L’ultimo samurai
Il mio primo film al cinema del 2004 è diretto da Edward Zwick, e già non è un buon inizio. Ok, adesso mi impegno e ne parlo bene. No, non ce la faccio proprio. Facciamo così: un giudizio “in negativo”, nel senso che dirò le cose che funzionano, così sembra un capolavoro. Ma in realtà poi conta tutto ciò di cui non parlo….
Bisogna difendere prima di tutto Tom Cruise, e proprio per la ragioni di cui parla saggiamente Gervasini su film tv: se le prende a cuore le cose che fa, ci si immerge fino nel profondo dell’animo, e ci crede, con tutto se stesso (vedi la trilogia di Mission:Impossibile). Quindi, plauso al bel Tom, anche grazie al suo personaggio, indubbiamente ben costruito e di notevole spessore. C’è poi da dire che (caso strano per un film così profondamente us-style) c’è un rispetto dignitoso delle tradizioni e del modus vivendi del giappone del 1876 (rispetto che si traduce, almeno, nella rinuncia alla solita scopata selvaggia, che sarebbe stata di cattivo gusto, anche se la filosofia samurai è poco più che accennata, e avrebbe meritato più spazio, più attenzione). Nessuna sorpresa sulla condanna del colonialismo americano: ci mancherebbe altro, dopo 40 anni di western “maturi”. Nota estremamente positiva (detto da me sembra incredibile) per il doppiaggio italiano: tutti i giapponesi sono doppiati da giapponesi anche in italiano, evitando irrispettosi effetti di invololtaria comicità (come le elle al posto delle erre), e con un piacevole effetto realistico.
No, basta, ora devo per forza parlarne male, perché se su cinebloggers gli do un 2 su 5 ci sarà pure una ragione. Il problema è profondo, ed è il problema principale dei blockbuster movies statunitensi (perché se dico americani poi Morandini si arrabbia…): la tendenza ad addormentarsi su quello che è o dovrebbe essere il perno della costruzione di una vicenda, e cioè la struttura. L’utilizzo sfrenatamente ripetivivo, negli ultimi anni, degli stessi moduli di costruzione della storia, ha sinceramente stancato. Per esempio, l’incontro tra culture rappresentato come scontro (prima), a cui segue acquisizione di competenze in senso proppiano, a cui segue il riscatto, e quindi l’accettazione: non se ne può più. Anche moduli più seplici, come la rappresentazione della battaglia finale, o la storia d’amore semi-platonica (happy end ipotetico permettendo), sono triti e ritriti.
Nel totale, un’ora di film (mezz’ora iniziale e mezz’ora finale, direi) è proprio da buttare. Il resto si farebbe anche guardare volentieri, anche se a volte fa proprio sorridere (non è cosa bella) per la sua estenuante (e faticosetta) classicità.