nasconde non soltanto un acuto affresco sociale che trascende la dimensione generazionale (lo stile senza tempo sembra rifarsi alla nouvelle vague, citata esplicitamente nella splendida colonna sonora) ma anche e soprattutto uno studio sul personaggio, singolare e inconsueto. Simpatica, stralunata, sventata, sottilmente malinconica, interpretata meravigliosamente da un’attrice che è una delle più stupende sorprese degli ultimi anni, Frances è un personaggio a cui è impossibile non affezionarsi immediatamente e di cui è lecito innamorarsi perdutamente, una ragazza ancora alla ricerca di un suo posto nel mondo, di un modo di vivere la propria vita senza affrontare la paura di crescere, di un luogo dove poter smettere di volteggiare, dove appoggiare i piedi e sentirsi a casa.
Cattivissimo me 2 (Despicable Me 2), Pierre Coffin e Chris Renaud 2013
Era scontato che il sequel di Cattivissimo Me avrebbe seguito, sopra tutte le altre, una direttiva ben precisa: aumentare la dose di “minions”. I chiassosi e dispettosi aiutanti dell’ex-villain Gru sono infatti una delle più azzeccate invenzioni del cinema d’animazione contemporaneo: graficamente essenziali, minimalisti e infinitamente modificabili, i minions sono stati capaci di trasformare con una perfidia che si rifà alla tradizione dei looney toones e alle comiche del muto, un nuovo franchise divertente ma tutto sommato modesto come Cattivissimo Me in una macchina da soldi in tutto il mondo: il primo incassò 543 milioni di dollari su un budget di 69, questo secondo film è costato poco di più e veleggia già verso il miliardo. Gran parte del merito, soprattutto sui mercati internazionali, è dovuto alla loro immediatezza globale: la cattiveria, la stupidità o la follia dei “minions” si esprimono esclusivamente con la gestualità, oltre che con un idioma inventato che è un miscuglio delle lingue di mezzo mondo, e più in generale con un comportamento che non ha nulla a che fare con la razionalità del mondo adulto. I minions sono una grande trovata, una goccia di anarchia inserita in un progetto di calcolata ragioneria, ed è quindi ovvio che Cattivissimo Me 2 faccia ancora più leva su di loro, mettendoli non più ai margini delle avventure dei “veri protagonisti” e più non solo come spalle ma veramente al centro dell’intreccio, facendone le vittime di un diabolico complotto – e che il film aumenti a dismisura il minutaggio delle loro incredibili fesserie. Il risultato è sinceramente esilarante, anche se l’assoluto spasso del film quando (cioè quasi sempre) ci sono dei minions in scena rischia di rendere ancora più evidente la pochezza del contesto – che già ai tempi era arrivato in enorme ritardo su un capolavoro come Gli Incredibili. A sopperire, stavolta, interviene anche (a patto di vedere il film in lingua originale) la nuova entrata Lucy Wilde, agente schizzata, buffa e romantica che il lavoro impagabile di Kristen Wiig contribuisce a rendere tridimensionale e irresistibile.
Rush, Ron Howard 2013
In piena notte, durante la luna di miele con Niki Lauda, Marlene si sveglia e non trova il marito accanto a sé. Scende le scale e lo trova al piano di sotto, silenzioso e assorto, mentre osserva un fuoco acceso al di là di un vetro. Lo stacco sul volto di Lauda, ripreso dall’esterno, ci mostra, riflesse nel vetro, le fiamme che lo avvolgono. La scena è una delle più inventive e drammatiche di Rush (tra quelle non ambientate su una pista di Formula 1, ovviamente) ed è soltanto uno dei molti nefasti presagi di cui il film è disseminato, in una sorta di azzeramento temporale che trasforma la vita di Lauda e Hunt in quella di due fantasmi sfuggiti – per ora – alla morte. Da un lato c’è un intelligente, antipaticissimo pilota tedesco (Daniel Brühl, favoloso nel mettere in scena un Lauda sfaccettato e sgradevole, penalizzato dal doppiaggio italiano), dall’altra un inglese biondo, fascinoso e donnaiolo. In comune, Niki e James hanno un talento per i motori pagato con cara moneta: un fato tragico, riconosciuto più o meno consapevolmente. È Lauda in prima persona a introdurre la sua storia, all’inizio del film: lo fa dal presente, da narratore omnisciente; poco dopo tocca a Hunt, che racconta invece la vicenda al tempo presente. Intorno ai due piloti gira un mondo intero, incapace di modificarne lo spirito e le sorti (non a caso alle donne sono affidati ruoli ingloriosi, ai margini, eternamente in ansia davanti a un piccolo schermo) che Rush decide di ignorare, concentrandosi unicamente su Niki, James, e sulle loro gare.
Purtroppo il film non riesce a (o non vuole) far uscire i protagonisti dalla rigida opposizione caratteriale che lo script ha voluto frettolosamente inseguire nelle prime battute, senza ammettere troppe sfumature: Lauda e Hunt raccontano loro stessi con una statura eroica, quando in verità sono due personaggi di estrema semplicità, descrivibili con un pugno di aggettivi a testa. Se la sceneggiatura di Peter Morgan non fa molti sforzi in tal senso e dopo un certo punto non inventa più nulla (inserendo il pilota automatico, si direbbe di solito) è Ron Howard a dare il meglio di sé. Con l’aiuto della fotografia di Anthony Dod Mantle, usuale collaboratore di Danny Boyle, il regista ricostruisce una memorabile, terribile annata (prescindendo però dalla complessità dell’universo della Formula 1, quasi un rumore di fondo) in modo impeccabile, facendo sfoggio di soggettive e dettagli, utilizzando (con parsimonia) i materiali d’archivio, lavorando in qualche modo sulla patina ma senza spingersi mai fino al finto vintage, e soprattutto mettendo insieme un pugno di sequenze automobilistiche tese e appassionanti, che fanno perdonare lo scontato sviluppo narrativo. Quando ai personaggi è chiesto o concesso di esprimersi al di là delle proprie pulsioni, il film si rivela prevedibile e affrettato; quando invece si mette in moto e parte davvero, Rush sa essere un esempio emozionante di cinema sportivo: trascinato dal rombo dei motori, Howard riesce a restituire attraverso il linguaggio del cinema, senza troppe raffinatezze, l’istinto primordiale, sensuale a sfidare la morte.
Elysium, Neill Blomkamp 2013
Sembra una vita, ma sono passati solo quattro anni dall’uscita di District 9, un film di fantascienza su cui molti di noi hanno riposto, per anni, un sacco di speranze. Per molte buone ragioni. Era un progetto totalmente inedito, un’opera prima, basata su una sceneggiatura originale. Era un film apolide e di frontiera, prodotto da un neozelandese, diretto da un sudafricano. Non era un film da due soldi, ma i suoi 30 milioni di budget al cospetto di Hollywood parevano briciole. Era anche un film che si proponeva come tutt’altro che sciocco, una metafora dell’apartheid con gli alieni. Ma era pure un film che sapeva il fatto suo, quando si trattava di tirare le mazzate: divertente, spaventoso, qua e là un po’ deviato, strambo, mutante. La domanda giusta era: cosa farà Neill Blomkamp la prossima volta? Il sistema in sé, forse, ci spinse a farci la domanda sbagliata: cosa potrebbe fare Neill Blompkamp con il quadruplo dei soldi? La risposta è stata una di quelle che vanificano tutti i discorsi più idealistici sul talento che, quando c’è, è impossibile da adulterare con il vil denaro: Elysium è stata una delle più cocenti delusioni dell’anno. Ma la batosta è ancora più sonora proprio perché non è particolarmente mal riuscito: è soltanto un film inoffensivo, sterile, quasi insapore, con una sceneggiatura frettolosa e sgraziata, la cui ordinarietà cozza miseramente contro il discorso su classismo e rivoluzione. Quello che Blomkamp aveva mostrato in District 9 qui lo troviamo soltanto nel personaggio interpretato da Sharlito Copley, già protagonista del precedente: il suo Kruger, morto e risorto come un Anticristo sci-fi, è una specie di esaltante e violenta scheggia impazzita la cui missione non sembra tanto quella di distruggere i piani del protagonista, un Matt Damon che ci chiede con troppa vana insistenza di detestarlo, quanto quelli del film stesso, come se Kruger provenisse da un Elysium sotterraneo che si ribella all’Elysium reale ma a cui, presto o tardi, tocca soccombere.
The Way Way Back (C’era una volta un’estate), Nat Faxton & Jim Rash 2013
Nella station wagon non ci sono solo i posti dietro, ci sono anche i posti dietro dietro. In buona sostanza, il baule. Duncan ha 14 anni, è timido e silenzioso, ed è seduto dietro dietro. Vorrebbe passare l’estate con suo padre, invece si sta recando nella casa al mare del nuovo compagno della madre. Un uomo dall’aspetto banale che, da dietro il volante gli fa una domanda crudele (“Che voto ti daresti da uno a dieci?”) a cui fornisce anche una risposta, altrettanto crudele. Nat Faxton e Jim Rash, riconoscibili volti di due belle sitcom dall’alterna fortuna (Ben & Kate e Community) proseguono il percorso del loro sorprendente Oscar come migliori sceneggiatori (per Paradiso amaro) con un malinconico, tenero e divertente esordio alla regia – a dire il vero, molto più compiuto e interessante del film di Payne. Un piccolo film di coinvolgente semplicità, ma scritto con un impareggiabile talento per i dialoghi, in cui l’ambientazione del parco acquatico che non è stato rinnovato per decenni risponde tanto alle esigenze nostalgiche e in parte autobiografiche degli autori quanto all’universalità del racconto di formazione. The way way back infatti rientra nella categoria, ambita ma dalle maglie assai strette, dei film capaci di raccontare quanto possa essere terribile l’adolescenza, la sensazione di essere in balia degli eventi, messo in disparte, dietro dietro, l’angoscia di dover imparare da soli di cosa è fatto il mondo e quella di osservare la vita degli adulti, dall’esterno, con un misto di orrore e cognizione che presto toccherà anche a loro. Il film di Faxton e Rash lo fa mescolando con notevole dimestichezza (e furbizia, a buon fine) il talento comico di un cast perfetto in cui spicca un incredibile Sam Rockwell (anche i registi si ritagliano due piccoli ruoli) e gli elementi più drammatici, tenendosi però sempre a debita distanza dalle svolte patetiche, riuscendo così a risultare originale, autentico e commovente.
Nei cinema italiani dal 28 novembre 2013
Journey to the West: Conquering the Demons, Stephen Chow (e Derek Kok) 2013
Ci sono voluti cinque anni perché Stephen Chow tornasse alla regia dopo la (relativa) delusione del tenero CJ7. Per il suo ritorno, una delle più grandi star in patria (ma anche all’estero grazie a due titoli epocali come Shaolin soccer e Kung Fu Hustle) ha scelto di restare soltanto dietro la macchina da presa e tornare alle origini, dirigendo l’ennesima variazione sul tema di Journey to the West, il poema epico cinquecentesco che ha dato il vita, tra i tanti film e serie tv, a un capolavoro come il dittico A Chinese Odyssey di Jeffrey Lau (1995) di cui Chow era proprio il protagonista. Gli impressionanti numeri di questo Conquering the demons al box office cinese (è il più grande incasso del 2013) sono comprensibili: in questo affollato racconto fantastico pieno di trovate, bizzarrie, magie, combattimenti, amori e morti spietate, si respira un amore puro per il cinema d’avventura (e per la grande tradizione di Hong Kong) ma si ritrovano anche tutte le caratteristiche del cinema della superstar Chow, dal percorso di riscatto del perdente emarginato (l’imbranato ma volenteroso protagonista Tang Sanzang, qui interpretato da Wen Zhang) al suo umorismo tipicamente demenziale che va a braccetto con un esasperato romanticismo – dualità incarnata perfettamente dalla meravigliosa, magnetica e ironica Shu Qi. Fin dalla prima, folle sequenza, in cui un demone marino aggredisce un villaggio facendo fuori un’intera famiglia in pochi bocconi, Chow mette subito in chiaro uno spiccato e divertito sadismo (di cui faranno le spese soprattutto i personaggi secondari), oltre che un disinteresse totale nei confronti del pubblico “globale”, lo stesso a cui sembrava essersi rivolto con le sue ultime opere, e allo stesso modo delle loro limitanti convenzioni narrative. Complice l’espansione crescente del mercato cinese, questo è un film pensato per il pubblico locale, che è in grado di cogliere ogni sfumatura, ogni citazione della complessa mitologia che ruota attorno al “monkey king”, un’audience che è in linea con l’incontenibile surrealismo della messa in scena e che infatti ha risposto con notevole entusiasmo. Ma la verità è che il genio di Chow è in grado di attraversare, abbattere, calpestare queste differenze culturali, e che c’è un pezzo del suo Journey to the west anche per noi poveri, grigi, tristi occidentali; a patto di settare la propria mentalità su “aperto” e il proprio senso dell’umorismo su “completamente fuori di testa”, Conquering the demons è un film irresistibile, prodigioso e sinceramente esilarante.
Hunger Games: La ragazza di fuoco (The Hunger Games: Catching Fire), Francis Lawrence 2013
Tra le dovute virgolette, il secondo film della saga di Hunger Games ”soffre”, per sua stessa natura, di un vizio che è proprio delle trilogie e che abbiamo vissuto più volte, soprattutto al cinema, in particolare in quello fantastico. Le motivazioni di base, in verità, hanno ben poco di spirituale: l’episodio originario, di solito, viene realizzato senza la certezza di una continuazione, ma gli elementi autoconclusivi devono ugualmente convivere con una spinta, con una potenzialità seriale. Sempre seguendo la norma, invece, il secondo capitolo è costruito sulla sua consapevolezza di essere una “parte”. Questo è un problema, però, soltanto per chi è interessato a Catching fire e non a Hunger Games, una serie cinematografica che grazie a questo secondo, eccellente film prosegue sui binari tracciati dal primo con ferrea coerenza, ma senza risultare ripetitivo o prevedibile; Francis Lawrence, dal canto suo, è riuscito a ereditare un progetto di spaventoso successo facendolo proseguire nella direzione giusta, con mano sicura, senza protagonismi. Se la sua messa in scena è indubbiamente meno “personale” di quella di Gary Ross, il risultato è un film forse meno ambizioso e originale da un punto di vista visivo (anche perché si predilige la riproposizione di elementi già introdotti nel film dello scorso anno) ma decisamente più profondo e riflessivo. Catching fire deve, per forza di cose, mettere ai margini l’anima più action e spettacolare, ma da questa necessità ricava la capacità (e il coraggio, aggiungerei) di concentrare gran parte dei suoi sforzi sullo sviluppo e sulla crescita non solo dei personaggi ma anche del mondo in cui abitano. Dal libro, di cui è un adattamento persino più fedele del precedente, il film ha acquisito una posta in gioco enormemente più alta per l’intero universo narrativo; e sebbene sia facile vederci poco più che un’affannosa rincorsa per Mockingjay (che uscirà in due parti tra il 2014 e il 2015), nelle appassionanti e volatili due ore e mezza di Catching fire, Lawrence riesce ugualmente a restituire un drammatico senso di incombenza che si sviluppa maggiormente nei momenti di quiete. Ha la fortuna, ovviamente, di avere per le mani una delle migliori attrici in attività, non soltanto della sua generazione: Jennifer Lawrence è una complice umile e versatile, e anche stavolta affronta la prova con sbalorditiva professionalità, e mentre intorno a lei il cast di contorno continua a funzionare (in particolare la strepitosa Elizabeth Banks, il cui ruolo diventa finalmente tridimensionale) l’aggiunta, seppur secondaria, di un mostro sacro come Philip Seymour Hoffman regala (in particolare nella scena del “primo ballo”) qualche emozione in più del previsto. In definitica, Catching fire è un secondo capitolo ispirato e brillante, il segno che la saga di Hunger Games sta crescendo in parallelo ai suoi personaggi, e ovviamente al suo pubblico.