In piena notte, durante la luna di miele con Niki Lauda, Marlene si sveglia e non trova il marito accanto a sé. Scende le scale e lo trova al piano di sotto, silenzioso e assorto, mentre osserva un fuoco acceso al di là di un vetro. Lo stacco sul volto di Lauda, ripreso dall’esterno, ci mostra, riflesse nel vetro, le fiamme che lo avvolgono. La scena è una delle più inventive e drammatiche di Rush (tra quelle non ambientate su una pista di Formula 1, ovviamente) ed è soltanto uno dei molti nefasti presagi di cui il film è disseminato, in una sorta di azzeramento temporale che trasforma la vita di Lauda e Hunt in quella di due fantasmi sfuggiti – per ora – alla morte. Da un lato c’è un intelligente, antipaticissimo pilota tedesco (Daniel Brühl, favoloso nel mettere in scena un Lauda sfaccettato e sgradevole, penalizzato dal doppiaggio italiano), dall’altra un inglese biondo, fascinoso e donnaiolo. In comune, Niki e James hanno un talento per i motori pagato con cara moneta: un fato tragico, riconosciuto più o meno consapevolmente. È Lauda in prima persona a introdurre la sua storia, all’inizio del film: lo fa dal presente, da narratore omnisciente; poco dopo tocca a Hunt, che racconta invece la vicenda al tempo presente. Intorno ai due piloti gira un mondo intero, incapace di modificarne lo spirito e le sorti (non a caso alle donne sono affidati ruoli ingloriosi, ai margini, eternamente in ansia davanti a un piccolo schermo) che Rush decide di ignorare, concentrandosi unicamente su Niki, James, e sulle loro gare.
Purtroppo il film non riesce a (o non vuole) far uscire i protagonisti dalla rigida opposizione caratteriale che lo script ha voluto frettolosamente inseguire nelle prime battute, senza ammettere troppe sfumature: Lauda e Hunt raccontano loro stessi con una statura eroica, quando in verità sono due personaggi di estrema semplicità, descrivibili con un pugno di aggettivi a testa. Se la sceneggiatura di Peter Morgan non fa molti sforzi in tal senso e dopo un certo punto non inventa più nulla (inserendo il pilota automatico, si direbbe di solito) è Ron Howard a dare il meglio di sé. Con l’aiuto della fotografia di Anthony Dod Mantle, usuale collaboratore di Danny Boyle, il regista ricostruisce una memorabile, terribile annata (prescindendo però dalla complessità dell’universo della Formula 1, quasi un rumore di fondo) in modo impeccabile, facendo sfoggio di soggettive e dettagli, utilizzando (con parsimonia) i materiali d’archivio, lavorando in qualche modo sulla patina ma senza spingersi mai fino al finto vintage, e soprattutto mettendo insieme un pugno di sequenze automobilistiche tese e appassionanti, che fanno perdonare lo scontato sviluppo narrativo. Quando ai personaggi è chiesto o concesso di esprimersi al di là delle proprie pulsioni, il film si rivela prevedibile e affrettato; quando invece si mette in moto e parte davvero, Rush sa essere un esempio emozionante di cinema sportivo: trascinato dal rombo dei motori, Howard riesce a restituire attraverso il linguaggio del cinema, senza troppe raffinatezze, l’istinto primordiale, sensuale a sfidare la morte.
bel cinema, ma di sportivo, per me, ha molto molto poco….le scene di gara sono poche e mal fatte, tendenti all’epilessia
http://onironautaidiosincratico.blogspot.it/2013/09/rush-2013-di-ronald-william-ron-howard.html
Giusto per informarti, sto per copiarti spudoratamente l’header.
Per me è uno di quei film che dimostrano come si possano raccontare le favole al cinema (volpe, uva e morale comprese) http://ilviviani.blogspot.it/2013/09/il-viviani-recensioni-utilitarie-per.html