Solo Dio perdona (Only God forgives)
di Nicolas Winding Refn, 2013
Una delle argomentazioni che ho letto spesso, a ridosso dell’uscita del nuovo film di Nicolas Winding Refn nelle sale (ma già durante il suo passaggio a Cannes), sia a favore del film che come osservazione neutrale, suona più o meno così: Solo Dio perdona sarebbe un “vero” film di Refn, così come fu Valhalla rising. Il suo meraviglioso Drive, invece, sarebbe un contentino per un pubblico più vasto, un film più semplice e accessibile, derivativo e ruffiano, che sporcandosi le mani con il pop lo avrebbe allontanato dal suo stile più integro e intransigente. Il discorso, pur nelle sue sfumature snob (per le quali chi ama Drive sarebbe meno acuto di chi ama Valhalla rising: io preferisco parlare dei film e tenermi stretto un soggettivismo che si rispecchi nel rispetto, pure dei fan dei film che detesto) ha il suo fascino, e contiene anche una buona parte di verità, ma mi fa sempre sorridere per un motivo del tutto personale: dal canto mio, trovo Valhalla rising un film pressoché insostenibile e Drive un capolavoro – una parola, lo sottolineo, che cerco di usare con una certa cautela – proprio, o anche, per gli aggettivi che ho riportato sopra. La deduzione finale, sotto questa prospettiva e alla luce di questo suo ultimo film, sarebbe questa: il cinema integro e intransigente di Refn e io non sappiamo proprio cosa dirci ed è meglio se non ci frequentiamo più. Perché Solo Dio perdona, ancor più del tedioso epic del 2009, è un’opera di atroce, fastidiosa, dannosa inutilità – il titolo che è venuto fuori con desolante naturalezza quando qualcuno mi ha chiesto quale fosse, secondo me, il peggior film della stagione in corso. E quasi mi dispiace, per farmi due risate in vostra compagnia, dover tirare fuori Drive: il confronto tra i due film non è gentile per nessuno, oltre che fonte inesauribile di banalità da entrambe le parti (l’uno è l’anti-altro! No.) e, soprattutto, Solo Dio perdona non ha certo bisogno di Drive per palesarsi come un disastro. È inevitabile che un film così vistosamente presuntuoso divida il pubblico, ma ridurre tutto a un contrasto manicheo (film popolare vs film d’arte, quando nessuno dei due appartiene a queste due strampalate categorie) non ci porterà mai da nessuna parte; per avere un assaggio della ricchezza e della diversità della filmografia di Refn basta recuperare Bronson, un film che non c’entra quasi nulla con i titoli citati finora eppure è un’opera vibrante, personale, memorabile. Inutile, d’altra parte, pensare che un regista così intelligente e capace abbia fatto un film così terribile e sbagliato apposta, solo per sbatterlo in faccia a un certo tipo di pubblico: l’idea, a dire il vero piuttosto diffusa, che Solo Dio perdona sia una presa per i fondelli del fan di Drive, mi sembra, allo stesso modo, una sciocchezza che non tiene conto di numerosi elementi – dalla densità di riferimenti alla chiarezza espositiva, alla precisione iconografica, cromatica, compositiva di questo orribile, micidiale film da quattro soldi. Il che, forse, rende il tracollo ancora più funesto: Solo Dio perdona è, a tutti gli effetti, una cosa seria, è un film totalmente cosciente di sé, inflessibile nella sua direzione artistica e tecnica; ed è forse proprio questo a danneggiarlo in modo irrevocabile: Refn è così compiaciuto dell’unicità della sua opera, così convinto dell’ostinazione del suo metodo, da dare totalmente per scontato il proprio valore, senza sentire il bisogno, per esempio, di dirigere un film che uno spettatore possa guardare dall’inizio alla fine senza chiedersi chi sia il cretino, tra lui e il film. Infatti, Solo Dio perdona è ricco di elementi di interesse, di idee, è spinto da un’autentica visione: ma la stima per gli intenti non sposta di un millimetro l’avversione per i risultati. È uno di quei film più interessanti da analizzare scena per scena, tonalità di rosso per tonalità di rosso, metafora diabolica per metafora diabolica, che da vedere. Esperienza, quest’ultima, e stiamo parlando di un film che, beffa definitiva, arriva a malapena all’ora e mezza di durata, che mi auguro di non dover mai più fare nella mia vita. Mai più, mai più, ve ne prego.