Qual è il modo migliore per raccontare le contraddizioni della Cina di oggi? Jia Zhangke, uno dei più riveriti registi della sesta generazione, già premiato a Venezia per il suo bellissimo Still life, non ha alcuna intenzione di farsi imprigionare dalle etichette del cinema d’autore e dirige un film in cui si dissolvono letteralmente i confini che separano abitualmente il cinema di impegno civile dalla tradizione del genere – fin da un titolo suggestivo che rimanda volutamente a uno dei massimi capolavori del wuxiapian. Girati con una personalità spiccata che non teme mai di affiancare, a più riprese, lo stile puro che proviene dal thriller al messaggio doloroso e profondamente contemporaneo che veicolano, i quattro segmenti che compongono A touch of sin, intrecciati tra di loro con un filo a volte sottilissimo, più spesso spiazzante e davvero imprevedibile, non sono semplici episodi separati, né singoli racconti tragici e brutali, ma tasselli di un complesso e affascinante mosaico. Che rappresenta con grande ricchezza il panorama di un paese devastato dalla corruzione e dall’ingiustizia sociale, confuso dalla precarietà dei sentimenti e dalla decadenza dei valori nel nome della prevaricazione e del denaro – usato persino come arma di prepotenza in una delle scene più drammatiche del film. Che è anche un viaggio affascinante e terribile nelle cento facce della Cina odierna: dalle province rurali alle metropoli, passando per le case popolari delle periferie, Jia segue le vicende di personaggi risucchiati dalla violenza, spinti a seguire il richiamo del sangue, tra depressione, vendetta, sopravvivenza e follia. Quattro storie che finiscono per rappresentare un grande affresco, per quanto disperato e accusatorio, dei peccati di un intero paese, vittima di un’incontrollabile esplosione, che rischia di fare a brandelli gli ultimi residui di umanità.