2014

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Vi racconto una storia, ma forse ve la racconto un’altra volta

bad guy

Mi sono dato tre mesi. E adesso sono passati tre mesi. Non ci si scappa.

(Quello che segue serve più a me che a voi. Lo so. Abbiate pazienza.)

Non è mica un piano. Non ci stavo pensando da tempo. Non ero stanco, non ero stufo. Non era previsto, insomma, ma è successo. È cominciata proprio all’inizio dell’anno, quando ho pubblicato il post che mi sono inventato per festeggiare i primi dieci anni di questo blog. L’ho guardato e mi sono detto: non sarebbe, questo, un modo fantastico per chiudere tutto? Not with a whimper but a bang?

A quel punto mi sono dato tre mesi. Avevo cose da fare. Ora ho fatto le cose.

Non ci si scappa.

(A questo punto ci dovrebbe essere un flashback, no? Io, nella mia stanza da letto a Brescia, con mia madre nella stanza accanto, che apro un blog su Splinder promettendo di scrivere qualcosa, pure tre righe, su tutti i film. Perché sì, perché non mi ricordavo niente, perché mi avevano detto “fallo”, perchè mi piaceva scrivere, perché avevo bisogno di mettere nero su bianco, perché era gratis, perché era bellissimo. Ha funzionato? Ha funzionato. Non era mica una promessa fatta a qualcuno, non lo è mai stata, se non a me stesso. Voglio dire, quella promessa l’ho mantenuta per 10 anni. Sono un botto di anni. E poi?)

In questi tre mesi, appunto, ho visto cinquanta film. Secchi.

(Me lo dice un affare che mi sono aperto, sennò non mi ricordo niente, come prima.)

Sono cinquanta film che forse avrebbero meritato un post, ma di cui forse non scriverò mai. Mi correggo: non ne scriverò mai in questo modo, come ho fatto in questi dieci anni. Meglio, dài: non ne scriverò in questo posto, e non scriverò più di tutti i film che vedo. Perché? Se volete ne parliamo davanti a una birra. Offro io.

(Qui ci dovrebbe essere un montaggio veloce in cui io cresco, studio, litigo, mi laureo, cambio casa, vado a un funerale, piango, cambio casa, rido, mi sposo, cambio lavoro, faccio un sacco di roba, e intanto scrivo duemilacinquecento post. Non sarebbe patetico?)

Ho sempre trovato piuttosto ridicoli quelli che chiudono un blog con un post in cui dicono che chiudono il blog. Forse però la mia era più rabbia, perché un blog non si dovrebbe mai chiudere, e tutti quelli che leggevo e che poi hanno chiuso in questi anni, tantissimi, sono colpevoli, mi hanno privato di cose bellissime che non leggerò mai.

Ma tant’è. Oggi Memorie di un giovane cinefilo chiude baracca e sì, mi sento piuttosto ridicolo pure io. Anche perché ero partito volendo scrivere soltanto tre parole, e le tre parole erano grazie a tutti. Ringraziarvi è una figata che non mi stanca mai.

Come dici? Grazie della domanda. No, non vado da nessuna parte. A dirla tutta non cambio nemmeno casa: diciamo che voglio dare una ripitturata. Voglio mettere tutti questi vincoli in lavatrice e ripartire con un bucato fresco e pulito. Non credo – anzi, sono sicuro di non poter smettere di essere un blogger. E infatti ho un piano B. Vedremo.

“Ci vediamo dall’altra parte.”

La grande coppa del decennale: tutti i vincitori

Eccoci qui: negli ultimi sette giorni avete votato e twittato in abbondanza i vostri registi preferiti dei primi dieci anni di questo blog. Francamente mi avete tolto proprio le parole per i prossimi dieci, quindi facciamo che andiamo subito al sodo.

tarantino

Miglior regista americano

Era la categoria con più nomi, ma la gara era poca: per quantità e qualità dei film del decennale, avrei scommesso sui primi tre (cioè quattro) nomi a occhi chiusi e avrei vinto. Ciò nonostante, Tarantino ha sbaragliato la concorrenza dei fratelli Coen e di Wes Anderson. Il quintetto qui sotto stava per diventare un sestetto: infatti Darren Aronofsky ha perso il suo posto tra i primi cinque per solo due preferenze in meno rispetto a Paul Thomas Anderson. Curiosità: il peggiore in gara è stato Sam Raimi, che non ha raggiunto nemmeno l’1%. Ed ecco la Top 5:

1. Quentin Tarantino – 16%
2. Wes Anderson – 9%
3. Joel & Ethan Coen – 8%
4. Clint Eastwood – 8%
5. Paul Thomas Anderson – 6%

nolan

Miglior regista europeo

La presenza di Christopher Nolan tra i registi europei vi ha gettati un po’ in confusione: come fai a non votare Christopher Nolan? Così, il regista si è preso addirittura un quarto delle preferenze, nonostante diverse sue opere siano, a tutti gli effetti, dei film americani. Pace: i registi con opere anglofone erano comunque avvantaggiati. La gara è stata abbastanza equilibrata, ma è chiaro che film come Drive ed Eternal Sunshine hanno fatto la differenza. E vi ringrazio personalmente per aver mandato Edgar Wright sul podio. Il peggiore in gara, invece, è stato Cristian Mungiu. Ecco i primi 5:

1. Christopher Nolan 25%
2. Nicolas Winding Refn 14%
3. Edgar Wright 13%
4. Michel Gondry 10%
5. Michael Haneke 7%

park

Miglior regista asiatico

Il primo posto più combattuto della coppa è stato quello tra il più popolare regista sudcoreano e il maestro assoluto dell’animazione giapponese, due giganti. Io stesso sarei stato in crisi, ma dai e dai avete deciso di premiare Park contro Miyazaki. Dietro di loro ci sono Kim Ki-duk e Ang Lee, mentre Ahsghar Farhadi fa il sorpassone a destra e infila a sorpresa l’Iran nella Top Five. E chi l’avrebbe detto, dieci anni fa? Il peggiore in gara è stato un altro coreano, Lee Chang-dong, il che mi spinge a invitarvi a recuperare presto i film di Lee Chang-dong. Ecco i primi 5:

1. Park Chan-wook 25%
2. Hayao Miyazaki 23%
3. Kim Ki-duk 16%
4. Ang Lee 11%
5. Ahsghar Farhadi 6%

sorrentino

Miglior regista italiano

Il miglior cinema italiano degli ultimi dieci anni viene spesso identificato con Sorrentino e Garrone, diventati quasi il giano bifronte dei film italiani che vorremmo vedere, di fronte a un panorama piuttosto sconsolante. E invece mi avete sorpreso, portando al secondo posto un altro dei registi beniamini di questo blog, ovvero Paolo Virzì, che batte di sostanza Garrone dopo aver gareggiato a poca distanza per i primi giorni. Nanni Moretti fuori dal podio per tre punti percentuali. Ecco il podio con le percentuali:

1. Paolo Sorrentino 42%
2. Paolo Virzì 19%
3. Matteo Garrone 16%

lars

Miglior regista tralasciato

Qui vi siete veramente sbizzarriti: nel form libero avete indicato un botto di registi. Alcuni erano già stati indicati nelle categorie precedenti, ma nella maggior parte dei casi avete segnalato nomi meritori o interessanti, che fossero eleggibili o meno. Anche qui, nessuna gara: Lars Von Trier, con cui io personalmente non ho un buon rapporto, è stato segnalato circa dal 10% di chi ha deciso di compilare il form, a sua volta circa il 15% dei votanti totali. Ok adesso la smetto di dare i numeri: i nomi finiti sul podio li vedete qui sotto.

1. Lars von Trier
2. Aleksander Sokurov
3. Joe Wright / Sofia Coppola

Tra i tanti registi da voi citati vale la pena nominare Rian Johnson, Wong Kar-wai, Jim Jarmusch, James Cameron, Harmony Korine, Steve McQueen, Guy Ritchie, Fatih Akin, David Lynch, Robert Rodriguez, Gareth Evans, Pietro Marcello, Shinya Tsukamoto, Noah Baumbach, John Lasseter, Derek Cianfrance, Martin McDonaugh, Leos Carax, Danny Boyle, Philip Gröning, Daniele Ciprì, Fernando Meirelles, Andrew Stanton, Stephen Frears, François Ozon, Béla Tarr, Giorgos Lanthimos, Shane Carruth, Emanuele Crialese.

Ne approfitto per scusarmi per le dimenticanze: Stephen Chow, Tetsuya Nakashima, Álex de la Iglesia, e chissà quanti altri.

up

Miglior film d’animazione

Qui la parola d’ordine è stata Pixar. È piuttosto evidente la vostra preferenza: quattro dei primi cinque film sono infatti produzioni Pixar, e non saprei nemmeno come o perché darvi torto. Sorprendente invece la vostra preferenza sulla filmografia di Miyazaki: Howl è terzo, mentre Ponyo è finito ampiamente fuori dai primi cinque. Dai ragazzi, su. Anche qui, mi sono dimenticato due titoli fondamentali, Frozen e Paranorman, ma non credo che avrebbero potuto fare granché contro lo strapotere di due capolavori come Up e WALL-E. Ecco i primi cinque:

1. Up – 20%
2. WALL-E – 18%
3. Il castello errante di Howl – 12%
4. Ratatouille – 10%
5. Toy Story 3 – 8%

Bene, io qui ho finito.

È stato bellissimo. Vi ringrazio uno per uno. Vi mando un cestino di natale immaginario pieno di cuori.

Ciao raga.

(Si allontana in lacrime)

Buffy: The Vampire Slayer, Joss Whedon 1997-2003

Come hai passato lo scorso autunno? Ho guardato Buffy. E basta, più o meno.

Non c’è una vera motivazione, ma non avevo mai visto Buffy. E non ne avevo visto nemmeno un episodio, pur essendo circondato da tanti anni (offline, ma soprattutto online) da persone appassionate o addirittura ossessionate dalla serie creata da Joss Whedon, andata in onda per sette stagioni tra il 1997 e il 2003. In verità, era un’intenzione che coltivavo da anni, ma trovalo tu il tempo di guardare 144 episodi di una serie iniziata sedici e terminata più di dieci anni fa. All’inizio di ottobre ho deciso che sì, forse un po’ di tempo ce l’avevo, ho fatto partire il pilot e niente, non ho più smesso per due mesi e mezzo.

Scrivere un post su Buffy, che a tutti gli effetti è la serie tv sulla quale sono state sono spese più battute nella storia di Internet, sembra una sciocchezza inutile e fuori tempo massimo. Ma come ogni prodotto culturale, Buffy può essere visto da prospettive diverse: se alcune forse tendono a prenderlo un po’ troppo sul serio, altre rischiano di sminuirne la spaventosa influenza sulla televisione futura, l’incredibile impatto emotivo, ma prima di tutto la qualità e il livello di sperimentazione dei suoi episodi e (in alcuni casi) di suoi interi archi narrativi. In Italia, fuori dai contesti più sgamati, Buffy è ancora vista (o ricordata, per meglio dire) come una serie un po’ “cheap” su una ragazzina che va a caccia di demoni e si innamora di un vampiro.

Quindi ho pensato, massì, scriviamo quattro righe su Buffy, che male fa. In fondo, non ho fatto altro per tutto l’autunno. Prendetela come una specie di guida alla consultazione: gli spoiler sono minimi, diciamo nei limiti del ragionevole. Chissà, magari riesco a convincervi.

“You were destined to die! It was written!” “What can I say? I flunked the written.”

Una delle prime cose che ho notato, guardando la prima stagione di Buffy, è quanto non sapessi assolutamente nulla di Buffy. Sulla trama delle sette stagioni conoscevo soltanto qualche dettaglio, quelli filtrati attraverso la conoscenza condivisa – quasi tutti riguardanti il personaggio di Willow. Per il resto: tabula rasa. È sorprendente, considerata la notorietà della serie, quanto io sia stato pressoché impermeabile agli spoiler. Fortuna mia.

La prima stagione, ve lo diranno persino i più fervidi fan di Buffy, è piuttosto dimenticabile. Più precisamente, contiene quasi tutti gli episodi più brutti della serie, quelli che le stagioni successive si sono divertite a citare in continuazione (in particolare “Teacher’s pet”, dove una professoressa è una gigantesca mantide religiosa). Ma c’è un aspetto che la rende fondamentale, lo leggerete un po’ dappertutto: la stagione è utile per inquadrare con precisione quello che Buffy non sarà, ma che avrebbe potuto essere. In ogni caso dura poco, visto che Buffy partì come midseason replacement dal destino incerto: dodici episodi e passa la paura. Non si tratta di tempo buttato: è quanto basta per fare conoscenza con Buffy, Willow, Xander, Cordelia, Giles e ovviamente con Angel, fino a un season finale che, con tutte le sue ingenuità, è già un bell’antipasto di quello che ci aspetta.

“From now on, we’re gonna have a little less ritual, and a little more fun around here.”

La seconda stagione di Buffy inizia con un episodio intitolato “When she was bad”, in cui la nostra eroina mostra nel giro di 40 minuti il peggio del suo carattere, per poi ravverdersi. È un segnale dei tempi a venire: non si può più dare per scontato nulla della natura dei personaggi, anche perché la serie ribalterà puntualmente le aspettative in modo sempre più radicale. Ma il momento più significativo della prima parte della stagione è soprattutto “School hard”, dove debuttano i personaggi di Spike e Drusilla. L’episodio, più dark, violento e disturbante della media (grazie alla magnetica presenza di James Marsters e Juliet Landau), non c’entra nulla con quanto abbiamo visto finora e segna un primo, fondamentale momento di svolta per la serie. Che, a dirla tutta, rimane per parecchie settimane sospesa in un limbo, quasi indecisa su quale delle due direzioni prendere, se quella di episodi più sciocchi come “Reptile Boy” oppure del bellissimo “What’s My Line?”, dove scopriamo per la prima volta che anche i buoni possono tirare tranquillamente le cuoia. A ripensarci, è un momento eccitante, in cui Buffy sembra percorsa da una vibrazione che riguarda il suo futuro artistico.

Per nostra fortuna, Buffy prende proprio la direzione giusta. L’episodio in cui le regole del gioco cambiano per sempre è in realtà un vero e proprio two-parter, composto da “Surprise” e soprattutto “Innocence”, uno dei momenti più centrali e importanti della serie, sia per lo sviluppo narrativo del rapporto tra Buffy e Angel (che rischiava di ficcarsi in un vicolo cieco, e invece deflagra all’improvviso) sia per l’evoluzione del personaggio di Buffy – mettendo in chiaro, da un giorno all’altro, che la serie muterà seguendo di pari passo la crescita della sua eroina. E che l’innocenza, appunto. ce la siamo lasciata alle spalle in una notte di pioggia. Da questo momento in avanti, la stagione e l’intera serie cambiano totalmente rotta: il punto più alto è certamente “Passion”, un episodio tragico e inaspettato dove Whedon mette in scena per la prima volta, con spietata precisione, la sua risaputa crudeltà. E se la seconda stagione viene spesso tralasciata, perché effettivamente ancora un po’ immatura, il suo season finale, che è un altro doppio episodio (“Becoming”, diretto da Whedon come quasi tutti gli episodi migliori) è semplicemente fantastico, e le sue ripercussioni segneranno Buffy e compagnia per molto tempo.

“I think I’ve finally figured it out. What my problem is. It’s Buffy Summers.”

Quando ho finito di vedere Buffy, mi sono subito chiesto quale fosse la stagione migliore. La più bella? Probabilmente la quinta. La mia preferita, quella che riguarderei cento volte? Certamente la terza. Perché è quella in cui Whedon e i suoi autori cominciano veramente a divertirsi. Ripercorrere anche soltanto i titoli di questa stagione è elettrizzante. Al terzo episodio, intitolato “Faith, Hope & Trick”, facciamo conoscenza con un nuovo personaggio irresistibile, che cambia con la sua presenza l’intera stagione, e non solo. Poi, che so, c’è “Homecoming”, quello dello “Slayerfest”. E poi c’è “Band Candy”, in cui tutti gli adulti di Sunnydale (inclusi Giles e la mamma di Buffy) si comportano come ragazzini sotto l’effetto di una magia. E poi c’è “Lovers Walk”, in cui Spike torna e si rivela come un assassino inguaribilmente romantico. E siamo a un terzo della stagione: il meglio deve ancora venire.

Il meglio, appunto, è un episodio che non può mancare in ogni Top 10, ma facciamo pure Top 5: “The Wish”, in cui un incantesimo mostra a Cordelia come sarebbe il mondo se Buffy non fosse mai arrivata a Sunnydale, è un episodio enorme che trasforma le premesse da film di Frank Capra in un’entusiasmante distopia horror. Pur essendo uno standalone (e quindi anche uno dei più gustosi da riguardare al di fuori del flusso narrativo) è anche un episodio-cardine in cui Whedon mette bene in chiaro il ruolo della protagonista nell’universo narrativo ed è quello in cui la serie mostra per la prima volta, o meglio per la prima volta con i motori al massimo, una totale consapevolezza di sé. E poi conosciamo Anya, e non è mica una cosa da poco.

L’aspetto autoriflessivo è al centro di moltissimi episodi della stagione, come il fenomenale “The Zeppo”, che regala a Xander il ruolo di protagonista mentre sullo sfondo si svolge una specie di parodia di episodio di Buffy. Oppure “Doppelgangland”, autentico sequel di “The Wish”, dove Whedon, a posteriori, mostra di avere le idee piuttosto chiare sul futuro della sua serie e dei persoanggi, in particolare Willow. Ma anche “Earshot”, in cui Buffy legge suo malgrado nei pensieri dei suoi concittadini: la terza stagione è tutta così, sceglie di guardare dentro se stessa, con una coscienza e un’intelligenza (e un senso dell’umorismo) che, ai tempi, si trovava in pochissimi prodotti televisivi. La stagione, però, è anche quella del “big bad” di turno: la sua storia si chiude con un season finale divertente, anche se più scontato degli altri, ma questo lungo addio ai corridoi della Sunnydale High è davvero esplosivo.

“Veruca was right about something. The wolf is inside me all the time.”

Proprio come Buffy fa fatica a integrarsi al college dopo la fine delle superiori, questa nuova annata delle sue avventure non è propriamente la più soddisfacente. I problemi della quarta stagione hanno a che fare con la costruzione di un nuovo contesto, dovuto anche all’abbandono di Cordelia e di Angel, diventati protagonisti di uno spinoff, con cui Buffy si incrocerà a più riprese. Se il ruolo della prima viene ricoperto sempre di più da Anya, che si conferma uno dei personaggi più azzeccati della serie, Angel resta per molto tempo il convitato di pietra di Buffy. E la questione amorosa diventa ancora una volta un grosso ostacolo per la sua crescita. Prima con il caso di Parker, il ragazzetti dagli occhi blu che seduce e scarica la Nostra, poi con l’arrivo di Riley, un personaggio che avrà anche i suoi bei momenti ma di cui, presto o tardi, vorremo liberarci, e in fretta.

È facile pensare alla quarta stagione di Buffy come “quella con la Initiative” (un’idea che porta un nuovo tipo di spettacolarità nella serie, forse troppo ambiziosa per i mezzi anche se indubbiamente originale: è comunque il terreno su cui Whedon e un futuro sceneggiatore di Buffy, Drew Goddard, molti anni dopo hanno costruito The Cabin in the Woods), ma a me piace ricordarla soprattutto come la stagione in cui Willow prende confidenza con la propria identità. La signorina Summers resta comunque il personaggio principale della serie e la chiave per comprenderne lo sviluppo, ma il cambio della guardia sentimentale che riguarda la signorina Rosenberg, anche grazie alla strepitosa Alyson Hannigan, è a tutti gli effetti ciò che rende memorabile questa stagione, in particolare nell’arco compreso tra due episodi struggenti, “Wild at heart” e “New moon rising”.

Anche in questa annata, però, non mancano episodi memorabili che continuano il percorso “meta” della precedente. In particolare il divertentissimo “Something blue”, che ancora grazie a un incantesimo trasforma per un episodio il rapporto tra Buffy e Spike, mettendo in scena, di fatto, uno dei più clamorosi casi di fanservice dell’intera serie, oppure “Superstar”. Quest’ultimo è un episodio apparentemente sciocco, ma ha due funzioni necessarie sul lungo periodo: reintrodurre il personaggio di Jonathan e soprattutto mostrare (in modo molto più concreto che in “The wish”) come l’intero universo di Buffy possa essere tranquillamente rimodellato – ed è una delle basi fondamentali della stagione successiva. Non è finita: qui troviamo anche il migliore tra gli episodi di Halloween di Buffy (intitolato “Fear itself”), il più divertente tra quelli dedicati a Giles (“A new man”, in cui il “watcher” si ritrova nel corpo di un demone), così come il peggiore episodio, forse, di tutte le stagioni (“”Where the Wild Things Are”). Ma prima di tutto, troviamo “Hush” e “Restless”.

“Hush” è uno dei due-tre episodi più famosi della serie, è il fiore all’occhiello della quarta stagione, e si merita tutta la sua fama. Ideato da Whedon, pare, come reazione piccata a quelli che sostenevano che la forza di Buffy fosse soltanto nella brillantezza dei dialoghi (e non dico altro), è inquietante, spaventoso e divertentissimo, un vero capolavoro dark con una messa in scena degna di un vero film e due “cattivi” indimenticabili – forse il più straordinario standalone della serie, nonostante Whedon ne approfitti, anche stavolta, per far progredire i rapporti tra i personaggi. “Restless”, invece, è un season finale atipico, totalmente onirico, bizzarro e pieno di presagi: inquadra la qualità più transitoria della stagione, altalenante ma in definitiva indispensabile.

“There’s just a body, and I don’t understand why she just can’t get back in it and not be dead anymore.”

Se la quinta stagione di Buffy è veramente la più bella, non è soltanto per “The Body”. È questa la stagione dove troviamo l’equilibrio perfetto (e insuperato) tra le dinamiche di genere e una maggiore maturità delle storie, quella in cui c’è il grande mistero di Dawn (una delle scelte più ardite di Whedon, uno che non si trattiene certo di fronte alle scelte ardite) e in cui c’è Glory, la nemica più bella e spietata di Buffy. È anche l’anno in cui si alza il tiro, dove troviamo Buffy alle prese con una forza incombente che, per una volta, potrebbe non essere in grado di sconfiggere. È la stagione dei grandi sacrifici e degli amori impossibili, quella di Buffybot e di “Fool for love”, dove scopriamo finalmente tutta la verità (o quasi) sulle origini di Spike.

Certo, “The Body” fa la differenza. È difficile spiegare di cosa si tratti senza rivelarne la natura: gli “spoiler alert” forse hanno una data di scadenza minore di 14 anni (andò in onda nel febbraio 2001), ma sarebbe un peccato dire di più, perché rischierei di smorzarne l’effetto emotivo. Mi sono chiesto più volte che razza di impatto possa aver avuto su chi, in quegli anni, seguiva la serie nel modo in cui è stata concepita, dopo aver raggiunto in quattro anni quel livello di confidenza con i personaggi. Quindi non dico altro. È soltanto una delle più incredibili, devastanti ore di tv a cui assisterete, in assoluto. Hai detto niente.

“Bunnies. Bunnies. It must be bunnies!”

Nelle prime cinque stagioni di Buffy, abbiamo potuto vedere più volte come i personaggio potessero avere diverse facce, come la loro simpatia o il loro eroismo potessero trasformarsi, all’occorrenza, in modo scherzoso o minaccioso, rivelando i lati più oscuri delle loro personalità. La sesta stagione di Buffy è quella in cui tutti (tranne Tara, se vogliamo dirla tutta) danno il peggio di sé, persino un personaggio “candido” come Xander. Tanto che l’intero corso non ha nemmeno bisogno di un canonico “cattivo”, sostituito in apparenza da tre nerd (che abbiamo già conosciuto in precedenza) che non sembrano avere granché di pericoloso. La crudeltà di Whedon, ovviamente, ci fa mordere la lingua per averlo soltanto pensato.

La cupezza dell’intera stagione è introdotta fin dai primi episodi, ed è la diretta conseguenza del bellissimo season finale della precedente (“The Gift”: sarebbe un peccato non citarlo, almeno una volta) e delle scelte fatte in seguito dagli amici di Buffy. La sesta è indubbiamente la stagione più adulta di Buffy, la più funebre e forse anche la più faticosa: le sue qualità sono forse meno immediate che in stagioni come la terza o la quinta, ma ha una capacità maggiore di costruirsi e crescere in funzione del finale: dall’inaspettata e tragica chiusa di “Entropy” in poi, tutti gli spunti sollevati nei 18 episodi precedenti esplodono, portando a un quartetto entusiasmante e terribile – forse il migliore, di certo il più emozionante season finale dell’intera serie.

Eccezione meritevole è il geniale “Once more with feeling”, indubbiamente l’episodio più famoso di Buffy, tanto che forse non ha bisogno di presentazioni nemmeno per chi non ha mai visto un minuto della serie: è quello in cui i personaggi cantano come in un musical, per effetto di un incantesimo. Imitatissimo ma impareggiabile, costruito su un pugno di canzoni favolose (scritte dallo stesso Whedon, che teneva così tanto a questo episodio da “cedere” il ruolo di showrunner per scriverlo e che si sfogherà ancora con il sublime Dr. Horrible) è ancora una volta un episodio tutt’altro che “isolato” rispetto alla trama orizzontale. Ed è l’esempio definitivo di quello che Buffy riusciva a essere se stuzzicato nei punti giusti: complesso, incantevole e perfetto.

“A little tale I like to call: Buffy, Slayer of the Vampyrs.”

Inutile girarci troppo intorno: la settima stagione di Buffy è estenuante. Gran parte degli sforzi sono votati a rimediare i danni fatti durante la stagione precedente (invano, visto che se ne fanno di nuovi), per il resto la staticità e l’accumulo di personaggi secondari (non tutti soddisfacenti), oltre all’intangibilità di un “cattivo” che non ha nemmeno un corpo suo, finisce per farla rivoltare su se stessa in una sorta di auto-omaggio – evidente fin dal primo episodio, in cui il “First” si incarna in tutti i “cattivi” delle stagioni precedenti. Buffy è sempre stata, lo si è detto, una serie estremamente consapevole, sia di se stessa che del suo rapporto con l’esterno: qui la differenza la fa la presenza di Andrew ma che ha proprio questa funzione: conscia (ma diciamo pure troppo conscia) di essere arrivata alle battute finali, Buffy ha scelto di invitare in casa Summers un vero fan della serie, per vedere l’effetto che fa. A tratti è ingombrante, è vero, ma ”Storyteller” è l’episodio più divertente della stagione.

Autoriflessione a parte (inclusa quella di un altro bellissimo episodio, “Conversations with Dead People”) per il resto la settima stagione cerca di conservare il più possibile un tono austero, plumbeo e minaccioso. Non c’è tantissimo tempo per scherzare, e l’assenza di ironia (forse anche per via della maggiore assenza di Whedon, che torna per dirigere il gran finale) non aiuta: ma a patto di sopportare gli interminabili monologhi della protagonista ai danni delle sue malcapitate ospiti (una caratteristica della stagione che, da un certo punto in poi, gli autori stessi cominciano a prendere in giro) quest’ultima grande sfida di Buffy nasconde anche alcuni tra i caratteri più maturi e adulti del suo personaggio. E ancora una volta, nulla è mai scontato.

C’è il tempo, ovviamente, per infilare qualche episodio degno di nota, come “Selfless” in cui finalmente anche Anya ottiene una “origin story” degna del suo personaggio, ma la stagione si gioca tutto con ultimi cinque episodi, da quando (in “Dirty girls”) appare il Caleb di Nathan Fillion fino alle ultime battute di un finale spettacolare: dopo aver arrancato e tossicchiato per una ventina di episodi, Buffy si chiude davvero in grande stile. In fondo, i difetti dell’ultima stagione hanno un lato positivo: forse si è chiusa davvero nel momento giusto? Forse aveva dato tutto quello che poteva dare?

Non lo sapremo mai.

“Yeah, Buffy? What are we gonna do now?”

Per me, una delle cose più divertenti di quest’esperienza è stato condividerne dei frammenti in rete, soprattutto su Twitter, raccogliendo di volta in volta gli stimoli di chi ci era passato prima di me, in un modo o nell’altro. Questo è solo la riga in cui vi ringrazio per avermi fatto compagnia.

E sì, prima o poi mi deciderò a iniziare Angel. Ma quella è tutta un’altra storia.

La grande coppa del decennale

Oggi questo blog compie DIECI ANNI.

In questi dieci anni sono cambiate un sacco di cose: per cominciare non siamo più su Splinder, io non ho più 22 anni ma 32 (ed è decaduto da un pezzo il mio diritto a definirmi “giovane cinefilo”), ma sotto a tutto quello che mi accadeva in questi dieci anni correva un blog che è andato avanti quasi di vita propria e che, a parte i cambi di layout, i traslochi, i litigi, è rimasto più o meno sempre uguale a se stesso. Ne ho anche un altro, ma è partito tutto da qui. Molti affrontano il rapporto con i propri blog con una sorta di cinico distacco, io invece so di poter dire che aprire questo blog è stata una delle decisioni più azzeccate che io abbia fatto, ha contribuito a modo suo a cambiarmi la vita, anche radicalmente, un pezzo per volta. Quindi voglio festeggiare, perché essere arrivato fin qui è una figata e basta. E voglio festeggiare con voi, perché c’eravate pure voi.

Quindi ho pensato a un sondaggino nostalgico per fare il punto di questi dieci anni di cinema e dei registi che hanno cambiato la nostra vita in questo periodo assurdamente lungo. Ovviamente è un gioco e va preso come tale, tanto più che la selezione è basata solo sui miei giudizi e sulle mie visioni e, per semplicità, sulle uscite nelle sale italiane. Se il vostro regista del cuore non è presente, in fondo è presente un piccolo form e potete metterci chi vi pare.

Tra parentesi è indicato un massimo di tre titoli per ogni regista: sono questi i film che lo rendono “eleggibile”. Importante: si possono votare più nomi per categoria, le quantità massime sono indicate sopra.

Adesso tocca a voi. UPDATE: LE VOTAZIONI SONO CHIUSE.

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Condizione: almeno due film usciti in sala in Italia tra il 2004 e il 2013.

Nota: per semplicità, la categoria non contiene solo gli statunitensi, ma l’intero continente americano.

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Condizione: almeno due film usciti in sala in Italia tra il 2004 e il 2013.

Nota: pur avendo una doppia cittadinanza e lavorando perlopiù in co-produzioni anglo-americane, Christopher Nolan è nato in Inghilterra dove ha studiato e cominciato la sua carriera, per questo motivo è inserito in questa categoria.

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Condizione: due film tra il 2004 e il 2013, di cui almeno uno uscito in sala in Italia.

Nota: Bong Joon-ho e Takeshi Kitano non sono inclusi perché, incredibile a dirsi, nessun loro film è stato distribuito in sala in Italia tra il 2004 e il 2013.

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Condizione: almeno due film usciti in sala tra il 2004 e il 2013.

Menzione d’onore per il miglior regista neozelandese:
Peter Jackson (King Kong, Il signore degli anelli: Il ritorno del re)

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Qui puoi scriverci il nome che vuoi.
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Condizioni: il film dev'essere uscito in sala in Italia tra il 2004 e il 2013.

Avete votato? Cliccate sul bottoncino e dichiarate il voto ai vostri amichetti. Non siate timidi!

Per chi se lo fosse chiesto: le locandine in alto sono quelle dei dieci film che ho messo al primo posto nei miei dieci “classificoni” di fine anno.