Nell’impossibilità di dedicare, come da tradizione decennale del blog, un singolo post per ciascuno dei molti film “in attesa” delle ultime settimane, ho deciso di mettere insieme una serie di titoli che forse necessitano di meno spazio. Non è una questione di qualità: qui ci sono film belli, bellissimi, deludenti, brutti e bruttissimi. Ma ho preferito mantenere il singolo post per cose meno “visibili”, raccogliendo qui undici titoli che sono già stati trattati in lungo e in largo da mezzo mondo, e sui quali c’è davvero poco da aggiungere. Sono approssimativamente in ordine sparso.
Now you see me di Louis Leterrier
La vera dote di questo caper con gli illusionisti, curioso quanto sciocchino, che prende a man bassa dalla tradizione del genere e in assenza di una sceneggiatura decente fa soprattutto leva su un buon gruppo di attori (ciascuno con il suo corredo di tic e faccette), è la coscienza della sua stessa pacchianeria. Leterrier è un regista dalle mani pesantissime, cerca di girare scene roboanti facendo girare i dolly a casaccio, mentre il plot è schiavo della sua (non proprio imprevedibile) sorpresa finale, che chiude un po’ troppo comodamente un intreccio complicato fino all’assurdo. Ma, appunto, Now you see me non si prende mai veramente sul serio (lo mostra lo stinger sui titoli di coda, che quantomeno lascia a bocca buona) e le performance del cast lo rendono godibile, con tutti i limiti del caso. Certo, chi si aspetta The Prestige potrebbe rimanere scottato e non c’è dubbio che, visto il fascino dei talenti in campo (e la produzione di Kurtzman & Orci) Now you see me sia stata un’occasione sprecata.
World War Z di Marc Forster
Mettersi ad analizzare le differenze tra il bellissimo libro di Max Brooks e il film di Marc Foster può portare fuori strada, lo sappiamo bene. Dopotutto, i due testi hanno ben poco in comune, giusto il titolo. Per il resto, World War Z è un film ordinariamente spettacolare, ben realizzato nonostante una lunghissima gestazione che ha fatto levitare il budget in modo impressionante, ma è prima di tutto un’opera vittima di un grande fraintendimento culturale: non si può realizzare un film di zombi che non faccia paura. Non è solo una questione di dettagli cruenti, di sangue o di budella, né tantomeno di zombi che corrono o che vanno lenti: a sparire del tutto è l’angoscia che il genere romeriano si porta dietro da sempre. E l’enorme potenziale di un film di questo tipo, con l’intera umanità messa di fronte alla propria estinzione, pur con l’efficacia di alcune scene di massa, viene trasformata in un film in cui un cinquantenne belloccio si sposta da una location all’altra e gli succedono delle cose, fino alla più scontata delle conclusioni.
In Trance (Trance) di Danny Boyle
Danny Boyle dalle nostre parti è un regista molto maltrattato, spesso a mio avviso ingiustamente, ma stavolta se l’è proprio cercata: In Trance è uno dei più brutti film usciti quest’anno, un thriller psicanalitico presuntuoso e totalmente implausibile, diretto con un abuso di stile sotto al quale si trova il nulla assoluto, con due star (James McAvoy e Vincent Cassel) che fanno a gara a chi recita peggio e un soggetto che vuole apparire scaltro accatastando un colpo di scena sopra l’altro e dando l’impressione di prendere lo spettatore per cretino. Terribile.
Monsters University di Dan Scanlon
Ricordiamo tutti perfettamente il momento in cui ci siamo resi conto che la Pixar non era infallibile: l’uscita di Cars 2 nel 2011. Ora che abbiamo avuto il tempo di metterci il cuore in pace, possiamo affrontare con più serenità l’idea di un sequel, anzi un prequel, di un altro dei loro capolavori. La buona notizia è che Monsters University è un film veramente divertente, dove lo staff della Pixar si può veramente sbizzarrire (in un mondo popolato di mostri, le possibilità sono infinite) sfruttando i passi da gigante fatti dalla tecnologia in una dozzina d’anni. Quella cattiva è che, al di là delle innumerevoli trovate della sceneggiatura, il film non riserva alcuna vera sorpresa, è gentile e innocuo, e non aiuta il fatto che, di questa avventura, conosciamo a menadito il seguito.
Facciamola finita (This is the end) di Evan Goldberg e Seth Rogen
Originato da un cortometraggio di parecchi anni fa in cui Seth Rogen e Jay Baruchel (amici di vecchia data anche nella vita reale) sono sopravvissuti alla fine del mondo, il film diretto dallo stesso Rogen con il sodale Goldberg è una delle più originali varianti dell’ossessione apocalittica che ha investito la cultura pop negli ultimi anni. Gli attori del cast, quasi tutti appartenenti alla cosiddetta “Apatow Mafia”, interpretano loro stessi – o meglio, si sono inventati una versione di loro stessi che si mescola con la percezione degli spettatori, attivando un corto circuito inaudito tra finzione e realtà. Il talento del cast per l’improvvisazione e la bravura di Goldberg e Rogen come dialoghisti ne fanno uno dei film più citabili dell’anno, e senza dubbio uno dei più divertenti: il meglio lo danno Jonah Hill e Danny McBride (e Michael Cera), la sequenza del massacro iniziale è una carneficina esilarante e liberatoria.
La vita di Adele di Abdellatif Kechiche
È uno dei film che più ha fatto discutere quest’anno, quasi solo per le ragioni sbagliate: racconto sensuale, tenero, doloroso di un amore che inizia con uno sguardo rubato e termina tra le lacrime e il muco, La vita di Adele racconta la banalità del quotidiano con il vigore di un poema epico. Con l’intransigenza degli autori sperimentali e un’intensità a tratti insostenibile, Kechiche sceglie un approccio ossessivo mascherato da naturalismo, sotto al quale c’è l’intenzione di essere disposti a tutto pur di trovare un lampo di verità nelle storie dei suoi personaggi, nella scoperta della propria sessualità e in quella della propria fragilità. Gira tutto a due spanne dal cuore, con lo schermo riempito dai volti enormi come pianeti. Prende tempo, va a cercare le risposte non solo nei momenti di svolta ma anche nei dettagli apparentemente marginali. È l’unico modo per raccontare tutto, non lasciare indietro niente: la delicatezza e il tormento, la gelosia e la furia, la passione e il dolore. Con questo meraviglioso, imperfetto, strabordante film, modellato sull’abbagliante Adèle Exarchopoulos, Kechiche ha trasformato l’impianto di un dramma sentimentale in un’esperienza cinematografica radicale e irripetibile.
Thor: The Dark World di Alan Taylor
Nell’ormai popolatissimo panorama del Marvel Cinematic Universe, il Thor di Kenneth Branagh è stata una delle più belle sorprese: era riuscito a evitare i rischi di un’invasione del fantastico nel mondo tecnologico di Tony Stark con romanticismo, umorismo, e Natalie Portman. Questo sequel, non avendo una vera ragione d’essere (se non quella di rimettere insieme Thor e Jane Foster) cerca in tutti i modi di non buttare tutto quanto alle ortiche trasferendo buona parte dell’azione dalla Terra allo sgargiante fantasy del regno di Asgard. Se ci riesce, lo deve soprattutto al Loki di Tom Hiddleston, che distribuisce pacchi di carisma rubando la scena a tutti – ma facendo, in realtà, più danni al film che altro: di lui, quando non c’è, si sente troppo la mancanza. Per il resto a The dark world manca una messa a fuoco che non sia l’autoironia (a dire il vero, l’elemento più funzionale del film), l’intreccio è poco stimolante (quando si riesce a interpretare un passaggio qualunque del bla bla dei dialoghi) per non parlare del cattivo (sono dovuto andare su Google per ricordarmi il suo nome) ma almeno l’ormai imperativo scontro finale riesce a inventarsi un artificio creativo per rendere meno noiosi i soliti interminabili minuti di botte.
Blue Jasmine di Woody Allen
Dopo la disastrosa debacle di To Rome with love, erano in molti a scommettere sulla fine artistica di Woody Allen. Succede ogni volta, e magari non sarà nemmeno l’ultima. Per fortuna è andata diversamente. E non pago di tornare a dirigere un bellissimo film, Allen ha stupito tutti tirando fuori la sua anima più nera: nonostante sia di fatto una commedia, dall’umorismo acuto e sprezzante indirizzato alla divisione tra le classi (con un’attenzione particolare per l’ipocrisia della borghesia arricchita sulle disgrazie altrui), Blue Jasmine è anche uno dei titoli più cupi della sua intera filmografia. Con l’aiuto di un’incredibile Cate Blanchett, di un ottimo cast di contorno e di una sceneggiatura assolutamente perfetta che utilizza in modo ingegnoso i meccanismi del flashback (in fondo la crisi di Jasmine ha anche a che fare con una trasgressione violenta della linearità del tempo), Allen racconta in modo asciutto e spietato la storia di un devastante decadimento psicologico, svelandone gradualmente le cause, e lasciando al pubblico le conclusioni in un finale di profondissima amarezza, aperto ma tutt’altro che incompiuto. La dimostrazione che Woody è ancora vivo e che i suoi artigli sono affilatissimi.
Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe di Tommy Wirkola
Nella sua Norvegia, Tommy Wirkola si era fatto notare per la capacità di giocare con il grottesco, prima in Kill Buljo (un demenziale omaggio a Tarantino) e poi in Dead snow, dove il regista mostrava anche di avere un buon talento per l’horror. Nel suo esordio americano, patrocinato da Will Ferrell e Adam McKay, non si trova purtroppo granché di quella artigianale singolarità e Hansel & Gretel finisce per essere l’ennesima stanca variazione moderna sul tema delle fiabe in cui gli unici motivi di interesse sono la fenomenale presenza scenica di Gemma Arterton e farsi lanciare addosso della roba in 3D.
Prisoners di Denis Villeneuve
Dopo aver diretto il clamoroso La donna che canta, il regista canadese si sposta nei vicini Stati Uniti per raccontare la storia di un rapimento. Costruito su un tema classico del thriller americano, rispetto alla norma Prisoners è un film che accetta molti meno compromessi, da un punto di vista morale ma anche produttivo – ne è indice la durata, che supera le due ore e mezza. Il suo più grande limite risiede proprio in questa scelta, visto che tutta la tensione accumulata nelle prime due ore di film viene mozzata da una sgraziata parte finale, capace di banalizzare il complesso percorso morale dei personaggi, in particolare lo scontro tra Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal. Tutto ciò che viene prima, comunque, non viene totalmente invalidato: Prisoners resta un film di grande atmosfera, anche grazie alla mano riconoscibilissima di Roger Deakins, uno dei pochi direttori della fotografia capaci di strapparti il cuore dal petto con un carrello in avanti. Se il film ha tanti difetti, alcuni difficili da perdonare, il suo è un lavoro davvero magistrale.
Lo Hobbit – La desolazione di Smaug di Peter Jackson
La sontuosa trilogia che Peter Jackson ha tratto dal breve libro di Tolkien reinventandolo e trasformandolo in un autentico prequel del Signore degli Anelli supera l’ostacolo del capitolo centrale con le ossa meno rotte rispetto al precedente. La desolazione di Smaug perde meno tempo a inseguire la propria coda, ha personaggi più interessanti (anche se molti “in prestito” dai film precedenti e incollati seguendo un progetto francamente difficile da digerire) e un paio di sequenze davvero spettacolari – quella con i ragni giganti, dove rivediamo finalmente Jackson alle prese con l’horror, e il virtuosistico inseguimento nelle botti – ma non riesce a eliminare la sensazione di minestra allungata senza un vero motivo che non sia l’abitudine dei fan assuefatti alla trilogia dell’Anello. È un film migliore del primo, senza dubbio, ma non è abbastanza.