Kekkoz

Fuoco cammina con me…

Fuoco cammina con me


Ieri era giorno di ripasso (per chi volesse sapere com’è andato l’esame, si rivolga al mio commento di sotto). Ma si sa, dopo un po’ la mente strippa e ti devi sdraiare sul tuo improbabile divano-materasso e guardarti un film senza senso. Cosa meglio di Fire walks with me? Di cui, diciamolo, non avrei voglia di parlare, perché la mia su Twin peaks e su Lynch l’ho già detta, quindi non voglio essere ripetitivo. Sennò facevo un blog su Lynch [che non è una bruttissima idea].


Questo fiammeggiante inconscio perturbante filmetto lo demoliscono tutti, sembra quasi uno sport nazionale. A me piace, un po’ perché è un’estensione (molto più curata da un punto di vista visivo e sonoro) di un oggetto che amo molto (twin peaks, appunto); ma soprattutto mi piace proprio per la ragione per cui Mereghetti lo demolisce: è una solenne presa per i fondelli. E infatti la mia parte preferita è la prima mezz’ora, in cui non succede niente ma proprio niente e allo stesso modo tutto (paradossi spaziotemporali compresi). La seconda parte è esplicativa, e scoglie molti nodi: noi twinpeaksomani non possiamo che gradire.

Golden Globes 2004


Emanuelazini ha commentato i globi d’oro, e mi ha fatto venir voglia di dire la mia.


Miglior film drama: Il ritorno del re. Sono pienamente d’accordo.
Miglior film comedy: Lost in translation. Meritato. Però c’è Big Fish, e io adoro Tim Burton quando fa il giocherellone. Sarà sicuramente bellissimo.
Miglior attore drama: Sean Penn. Non ho visto Mystic River (ahimé), ma conosco Sean Penn. Meritato (anche per esclusione…)
Miglior attrice drama: Charlize Theron. Ho visto il trailer di Monster e ho rabbrividito, sono stufo delle attrici che si imbruttiscono. Quindi il mio premio va a Uma Thurman.
Miglior attore comedy: Bill Murray. Assolutamente meritato. E aggiungerei: finalmente. Se non ci fosse stato lui, l’avrei dato a Johnny Depp, splendido nella maledizione della prima luna.
Miglior attrice comedy: Diane Keaton. Non avendo visto something’s gotta give, e nutrendo una certa antipatia per la Keaton, il mio premio va a Scarlett Johansson.
Miglior attore non protagonista: Tim Robbins. Troppe scatole chiuse. Quindi facciamo che sono d’accordo.
Miglior attrice non protagonista: Renee Zellweger. Come sopra. Poi le altre mi stanno tutte antipatiche.
Miglior regista: Peter Jackson. E chi altri? D’accordissimissimo.
Miglior sceneggiatura: Lost in translation. D’accordo. E’ la sua forza, la sceneggiatura.
Miglior film straniero: Osama. Premio doveroso, anche se non ho visto nessuno dei 5 comprendo la scelta. Politica.

[perché ho cambiato template?]
Prima lamentela. Era scritto troppo piccolo.
Seconda lamentela. Mancava l’archivio. Adesso c’è, qui a sinistra.















Il ritorno del re


Bene, dopo tre post semi-inutili che non leggerà mai nessuno perché quei pochi che visitano questo blog saranno intenti a criticare il mio entusiasmo per Mr. Jackson, ecco il momento di parlare del ritorno del re.


Prima di tutto, io non sono un tolkeniano, nessuno nella mia adolescenza mi ha mai introdotto o spinto a leggere il libro di Tolkien, e quindi il mio giudizio è meramente cinematografico. Anche se conosco diversi Tolkeniani che sono entusiasti quanto me.


Secondo, non concepisco il dire “questo è meglio, questo è peggio degli altri due”, perché il Signore degli Anelli è un film solo, concepito e soprattutto prodotto come tale. Quindi quel tipo di discorsi cade senza pietà: sarei costretto a dire: sono tutti e tre sullo stesso livello.


Quindi il giudizio dovrebbe andare, finalmente, dopo due anni di attesa, all’intera trilogia, non al terzo film. Questa mastodontica opera mediatica è però qualcosa di così grande e imponente che non mi azzardo a scriverne, con il rischio di uscirne fuori con un saggio (e ci metterei tutta la giornata, perdendo un pomeriggio di studio). Coniugare una tale perferzione visiva con una simile portata emozionale, che rende il film una vera e propria esperienza multisensoriale, è impagabile, e merita ogni vetta.


Chi volesse semplicemente un giudizio numerico sul film, è quello postato su cinebloggers: 5 su 5, senza ombra di dubbio.

Cast away


Finalmente l’ho visto e ho tappato la mia filmografia zemeckisiana (per chi non lo sapesse, uno dei miei guru). Mi è piaciuto da impazzire, e sfido chiunque a criticare un film che riesce a coniugare esigenze di entertainment (lo spettacolare incidente, la storia d’amore) con un’autorialità diffusa più unica che rara in un regista così profondamente hollywoodiano.


L’incredibile ma vera storia del naufrago permette a Zemeckis, oltre un incredibile studio sul personaggio (grazie anche all’aiuto di un impressionante Tom Hanks), lo sviluppo del suo tema portante: la riflessione sulla dilatazione del tempo. Basti pensare a Marty MacFly (“Ho tutto il tempo che voglio, ho una macchina del tempo!”) o alle streghe senza età della “Morte ti fa bella”, per non parlare di “Contact” (dove un istante corrisponde a migliaia di secondi e anni luce).


Oltre a questo sviluppo tematico estremamente maturo, una messa in scena perfetta, che utilizza l’effetto digitale in senso poetico e funzionale (come pochissimi riescono a fare) e si prende i suoi tempi senza fretta, senza paura di annoiare (riuscendoci). Bellissimo.

Palombella rossa


Non voglio spendere troppe parole parlando di Nanni, perché (come nel caso di Aprile) sarebbero inutili o insufficienti. La domanda è solo questa: mi è piaciuto Palombella rossa? La risposta è relativa al cinema di Moretti, che comunque apprezzo spesso, senza esagerazioni. In senso relativo, posso finalmente e tranquillamente dire che non mi è piaciuto. Leziosetto, narcisista, ripetitivo (anche se volutamente). Però come sempre Non mancano gli spruzzi di puro genio, come l’intervista alla giornalista (“ma come parlaaa??”), o i ricordi felliniani di un rifiuto sportivo (“no, ci ho ripensato, ci ho ripensato!”). Bastano a meritare la visione? Direi di sì, come in Aprile.


Il grande problema di Moretti è che sta facendo il bilancio della sua vita personale e professionale da 15 anni: smetterà, prima o poi?

Yuke yuke nidome no …

Yuke yuke nidome no shojo
(Su su per la seconda volta vergine)


Questo weekend mi sono deciso, nella massa informe di cinema che ho consumato, di vedere finalmente questo film registrato da Fuori Orario qualche giorno fa. Devo dire che è abbastanza interessante, anche se faccio molta fatica a contestualizzarlo, non conoscendo questo misterioso Wakamatsu, che la garzantina del Canova mi dice essere “un autore di film erotici che si distanzia dal genere per il suo stile”. Insomma, sta al pinku come Gerard Damiano sta al porno?


Questo incontro tra due anime disperate sul tetto di un palazzo, una che vuole morire, l’altra che vuole uccidere, e che si scambiano i ruoli confondendo continuamente eros e thanatos (“ti amo, non è una buona ragione per uccidermi?”) è abbastanza scioccante, anche se un po’ manierista, nonostante un incredibile talento pittorico nel dosare le luci e costruire l’immagine. Poi c’è quella che è forse la chiave di lettura del film: le immagini violente dei manga alternate alle foto di Sharon Tate incinta pre-Charles Manson. La cosa mi ha lasciato un po’ atterrito, poi ho decisamente rinunciato a capirla. Niente male il finale.


[pausa]


Ancora una [pausa]. Perché sto studiando per un bruttissimo esame, e già mi sveglio tardi la mattina, figuriamoci se ho il tempo di mettermi a vedere tutti i film arretrati. Ma lo farò presto.


Sono stato lieto di partecipare allo “scannamento” su cinemashow sull’Ultimo Samurai (sul quale ho preso una posizione volutamente forte, perché ci vuole ogni tanto, altrimenti ci addormentiamo e ammazziamo il cinema).


Domani sera: Il Ritorno Del Re. Cinema Capitol. Bologna.
Del quale scriverò lunedì. E ne scriverò sicuramente bene perché purtroppo adoro Peter Jackson in ogni sua manifestazione, e oltre a quello adoro i primi due capitoli come poche altre cose al mondo. So già che non rimarrò deluso. O almeno spero. Non vedo l’ora.


Intanto auguro a tutti buon weekend, ricordo a adiastematica che c’è un matrimonio in ballo, e ora ritorno su quello schifo di libro pensando che forse era meglio stare a casa a guardarsi Getting Any? di Kitano. Baci a tutti.


L’ultimo samurai


Il mio primo film al cinema del 2004 è diretto da Edward Zwick, e già non è un buon inizio. Ok, adesso mi impegno e ne parlo bene. No, non ce la faccio proprio. Facciamo così: un giudizio “in negativo”, nel senso che dirò le cose che funzionano, così sembra un capolavoro. Ma in realtà poi conta tutto ciò di cui non parlo….


Bisogna difendere prima di tutto Tom Cruise, e proprio per la ragioni di cui parla saggiamente Gervasini su film tv: se le prende a cuore le cose che fa, ci si immerge fino nel profondo dell’animo, e ci crede, con tutto se stesso (vedi la trilogia di Mission:Impossibile). Quindi, plauso al bel Tom, anche grazie al suo personaggio, indubbiamente ben costruito e di notevole spessore. C’è poi da dire che (caso strano per un film così profondamente us-style) c’è un rispetto dignitoso delle tradizioni e del modus vivendi del giappone del 1876 (rispetto che si traduce, almeno, nella rinuncia alla solita scopata selvaggia, che sarebbe stata di cattivo gusto, anche se la filosofia samurai è poco più che accennata, e avrebbe meritato più spazio, più attenzione). Nessuna sorpresa sulla condanna del colonialismo americano: ci mancherebbe altro, dopo 40 anni di western “maturi”. Nota estremamente positiva (detto da me sembra incredibile) per il doppiaggio italiano: tutti i giapponesi sono doppiati da giapponesi anche in italiano, evitando irrispettosi effetti di invololtaria comicità (come le elle al posto delle erre), e con un piacevole effetto realistico.


No, basta, ora devo per forza parlarne male, perché se su cinebloggers gli do un 2 su 5 ci sarà pure una ragione. Il problema è profondo, ed è il problema principale dei blockbuster movies statunitensi (perché se dico americani poi Morandini si arrabbia…): la tendenza ad addormentarsi su quello che è o dovrebbe essere il perno della costruzione di una vicenda, e cioè la struttura. L’utilizzo sfrenatamente ripetivivo, negli ultimi anni, degli stessi moduli di costruzione della storia, ha sinceramente stancato. Per esempio, l’incontro tra culture rappresentato come scontro (prima), a cui segue acquisizione di competenze in senso proppiano, a cui segue il riscatto, e quindi l’accettazione: non se ne può più. Anche moduli più seplici, come la rappresentazione della battaglia finale, o la storia d’amore semi-platonica (happy end ipotetico permettendo), sono triti e ritriti.


Nel totale, un’ora di film (mezz’ora iniziale e mezz’ora finale, direi) è proprio da buttare. Il resto si farebbe anche guardare volentieri, anche se a volte fa proprio sorridere (non è cosa bella) per la sua estenuante (e faticosetta) classicità.

28 giorni dopo


[Nota personale: l'ho visto due volte ieri sera. Mi spiego: ho visto i primi 70 minuti del film. Poi è arrivato il mio amico/coinquilino e l'ho ricominciato da capo, per poi finirlo 100 minuti dopo. Masochismo? Beh, evidentemente mi è piaciuto...]


La cosa che mi interessava di dire su questo bell’horror “fuori moda” (e di questi tempi è un termine molto positivo per un horror) è il suo rapporto con il cinema di Romero. Che è ovvio, lo scrive persino quell’enciclopedia di ovvietà che è (spesso, non sempre) il Mereghetti. Sarà che l’ho visto in lingua originale (non esiste che mi noleggi un dvd di un film inglese e me lo guardi in italiano!), ma “28 giorni dopo” sembra la prospettiva britannica del cinema di Romero, anche se non possiede la tipica spocchia del remake cinefilo. A volte però i riferimenti sono davvero palesi: lo zombi tenuto vivo dai militari e i militari stessi vengono da “Il giorno degli zombi”, certi assedi, certe ombre dal primo “La notte dei morti viventi”, e soprattutto la scena del supermercato viene da “Zombi”, a mio avviso uno dei migliori horror di tutti i tempi, secondo a pochi altri.


Ma dove Romero rifletteva sulla società americana (la trilogia corrisponde a mio avviso – ipotesi su cui non ho riflettuto e che butto giù adesso – alla triade famiglia/consumo/guerra), Boyle, che aveva già dimostrato ampiamente di poter essere un autore di talento, eccezioni a parte, vuole soprattutto divertire (la scelta del digitale sembra davvero una ripresa del buon vecchio metodo low-cost di autori come Raimi o Romero stesso) e magari riflettere cinicamente sulla natura umana, con quell’esplosione finale di furia ribelle nei confronti dei militari che assomiglia vagamente alla furia avida descritta in “Piccoli omicidi tra amici”. Il tema preferito da Boyle sembra quindi davvero essere l’istinto di sopravvivenza (o conservazione), contrapposto all’istinto di prevaricazione tipicamente umano?


Altre cose ancora più banali da dire, bravi – senza esagerare – gli attori (che rendono però alla perfezione il senso di spaesamento e disperazione), e dulcis in fundo la fotografia, splendida: le immagini dell’abbandono delle città e delle strade fanno venire i brividi e possiedono un bel senso della costruzione dell’immagine. Non sapevo si potessero fare tali miracoli in digitale. Si aprono nuove strade per la mia immaginazione registica.


Vedete? Ho scritto tantissimo. Mi rendo conto che quando inizio un post, mi sembra sempre di non aver niente da dire e poi mi dilungo. Vorrei davvero essere più breve, ma è più forte di me.

[notazioni tv]


Ancora due righe per dire due cose.
1. Twin Peaks, episodio di ieri: splendido. Non a caso è diretta da Lynch. Si vede la differenza. Profondamente.
2. Ho a casa ancora da vedere la notte di FuoriOrario di domenica scorsa: “Yuke yuke nidome no shojo” di Wakamatsu, che ho già iniziato a vedere ed è davvero interessante, poi “Taji Ga Mitsuryo Suru Toki” sempre di Wakamatsu, e “Cet obscur objet du désir” di Bunuel che – mi vergogno a dirlo – non ho mai visto, nonostante adori il regista spagnolo. Ne parlerò presto.



Gohatto


Inserisco un primo (spero raro) elemento di intertestualità tra il mio Blog (che state leggendo) e il mio ormai desueto sito The Rosebud Chronicles. Infatti in tal sede avevo già parlato di Gohatto, bellissimo film di Nagisa Oshima, che avevo infatti visto al cinema Roma d’Essai a Bologna nella primavera del 2001. Mi aveva già senz’altro molto colpito, ma forse a causa della mia scarsa conoscenza del cinema orientale non mi aveva permesso di comprenderlo appieno. Grazie a Ghezzi (che l’ha trasmesso sabato sera su Rai3), ritorna l’occasione di parlarne. Quindi tutto ciò che faccio oggi è riproporre in corsivo quella stessa recensione da me scritta quasi 3 anni fa, anche se parzialmente ripulita da alcune stronzate che ci avevo infilato.


In una gloriosa compagnia samurai che detta legge a Kyoto nella metà del XIX secolo, l’arrivo del giovane omosessuale Kano getta scompiglio, e porta via con sè secoli di glaciale rigore, all’insegna dell’abbandono dei limiti imposti da una cultura chiusa come è stata quella giapponese per così tanto tempo. Una storia dolorosa e moderna, narrata da Oshima a suo modo, con geniali e talvolta ironiche didascalie che immergono i personaggi in un’atmosfera quasi fiabesca. Il settantenne regista giapponese riesce ancora a turbare i nostri animi attraverso una messa in scena apparentemente fredda e composta, ma più emozionale di quanto non sembri. Il montaggio è semplice e lineare, la scenografia minimale, e la colonna sonora di Sakamoto è ottima e sempre puntuale. Tra le cose straordinarie, i duelli (contrapposti ai dialoghi, ma in verità significativi quanto e più di uno scambio verbale per quanto riguarda l’incontro/scontro di mentalità o generazioni differenti) e momenti di poesia e magia rare, attimi di cinema puro: la sequenza finale presso la palude azzurra, con il racconto di Okita, i pensieri di Hijikata (un eccellente Takeshi Kitano) che si fanno visione, la scoperta delle verità su Kano e Tashiro, e infine quel tronco spezzato dalla lama di Kitano, un istante in cui si fondono estetismo e arte. Anche se lontano dalla nostra cultura e dalla nostra mentalità (molto più lontano delle opere di Kitano stesso, per esempio), Gohatto si fa comunque comprendere fino in fondo. E si fa amare. Un bellissimo film costruito sugli sguardi, sui pensieri, sui dettagli. (da www.therosebud.it)


Ecco, ora che l’ho ripulita mi sento molto più soddisfatto, anche se mancano alcune cose, e prima di tutto mancano i giudizi a posteriori risultanti dalla visione di Zatoichi. La semplificazione più becera potrebbe risultare: è meglio Gohatto o Zatoichi (viste le somiglianze, seppur tangenti, che permettono di metterli a confronto)? Conosco troppo bene Kitano e troppo poco Oshima per decidere fermamente.

Halloween (e John Ca…

Halloween (e John Carpenter)


Purtroppo, Decalogo 10 è ancora l’ultimo film che ho visto. Quindi non ho niente su cui scrivere. Tranne che ho visto un pezzo di Romeo + Giulietta di Luhrmann in lingua originale ed è stato molto divertente. Anche in italiano il linguaggio scespiriano-shakespeariano in quel film fa un certo effetto, ma vi posso assicurare che le rime e gli esametri giambici (o sono pentametri? ora mi viene il dubbio…) sono proprio tutta un’altra cosa.


Ceres (grazie!) mi chiedeva consigli su Halloween di Carpenter. Lì per lì mi sono allargato e l’ho definito capolavoro. Forse ho esagerato, ma non di tanto. E’ che ho una tale venerazione per Johnny Carpenter, che a volte mi annebbia la vista. Comunque è uno splendido film di paura, questo sì. Forse la cosa più geniale (al di là dell’altissimo livello tecnico) è l’accenno di soprannaturale, che causa il brivido proprio per la sua quasi totale assenza, per la necessità di dover fare delle implicature sulla natura di Myers, e che spinge lo spettatore ad aver paura solo delle proprie supposizioni.


Colgo l’occasione per fornire una mia molto estemporanea e molto personale Carpenter-classifica (in ordine decrescente, dal più bello al più brutto, anche se purtroppo mi mancano The Fog e Dark Star, abbiate pazienza). Al primo posto, 1997: fuga da New York. Assolutamente. A seguire, alcuni capolavori: Essi vivono, Grosso guaio a Chinatown, Fantasmi da Marte, Il seme della follia, Fuga da Los Angeles, Distretto 13: le brigate della morte. Poi, alcuni gran bei film: Halloween, Vampires, La cosa, Il signore del male. Alcune cose su cui si può anche passare sopra ma degne di attenzione: Christine la macchina infernale, Starman, Avventure di un uomo invisibile. E infine, quell’orrenda schifezza senza dignità che si chiama Il villaggio dei dannati, che considero uno dei più grandi tradimenti della storia del cinema.

[pausa]


Purtroppo sono cinematograficamente fermo, in questi due giorni non ho visto una beneamata cippa, ma domani torno nella mia casina (quella vera, quella con mamma che cucina) e per il weekend mi aspetta la solita abbuffata di dvd… Per oggi, la mia arte si ferma a scattare qualche fotografia ai vecchi decrepiti che occupano Piazza Maggiore e pentirmi di non aver finito di vedere Donnie Brasco ieri notte (ne parlerò tra qualche giorno, quando mi torna la voglia di ricominciarlo…


Beh, direte voi, finalmente kekkoz scrive un post personale e non cinefilo… credo che sarà l’ultimo. Colgo la rarissima occasione per ringraziare la commentatrice anonima. Finalmente ho capito chi è, anche se poteva dirmelo di persona. Vabbè, panta rei.

Decalogo 10


Il mio coraggio nell’affrontare il Decalogo di Kieslowski si è arenato sul primo e sull’ultimo episodio, nonostante la trasmissione dopo Twin Peaks meritasse la visione e potesse persino sembrare piacevole. Il Decalogo 1 mi aveva un po’ turbato, un po’ annoiato, ma soprattutto affascinato, per la prospettiva davvero unica, quella della rilettura laica e fatalista della decalogia biblica. Poi, come detto, mi sono arenato e ne ho saltati otto. Peggio per me, direte voi.


Intanto ieri sera mi sono preso coraggio e, devastato dall’insonnia, mi sono gustato (davvero!) il decimo capitolo/episodio. Geniale. Almeno da un punto di vista tematico e (perché no, pur essendo una semplice e lineare black comedy) filosofico. Tutto acquista un senso diverso (e più profondo) se abbinato al vero decimo comandamento, ma anche astratto dal contesto decaloghiano è davvero una commedia riuscita, feroce e nera, con picchi di crudele sadismo di scrittura da far venire i brividi.

Ritorno al futuro


Ma sì, a cosa serve un post su Ritorno al Futuro? L’han visto tutti!


Vero. Solo a ribadire la grandezza di Robert Zemeckis. So che la mia cinefilia di stampo autoriale descresce la sua autorità affermando ciò, ma Zemeckis è uno dei più grandi registi americani viventi. Punto.

Accordi e disaccordi…

Accordi e disaccordi


Sono stufissimo di postare, per oggi, ma mi sono ripromesso di parlare anche di questo film del grande Woody. Ma sarò breve. Inanzitutto, per dimostrare che non ho preconcetti, aggiungo che “La maledizione dello scorpione di Giada” è una vera merda. Tanto per far capire che non tutto ciò che viene da Allen dev’essere per forza geniale.


Detto questo, accordi e disaccordi è carino, ben fatto, scritto da Dio (ma quella è una vera costante), e soprattutto dominato incessantemente da un Sean Penn davvero unico, immenso, perfettamente in ruolo come mai è stato e come mai sarà più (probabilmente).


Seconda e ultima nota: il cinema e la creazione del reale. “Zelig” e “Accordi e disaccordi”. Allen in questo è insuperabile. Per fare grandi film deve inventare, creare dal nulla personaggi che siano vere persone e metafore allo stesso tempo. Allora sì, che escono film così.

Le lacrime della tig…

Le lacrime della tigre nera


Ho ritrovato in questo film lo stesso processo compositivo dell’ultimo Tarantino (che, lo dico, è a mio avviso un capolavoro, discussioni a parte, se ne riparlerà). Molto altro non c’è da dire: è divertente (per una volta ha ragione il Mereghetti, è divertente a piccole dosi), ed è molto intellingente nel modo in cui mescola i generi (a in tempi postmoderni sono capaci un po’ tutti).


[So che questo film non è molto noto, vi basti sapere che è una specie di misto di western e melò, e che è thailandese].


Ma soprattutto è eccellente il modo in cui trasforma la materia astratta (gli sfondi bidimensionali, i costumi irreali, le situazioni grottesche) in materia emozionale. E’ una rarità trovare un film in cui l’emozione (non tantissima, a dir la verità) scaturisce come spontaneamente dalla materia colorata e inerme della scenografia/fotografia eccetera, un po’ come in uno studios-movie d’altri tempi.

Aprile


Poche parole per scarsezza di idee. Ha detto tutto lui.


Già l’ho scritto qualche giorno fa: io detesto i film politici. Ma c’è un modo per parlare di politica che è anche un modo di parlare di un paese, e quindi di una comunità, e ultimo ma non meno importante, per ricollegare lo spirito della comunità con il senso dell’individualità. Nanni Moretti possiede queste qualità, e le mette a frutto con pudore, con un feroce sorriso (a tratti malinconico) e con lo spirito di chi sa di essere al di sopra delle parti (in quanto artista) ma non si crogiola nel suo complesso di superiorità, nè rinuncia a combattere per ciò che crede. Nonostante il tempo che passa, nonostante un figlio che ti riempie la voglia di tornare bambino…


Ma la sua “regressione” in realtà non è tale, è solo (quasi) un’espediente narrativo: alla fine Nanni ci parla di tre anni d’Italia, senza farcene accorgere, con una splendida e sorniona scaltrezza.


L’unica nota veramente negativa è che la forza del messaggio (probabilmente sentito) si perde un po’ a favore di una poeticità diffusa e che pur facendo i conti con alcuni grandi temi dell’umanità – mantiene come sempre la prospettiva micro, il sè, lo studio autoreferenziale: Moretti su Moretti.


 

posto oggi tutto que…

posto oggi tutto quello che ho visto e rivisto nel weekend, per scarsa disponibilità informatica durante il suddetto… bene, cominciamo…


Velluto blu


“Let’s fuck! Let’s fuck everything that moves! Ahah!”
Dennis Hopper


La cosa stupefacente di David Lynch (che adoro) è che agisce con i canoni (spesso inconsci) a lui più congeniali, e per questo è riconoscibile (dal primo all’ultimo film) da un’unica immagine, da un suono, da un’atmosfera. Conoscerlo bene come lo conosco bene io (perché l’ho studiato, non mi attibuisco meriti non miei, è merito del prof. Menarini) ti rende quasi orgoglioso…


Blue velvet è il suo primo vero grande capolavoro, e non invecchia mai. Forse perché l’aria stessa in cui vive Lumberton non ha tempo, sospesa com’è in una sorta di trance perpetua tra gli anni ’50 e gli anni ’80). Ultima nota: vedendolo in lingua originale ho scoperto quanto è immensa Laura Dern nel ruolo “solare” (opposto alla Rossellini “dark”, in piena implosione noir), e quanto è scorrettamente “correttivo” il doppiaggio italiano di Hopper (tra parentesi, splendido).


Io sono di parte, perché sono un Lynchiano, ma Blue Velvet è (almeno esteticamente, poi eticamente si può discutere su molte cose) uno dei quadri più belli degli ultimi vent’anni (e non dico quadro a caso, tra l’altro astratto, nonostante la concretezza del contrasto luce/buio).


Double team


La cosa più triste non è il film in sè. Anzi, no, è triste anch’esso, ma è il meno. La cosa più triste è vedere Tsui Hark, anzi quel fottuto genio di Tsui Hark, buttarsi via così, con queste orrende schifezze rubacchiate qui e là da 20 anni di cinema honkkonghese e americano. In confronto a lui, John Woo ha fatto delle scelte intelligenti. Che tristezza. Che voglia di rivedere The Blade e A Better Tomorrow 3. Che voglia di farmi tre o quattro film VERI di Tsui Hark al Future Film Festival, settimana prossima.


[Uno si chiede: ma perché guardi dei film del genere? Io rispondo: io guardo tutto. Non si giudica a priori. Ma che merda...]