Mumblecore

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Black Rock, Katie Aselton 2012

Black Rock
di Katie Aselton, 2012

Per riappacificare due amiche che non si parlano da anni, Sarah (Kate Bosworth) organizza una gitarella su un’isola che le tre frequentavano da ragazzine. Ma la “roccia nera” non è deserta; la loro vacanza non sarà così rilassante. La sceneggiatura di Black rock è firmata da Mark Duplass, che non è solo il marito della regista Katie Aselton (è anche una delle tre attrici) ma anche l’attore-autore capofila del cosiddetto mumblecore. La cui influenza, in questo curioso thriller, si vede soprattutto nel realismo naif (anche quando si entra in territori horror), nell’acutezza dei dialoghi semi-improvvisati nella parte iniziale (nelle prime battute, Sarah dice di avere pochi mesi di vita, pur di tenere buone le due amiche) e nella componente produttiva – stiamo parlando infatti di un film dal budget ridotto, circa 7 milioni di dollari. L’obiettivo sembra quello di costruire una sorta di inquietante metafora dei rapporti di potere tra i generi, giocando con un pizzico di sadismo con i cliché del dramma al femminile, ma l’originalità della Aselton resta sulla carta quando il film, inizialmente davvero inusuale, diventa una più ordinaria caccia al topo – con ben in mente la saggia prerogativa di poter ribaltare all’occorrenza il ruolo del gatto. Restano, comunque, tratti singolari, soprattutto l’evoluzione selvaggia del personaggio di Lou, la solita bravissima Lake Bell. Pur essendo spezzato (in modo poco elegante) in due parti distinte, Black rock ha anche una grande dote nella sua compattezza: dura appena 80 minuti, quindi non ha nemmeno il tempo di stancare.

Your Sister’s Sister, Lynn Shelton 2011

Your Sister’s Sister
di Lynn Shelton, 2011

La breve era del mumblecore è ormai finita da un pezzo, i suoi protagonisti stanno facendo carriera a Hollywood (anche Mark Duplass, che qui è il protagonista), ma a posteriori un film come Your sister’s sister, diretto dalla regista di Humpday che nel frattempo si è fatta notare anche in tv dirigendo episodi di Mad Men (“Hands and knees”) e New Girl (tra gli altri, lo stupendo “Injured” è opera sua), mostra che il cinema americano può trarre un insegnamento dal metodo di un cinema super indipendente. Con un impianto ridotto all’osso (il film ha solo tre personaggi ed è quasi interamente ambientato in una casa nel bosco), girato in meno di due settimane e costato una miseria (circa 125 mila dollari), il film di Lynn Shelton è una delle migliori, più inusuali commedie romantiche americane degli ultimi tempi: un originale triangolo di segreti, bugie, sentimenti nascosti e madornali errori, sostenuto non solo dai tre splendidi attori (Emily Blunt è sempre una meraviglia, Rosemarie DeWitt sostituisce degnamente Rachel Weisz per la quale era stato scritto il ruolo) ma sulla sceneggiatura impeccabile della stessa Shelton, che gioca in modo singolare e brillante con il conformismo del genere. A impreziosire il film c’è poi il metodo della Shelton, che richiama le sue origini, quello di lasciare a briglia sciolta l’improvvisazione degli attori: una scelta rischiosa (don’t try this at home!) ma che funziona alla perfezione, dando al film una sensazione di genuinità che non ha prezzo.

Purtroppo il film, essendo appunto una commedia originale e intelligente con tre bravissimi attori, non è mai uscito in Italia. Potete rivarvi a pochi euro con il dvd britannico.

Safety Not Guaranteed, Colin Trevorrow 2012

Safety Not Guaranteed
di Colin Trevorrow, 2012

“What makes you think there’s something wrong with him?”
“Because he thinks he can go back in time.”
“Was there something wrong with Einstein or David Bowie?”

Un film che sceglie così bene i suoi protagonisti parte sicuramente avvantaggiato: la favolosa Aubrey Plaza è uno dei punti di forza della sublime serie tv Parks and Recreation ed è una gioia, a prescindere, vederla guidare un film, sporcando in parte il suo noto, cinico aplomb con un’inattesa dolcezza. Accanto a lei ci sono Jake Johnson (il suo Nick Miller in New Girl è una delle più belle rivelazioni delle comedy degli ultimi anni e tra i migliori personaggi attualmente in tv) e Mark Duplass, che non è più solo uno degli inventori, per così dire, del “mumblecore” insieme al fratello Jay, ma ormai una star in ascesa, carismatica e capace. E ci sono proprio i Duplass dietro alla produzione di questo film costato una miseria (non si arriva al milione di dollari), prima opera di finzione di Trevorrow e, soprattutto, brillante esordio cinematografico dello sceneggiatore Derek Connolly. La tendenza con cui il film è prodotto e realizzato sembra ricalcare quella presente, in diversi casi, nel recente cinema indipendente americano: l’universo a cui fa riferimento è infatti quello del genere, in particolare della fantascienza (un giornalista e due stagisti partono alla ricerca di un uomo che sostiene in un annuncio su un giornale di poter viaggiare nel tempo) ma il modus operandi è del tutto distante, e si rifà ancora una volta alla leggerezza intimista del cinema indie, su cui Plaza e Johnson lanciano piccoli fuochi di feroce ironia. In ogni caso, Trevorrow non si accontenta delle soluzioni più semplici: il viaggio, iniziato come uno scherzo, diventa presto per i protagonisti un’esplorazione profonda del loro passato, dei loro obiettivi e dei loro fantasmi. E alla fine, grazie al suo sapiente equilibrio tra delicatezza e sagacia, tra l’eccezionalità della commedia e la quotidianità del dramma, Safety not guaranteed si rivela un delizioso piccolo film, pieno di inventiva e di speranza, sulla ricerca del proprio posto nel mondo.

Jeff, Who Lives at Home, Mark e Jay Duplass 2011

Jeff, Who Lives at Home
di Mark e Jay Duplass, 2011

Jeff ha superato i trent’anni ma vive ancora nello scantinato della madre. Non lavora, fuma il bong, guarda le televendite e ha una verace passione per Signs, di cui condivide l’esasperato fatalismo. Pat è il manager di un ristorante, sposato e cieco alle esigenze della moglie: nonostante stiano mettendo via i risparmi per comprare una casa, a colazione le presenta la sua nuova Porsche parcheggiata nel vialetto. Jeff e Pat sono fratelli, anche se non si parlano mai. Anche Mark e Jay Duplass sono fratelli, ma lavorano insieme: sono stati tra i protagonisti del mumblecore, più che un movimento un’etichetta volta a semplificare una pulsione produttiva presente nel cinema americano indipendente lo scorso decennio, di cui vediamo in qualche modo le conseguenze nelle carriere di Greta Gerwig, Lynn Shelton, ma anche di Lena Dunham e dello stesso Mark come attore. L’inevitabile evoluzione commerciale dei due registi non ne ha però compromesso il talento né ha intaccato la semplicità del loro modo di raccontare: come e meglio che in Cyrus, i Duplass utilizzano attori noti (qui Jason Segel, Ed Helms e Susan Sarandon) per parlare di avvenimenti ordinari e sentimenti convenzionali, facendo però un passo in più, ovvero dando loro un respiro epico. Partendo da uno spunto cinefilo quantomeno peculiare (la passione di Jeff per il film di Shyamalan), da un’aderenza alle unità aristoteliche e da un’opposizione trasparente (quella tra la fiducia nel destino di Jeff e lo scetticismo di Pat), il film racconta una trasformazione della banalità in eccezionalità ma senza mai allontanarsi dall’immediatezza con cui sanno raccontare i personaggi, anche in rapporto alla realtà del tessuto urbano (che conoscono bene: qui siamo a Baton Rouge, i due registi sono di New Orleans). Il risultato abbraccia una visione del mondo entusiastica e forse un po’ naïf in cui la volontà è in grado di mutare la prosaicità del mondo: per fortuna il tutto è realizzato con senso della misura (il film non arriva all’ora e mezza di durata), con un’ironia garbata e irresistibile, una messa in scena intelligente e originale, lontana dai vezzi più amatoriali, e ovviamente un impagabile trio di attori. Sette anni dopo The Puffy Chair, per la carriera dei Duplass non potevamo sperare di meglio.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

Tiny Furniture, Lena Dunham 2010

Tiny Furniture
di Lena Dunham, 2010

“My horrible secret is that I hate foreign films”

Sentiremo sempre più spesso parlare di Lena Dunham: la 25enne newyorkese è infatti l’autrice, regista e interprete di Girls, serie co-prodotta da Judd Apatow che andrà in onda su HBO a partire dal prossimo aprile. Ma la sua carriera è iniziata con questo piccolo e applaudito film presentato nel 2010 al South by Southwest, dove ha vinto il premio come miglior lungometraggio narrativo. Una vera e propria istantanea autobiografica dell’autrice: per confessare lo stallo emotivo e professionale seguito alla fine degli studi all’Oberlin College, la Dunham mette in scena una versione romanzata ma terribilmente sincera della propria vita, usando la madre (che è davvero una nota fotografa a New York) e la sorella nella parte di loro stesse. Le ossessioni e i patemi sono quelli di una generazione viziata che affronta per la prima volta il vuoto che si cela dietro la cultura velleitaria in cui è stata coccolata, ma la Dunham riesce a superare il potenziale più irritante dell’autoreferenzialità da “first world problems” con un umorismo sottile e imbevuto di citazioni, colto e consapevole della propria arguzia ma spesso ugualmente irresistibile, sopperendo ai tratti più snob con una rigida e intransigente autocritica. Quello che colpisce di più è infatti il modo spietato con cui la Dunham guarda e racconta il proprio senso di inadeguatezza, psicologico ma anche fisico, puntandosi addosso la macchina da presa senza troppi pudori – ma anche tutti i personaggi secondari (soprattutto la Charlotte di Jemima Kirke) sono davvero centrati, rappresentati con un misto di affetto, impotenza e cinismo. Leggerissimo e impalpabile, Tiny Forniture è un film che di fatto non va e non vuole andare da nessuna parte, ma se dalla distanza sembra seguire i dettami improvvisati del mumblecore, nasconde in verità una notevole precisione di messa in scena, un’innata predisposizione per i dialoghi e per il disegno dei personaggi. Se ne tenga a distanza chi ha un’idiosincrasia per il cinema americano cosiddetto indie, di cui sembra possedere tutte quante le caratteristiche; tutti gli altri troveranno nell’esordio di Lena Dunham il seme di un gran bel talento, sicuramente da coltivare. In ogni caso, come dicevo, ne sentiremo parlare sempre più spesso.

Negli states il film è uscito in dvd niente meno che nella Criterion Collection. L’edizione britannica (Regione 2) arriva invece il prossimo maggio.

Nelle nostre sale? Non fatemi ridere.

Cyrus, Jay e Mark Duplass 2010

Cyrus
di Jay e Mark Duplass, 2010

Come ho scritto dall’altra parte, aspettavo i Duplass al varco, ma con una solida fiducia: tra gli artefici del mumblecore sspesso citato su questo blog, i due fratelli di New Orleans sono quelli che hanno mostrato in passato (Mark anche come interprete) una maggior dimestichezza nell’utilizzare (e ribaltare, all’occorrenza) i meccanismi e i linguaggi della commedia. E in Cyrus, loro prima produzione “importante” (sette milioni di budget, patricinio di Ridley e Tony Scott), i Duplass sono riusciti a trasferire nei corpi di tre star come Jonah Hill, John C. Reilly e Marisa Tomei la freschezza che ha dato loro notorietà all’interno dei festival di cinema indipendente.

Il tratto più distintivo, al di là dello stile naturalistico della messa in scena, sembra essere la bravura nel raccontare una storia che si regge soprattutto su dinamiche quotidiane e “banali”, su rapporti tra i personaggi che possono sì giocare scaltramente con riconoscibili ingranaggi ma che non si fanno mai divorare da essi. In tal senso il film è di un’asciuttezza atipica sia nella narrazione che nella messa in scena (basti pensare a come si conclude, negando il gusto per la chiusa ad effetto o per la sagacia fine a se stessa, rivolgendosi invece a una realtà dove il lieto fine esiste), ma non si pensi a un’opera improvvisata o dilettantistica: i Duplass sanno il fatto loro, il film è scritto in modo intelligente e, pur non puntando troppo in alto, nella sua metodica calma riesce a essere divertente e commovente senza apparire artificioso.

Il più grande merito di Cyrus è però quello di aver puntato le luci e di aver scommesso tutto su Jonah Hill che, dopo cinque anni passati alla corte di Judd Apatow, con questa performance sottile, misurata, perfida ma profondamente umana, mostra (non è la prima volta, ma in modo definitivo) la sua caratura, tanto da riuscire a mettere in ombra un pezzo grosso come John C. Reilly. Se tutti lo sapessero dirigere così.

Greenberg, Noah Baumbach 2010

Greenberg
di Noah Baumbach, 2010

Ci sono film che si fanno amare senza sforzi, ce ne sono altri invece che fanno di tutto per essere amati: a volte ci riescono, altre no. Non è proprio il caso di Greenberg, ultimo lavoro di uno degli autori più interessanti del cinema indipendente americano, già regista del commovente Il calamaro e la balena, che qui porta alle estreme conseguenze ciò che aveva già abbozzato coralmente nel bellissimo (e spesso sottostimato) Margot at the wedding, il ritratto a tutto tondo di un personaggio "nevrotico", volutamente sgradevole, a meno, è ovvio, di riuscire a empatizzare con lui.

Una doppia sfida, dal momento che il ruolo di Greenberg è affidato a uno dei volti più noti della commedia (anche demenziale) americana, Ben Stiller, che questa volta si immerge in un personaggio dalla portata decisamente più drammatica del solito e in un film che rispetta in tutto e per tutto i canoni del cinema indie (in primis l’importanza della bellissima colonna sonora curata da James Murphy). Non senza un’ironia caustica, senza dubbio: ma quella dell’attore newyorkese è un’interpretazione più seria e dolorosa di quanto l’impianto narrativo del film non faccia credere. La sua è una sfida del tutto riuscita, Stiller riesce a trasmettere alla perfezione l’identità fragilissima del suo personaggio, ma quella di Baumbach?

Quello della difficoltà dello spettatore di trovare una connessione con il personaggio, come hanno fatto notare anche diversi recensori americani, è un rischio che Baumbach affronta di petto, con la stessa sfrontata libertà dei suoi film precedenti: a lui interessano poco le reazioni degli spettatori, a lui interessano i suoi personaggi, le loro fobie e le loro crisi, la paura profonda che sia sempre troppo tardi, l’anima bipolare di una generazione che guarda al passato trovando solo scelte sbagliate e ne paga le conseguenze, l’esaurimento sempre nascosto dietro l’angolo, i tentativi a vuoto e quelli che vanno a segno. Baumbach non ha paura di essere sgradevole perché conosce bene le sue nevrosi e non ha intenzione di prendere la strada più facile.

Tutto ciò rende Greenberg un film decisamente riuscito, senza dubbio molto intelligente (la sceneggiatura perfetta è dello stesso Baumbach e della moglie Jennifer Jason Leigh, anche nel cast in un ruolo secondario), ma, allo stesso tempo, altrettanto difficile da amare. Anche un’esperienza sofferta, a tratti, ma senza dubbio dà le sue soddisfazioni – ed è il genere di cinema americano che sarei quasi tentato di promuovere anche a prescindere dai risultati. Ciò che si ama, invece, senza alcun freno, è Greta Gerwig, ex musa del cinema mumblecore: la sua Florence è imperfetta e impulsiva, e l’attrice è diretta da Baumbach con misto di grazia e spietata franchezza che lascia spesso persino interdetti. È già una delle migliori attrici americane della sua generazione.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana. Chi sa, parli.

Friday Prejudice #223

[i film so piezz'e mumblecore]


  
Ed ecco il nuovo episodietto e mezzo di Pregiudizi, signora.

Medicine for melancholy, Barry Jenkins 2008

Medicine for melancholy
di Barry Jenkins, 2008

Se si ha familiarità con il Daily Show, talk show condotto da Jon Stewart su Comedy Central e vera punta di diamante dell’intrattenimento satirico statunitense, farà un certo effetto ritrovare in questo film Wyatt Cenac, tra i più divertenti e talentuosi "corrispondenti" di Stewart, in un ruolo non propriamente comico – nonostante faccia strada tra le pieghe.

In realtà, il film di Jenkins ha molto da dire a prescindere da questa curiosità, che è in fondo solo il motivo che mi ha spinto a recuperarlo. E per quanto sia facile, dalla distanza, inserirlo nella tradizione del mumblecore, il super-indipendente Medicine for Melancholy condivide al massimo l’ambigua fascinazione per il tessuto urbano vista in Search for a midnight kiss, ma ha in realtà intenti del tutto differenti, più profondi e ambiziosi, a prescindere dai risultati. E nel suo cercare una mezza via tra una riflessione sulla questione razziale e una storia d’amore che si svolge narrativamente "al contrario", trova uno strano, difficile, intimo equilibrio. Che l’interpretazione perfetta di Cenac e dell’incredibilmente bella Tracey Heggins contribuiscono ad arricchire.

Jenkins dà voce meglio alle immagini che alle parole, senza dubbio, al volto sonnacchioso di un’addormentata e sorniona San Francisco domenicale: e si finisce per trovarla lì, negli angoli della città, nei musei apparsi dal nulla e in discoteca, per le strade percorse in bici, contro la luce o tra le ombre, tra le pieghe delle lenzuola in appartamenti troppo grandi o troppo piccoli, alla ricerca di un posto in cui abbia senso essere, la vera medicina per la malinconia dei suoi personaggi.

Alexander the Last, Joe Swanberg 2009

Alexander the Last
di Joe Swanberg, 2009

Se ne parla sempre di meno, non solo da queste parti, ma il mumblecore è ancora vivo. Forse ancora per poco: spinti probabilmente dal successo di Humpday e di Baghead, i fratelli Duplass hanno infatti da poco girato Cyrus, proiettato già al Sundance di quest'anno e presto al SXSW, che con il suo cast (Jonah Hill, John C. Reilly, Catherine Keener e Marisa Tomei) ha tutte le carte per mettere dopo cinque anni un punto alla fine di questa strana parentesi produttiva del cinema super-indipendente americano.

Oppure no? Nel frattempo infatti un film come Alexander the Last sembra quasi la riconferma, al contrario, di una vitalità che non sembra affatto aver intaccato il sistema con cui questi film vengono prodotti e girati. Joe Swanberg, uno dei primatisti di questo "movimento", tra altissime virgolette, già regista del curioso Hannah takes the stairs, non sembra interessato a scalfire il "metodo mumblecore" – anch'esso tra virgolette. Attese, silenzi, linguaggio cinematografico scarnificato, logorrea e improvvisazione, musica intradiegetica accuratamente scelta, pochissime concessioni ai ritmi del cinema odierno, moltissime quelle autoriflessive.

In un certo senso, fa bene: anche grazie al cast, con la riconferma dell'ottima Jess Weixler già protagonista di Teeth, Alexander the Last è probabilmente il suo film migliore*, e riesce a trasmettere ancora nel 2009 quell'affascinante mistura tra una schietta e quasi frastornante sincerità e una scaltra intelligenza produttiva (soprattutto nel saper parlare a una generazione di venti-trentenni forse in minoranza numerica ma fortemente incisivi sul mercato del cinema indipendente, soprattutto dei festival), che caratterizzava i primi film di registi come Bujalski, Katz, e degli stessi Swanberg e Duplass.

E dà l'impressione che, se da una parte si può andare nella direzione di un'applicazione di questo sistema a un cinema di più largo consumo, non ci sia ragione per rinunciare alle proprie ossessioni, e con esse alla propria nicchia, per esempio con un piccolo film che, davvero con un niente, con l'arma dell'ironia e dell'autoreferenzialità e senza alzare troppo le ambizioni, con la coscienza dei propri limiti ma con dialoghi che vanno dritti al punto come frecce appuntite, riesce a dire delle cose profondamente vere sulla civiltà urbana e sui rapporti umani.

Scordatevi un'uscita italiana: l'unico film mumblecore ad uscire sarà Humpday, distribuito nei prossimi mesi con un titolo che preferisco non ripetere.

*ma di Nights and weekends, che ancora mi manca, si leggono buone cose.

Humpday, Lynn Shelton 2009

Humpday
di Lynn Shelton, 2009

Non so per quanto ancora durerà la moda del mumblecore* nel cinema indipendente statunitense anche perché, se le star del movimento come Mark Duplass e Greta Gerwig hanno cominciato a espandere i loro confini (per dire, saranno entrambi in Greenberg di Noah Baumbach, la seconda come co-protagonista accanto a Ben Stiller), gli stessi film più rappresentativi di questo modo di fare cinema sono decisamente "cresciuti". Questo film, presentato alla Quinzaine di Cannes dopo essere stato a Sundance 2009 (quindi ne parliamo comunque troppo tardi) dove ha vinto un premio speciale della giuria, è un buon esempio.

Humpday è un film meno ingenuo di alcuni suoi "precedenti" e molto più maturo di quanto il suo soggetto voglia farci credere, oltre che palesemente più "pensato" – anche in relazione al contesto in cui è stato prodotto. Estremizzazione del buddy movie che contiene infatti al suo interno (come già faceva Baghead) anche una sonora dose di autoironia nei confronti del circuito che ha lanciato la moda stessa, ha come protagonista una coppia di amici, dichiaratamente etero, che decide di girare un porno gay indipendente in una stanza d’albergo per un festival a tema chiamato Humpfest. Uno soltanto perché non ha mai concluso niente nella vita, l’altro perché vuole dimostrare (al suo amico e soprattutto a se stesso) di non essersi "seduto" con il matrimonio. Tutto lì. Oppure no?

Il film è sceneggiato e diretto da Lynn Shelton, che si ritaglia un piccolo ruolo, e che mostra un talento notevole nell’uno e nell’altro compito: caratterizzato da dialoghi sagaci e da una costruzione narrativa tesa e in crescendo che sfocia (senza sfociare) nella memorabile sequenza conclusiva, con una soluzione finale osservata con malcelata malinconia e non senza impietoso sarcasmo, Humpday non è solo uno spasso indicibile ma ha il pregio di andare a guardare apertamente e con insistenza dietro le tendine del quotidiano. Scavando con le unghiette dentro ossessioni borghesi, senza risparmiare però anche piccole ipocrisie della cultura alternativa.

Ma Humpday non sarebbe la stessa cosa senza le performance perfette dei due protagonisti – il già citato habituè del mumblecore Mark Duplass e Joshua Leonard, niente meno che il Josh di The Blair Witch Project.

Il film non sembra avere distribuzione italiana, ma i diritti dovrebbero essere nelle mani della Archibald Enterprise Film. Speriamo che ne facciano buon uso.

*post precedenti: Quiet City, Hannah takes the stairs, In search of a midnight kiss, Baghead.

The house of the devil, Ti West 2009

The house of the devil
di Ti West, 2009

Quando un film prende esplicitamente la strada dell’omaggio cinefilo, è inevitabile che si passi attraverso una fase in cui ci si domanda come e quanto il film riesca a riprodurre o a far riaffiorare lo spirito di un determinato tipo di cinema. Dopo ciò, è ovvio, bisognerebbe andare anche a vedere se il film riesca effettivamente a funzionare al di là del gioco citazionista, anche del più filologico e/o appassionato.

In tal senso, The house of the devil è una gran bella sorpresa, e lo è su entrambi i fronti: osannato da alcuni blog americani come uno dei migliori horror dell’anno (o addirittura il miglior) ma sostanzialmente apprezzato anche dalla critica più "tradizionale", il terzo film di Ti West, passato al vaglio del video-on-demand per poi trovare una distribuzione nelle sale americane in occasione di Halloween, è tutte e due le cose. Prima di tutto, è un film che riproduce in modo perfetto, dalla fotografia alle musiche, dai titoli alla struttura, la sensazione palpabile di un horror girato negli anni ’80 (oltre che ambientato negli anni ’80, per rendere tutto ancora più chiaro)

Che l’interesse del progetto vada in questa direzione lo dimostra anche la scelta di girare in 16mm invece che lasciare più facilmente alla post-produzione il lavoro di riproduzione della "patina" di quegli anni. Ma pur essendo un film che sembra nato appunto per far gongolare gli appassionati del genere, The house of the devil è molto altro – è un horror scaltro e ambizioso, quasi "intellettuale" eppure sinceramente "scary", un cupo incubo satanista come non se ne fanno più e girato come nessuno oserebbe più fare: rimandando allo sfinimento il "succo" della questione, montando il senso d’angoscia fino all’inevitabile doccia di sangue.

Il film è infatti tripartito: nella prima mezz’ora non succede assolutamente nulla, tutto è giocato su accenni musicali e "canoni" visivi e sonori (o entrambi: il telefono pubblico che squilla). A mezz’ora c’è una prima esplosione di violenza, improvvisa quanto annunciata, che rimane isolata ma che permette di alzare il tiro: da quel momento in poi ogni minimo dettaglio può diventare, e diventa, un tangibile presagio di morte. Per la catartica mezz’ora finale, con una chiusa beffarda in linea con i classici, bisogna aspettare più di un’ora.

Un gran film, a tutti gli effetti – anche grazie a un gran lavoro sul cast: i due padroni di casa Tom Noonan e Mary Woronov sono una garanzia, e c’è anche la stupenda Greta Gerwig, musa del cinema mumblecore. Ma il grosso del lavoro se lo accolla la semi-esordiente, meravigliosa, protagonista: Jocelin Donahue.

Link: Nanni Cobretti su I 400 Calci, Hunter Stephenson su Slashfilm, Metacritic.

Baghead, Jay e Mark Duplass 2008

Baghead
di Jay e Mark Duplass, 2008

Torniamo a parlare di mumblecore*. Cosa curiosa, il genere, se così vogliamo chiamarlo, esiste da pochissimi anni eppure già affronta l’autoriflessività. Con questo film: dopo aver assistito proprio alla proiezione + dibattito di un ridicolo film mumblecore intitolato We are naked in un festival, i due protagonisti decidono di essere in grado anche loro di fare una roba simile, e si ritirano insieme a due ragazze in un cottage fuori Los Angeles per scriverlo e "sfondare". Decidono che il film sarà un horror con dei tizi con sacchetti di carta sulla testa, ma si distraggono subito: A ama B, ma B ama C, e anche D ama C. Nessuno ama A. Finché Baghead non diventa, appunto, un horror con dei tizi con sacchetti di carta sulla testa.

Forse era un po’ presto per lanciarsi in una cosetta così autoreferenziale, ma chi se ne frega: i fratelli Duplass (già registi dell’antesignano The puffy chair, 2005) hanno talento da vendere, e con quattro soldi e le solite quattro facce confezionano un filmetto delizioso, perché funziona in modo eccellente su tutti i livelli. Come commedia sentimentale (e buddy movie) sui generis, come horror – al di là di ogni rosea aspettativa – e pure come trattatello autoironico che mette in guardia sia il "movimento" sia gli spettatori. Una cosa tipo: non prendeteci troppo sul serio, ma nemmeno cercate di imitarci. Perché, cosa vi credete, siamo più bravi di voi. Ed è vero.

L’onnipresente Greta Gerwig, al minuto 12 rutta, al minuto 22 vomita, al minuto 32 fa vedere le tette. Se non è amore, questo.

*post precedenti: Quiet City, Hannah takes the stairs, In search for a midnight kiss.

In search for a midnight kiss, Alex Holdridge 2007

In search of a midnight kiss
di Alex Holdridge, 2007

Trovatisi di fronte a In search of a midnight kiss, capolista del movimento mumblecore, in molti hanno tirato in ballo confronti con Clerks. Le ragioni sono molteplici: il budget approssimativamente simile (la cifra stimata, assolutamente ridicola, è di 25 mila dollari), la scelta del bianco e nero, e soprattutto alcune situazioni particolarmente colorite e gli affilatissimi dialoghi messi in bocca a Sara Simmonds e al comprimario Brian McGuire.

Ma fermarsi a un "nuovo Kevin Smith" sarebbe limitante. Perché quello che In search of a midnight kiss riesce a fare, con quattro soldi e "tra amici" (divertente vedere le interviste in cui la Simmonds e il co-protagonista Scoot McNairy rispondono a occhi sgranati a giornalisti che chiedono di "provini" e "selezioni" per il ruolo), è molto di più: rivedere completamente l’immaginario collettivo legato al downtown di Los Angeles, tanto da rendere la città quasi irriconoscibile.

Fotografata nello splendore della Sony HVR-Z1 da Robert Murphy, la Città degli Angeli è la vera protagonista di una ballata cinica e a suo modo romanticissima, fatta di strade attraversate, posti dove fermarsi, luoghi dove innamorarsi e poi dimenticarsi, in una tiepida e lunga giornata di fine anno. Mentre nelle case si consuma l’inganno e il mistero, si trovano fievoli catarsi per l’impossibilità di amarsi fino in fondo, è la città con le sue luci e le sue ombre l’unica testimone definiva di un amore che nasce, e di un amore che muore.

Ma in Midnight kiss, sebbene il suo fascino immediato sia portato dalla splendida fotografia e dalla sceneggiatura divertita e divertente, irriverente e logorroica, c’è anche un personaggio femminile, la Vivian di Sara Simmonds, indimenticabile nel suo percorso da Insopportabile Stronza mezza matta a ragazza che nasconde dietro la scorza bitchy gli occhiali da sole una inaspettata fragilità. E, ancora una volta, quello che si trasmette è la spaventosa consapevolezza che ultimo romanticismo possibile è quello passeggero, aleatorio, impalpabile, di un bacio dato a mezzanotte, e di un inevitabile addio.

Questo è il terzo film del 34enne Alex Holdridge: ma è il primo a superare davvero le barriere della zona di Austin (dove le sue precedenti opere avevano già sbancato il SXSW e l’Austin Film Festival) conquistandosi agli Independent Spirit Awards l’ambito John Cassavetes Award – dedicato alle opere con budget inferiori ai 500 mila dollari. Speriamo che sia solo il preludio a una lunga carriera. Un futuro di cui, in questo film, si vede ben più che la promessa.

Impossibile non citare infine la colonna sonora: due brani degli Okkervil River, tre degli Shearwater (entrambi complessi "compaesani" di Holdridge), e una chiusa sul classicone Wind of change degli Scorpions che strappa le budella.

Il DVD inglese è in vendita su Play.com, e costa pure poco, pochissimo.

Hannah takes the stairs, Joe Swanberg 2007

Hannah takes the stairs
di Joe Swanberg, 2007

Di cinema mumblecore da queste parti si è parlato più di un anno e mezzo fa, in occasione della proiezione del bellissimo Quiet city al Milano Film Festival. Se ne parlò inconsapevolmente: erano passate infatti poche settimane da quando il termine stesso era stato coniato (o meglio, reso pubblico) dal regista Andrew Bujalski – che qui interpreta Paul.

E di questo movimento del cinema indipendente statunitense si parlerà da queste parti, ve lo anticipo, anche nel prossimo periodo.

Terzo film di Swanberg, classe 1981 e qualche mese più giovane del sottoscritto, dopo Kissing on the mouth e LOL, Hannah takes the stairs è un caso abbastanza esemplare: girato in digitale, budget praticamente inesistente, molta improvvisazione, cast di amici e frequentatori del movimento (Bujalksi appunto, che ha praticamente inventato il "genere" con Funny Ha Ha, ma anche Mark Duplass, fratello di Jay Duplass e co-regista dell’acclamato Baghead, oltre ovviamente alla protagonista Greta Gerwig che è stata definita "mumblecore muse"), pochissimi peli sulla lingua, e una narrazione basata quasi completamente sui dialoghi.

Il tutto messo in scena, con pochi fronzoli ma innegabile intelligenza, per parlare della volubilità amorosa e della frustrazione sentimentale dei venti-trentenni degli anni zero, di incomunicabilità e insoddisfazione cronica, con un piglio ironico e autoironico (per come sfotte bellamente la sorpassata blog generation), cinico e disilluso forse prima del tempo ma deciso e sfrontato, sospeso tra la spocchia presuntuosa e volutamente irritante e l’intuizione perfetta (come la gag romantica delle maschere da sub, o il duetto finale), ma con una franchezza che è aria fresca nel cinema "indie" contemporaneo, e una spigliatezza, consapevolmente autodistruttiva, e in fondo romantica proprio nel suo dichiarare l’amore oggi come un inevitabile e annunciato fallimento. Per il quale però vale sempre la pena di fare, che so, qualche tentativo.

Il DVD americano è disponibile da parecchio tempo. Quello inglese, Regione 2, esce invece il 27 aprile: già preacquistabile su Play.com.