Anwar Congo è un anziano signore della Sumatra settentrionale, è riverito da tutti nella regione, ha un sorriso contagioso, e ha ucciso centinaia di persone strangolandole con un filo di metallo. The act of killing è a tutti gli effetti un documentario, ma non assomiglia a niente che abbiate visto, nella realtà o nella finzione. Il regista Joshua Oppenheimer, americano di base a Copenhagen, che aveva conosciuto Congo in occasione di un precedente lavoro girato proprio in Indonesia, ha convinto l’ex boss delle “squadre della morte”, insieme a diversi suoi collaboratori, a diventare star di un film. Anwar, che prima del colpo di stato del 1965 era un piccolo gangster che spacciava biglietti del cinema di contrabbando (non nascondendo un verace amore per il cinema hollywoodiano), non si limita a raccontare con nostalgia la metodologia dei suoi omicidi, ma li mette letteralmente in scena – ispirandosi ai film di genere, proprio come faceva quando uccideva a sangue freddo i comunisti, veri o presunti, e tutti gli oppositori politici. A rendere The act of killing un’esperienza disturbante è soprattutto il punto di vista, che è unicamente quello di Congo e degli altri aguzzini, convinti in un’ottica di regime di celebrare con questo film (nel film) la grandezza e l’importanza storica del loro gesto: il documentario di Oppenheimer è infatti ambientato in un paese in cui l’atto di uccidere è glorificato, non condannato, dalle istituzioni e dai media (tra le scene più inquietanti, il congresso dell’organizzazione paramilitare Pemuda Pancasila e l’incredibile talk show di una rete tv indonesiana), perché fa parte del linguaggio dei vincitori, con un ribaltamento morale dell’intera società che mette i brividi e manda in frantumi i punti fermi della nostra prospettiva; ci si trova di fronte a una situazione reale che ha i caratteri di un modello fantascientifico, vicino alla distopia, dove il senso di colpa, soffocato dalla complicità del sistema, si rivela soltanto tra le pieghe dell’inconscio. Fino a quando qualcuno non si rovesciano i ruoli di vittima e carnefice, facendo esondare il fiume del rimorso, con il rumore di un conato infernale. Se è l’incastro sbigottito tra realtà e rappresentazione, tra morte e cinema, a fare di The act of killing un film così inusuale, a farne un’esperienza così agghiacciante è soprattutto questa finestra spalancata sui limiti e sulle contraddizioni della nostra morale. Ci vuole fegato per fare un film così, parecchio stomaco per assistervi. Imperdibile.
The act of killing, Joshua Oppenheimer 2013
Frozen, Chris Buck e Jennifer Lee 2013
Fino a poco tempo fa, l’idea che la Disney potesse ancora realizzare il miglior film animato dell’anno era pressoché impensabile, una barzelletta. Troppa la concorrenza, artistica e commerciale, ma soprattutto ancora troppo pesanti le macerie del terremoto che ha squarciato il panorama produttivo negli ultimi due decenni. Adesso finalmente John Lasseter, con un piede nella direzione artistica degli studi di Burbank e l’altro nella Pixar da lui fondata, è riuscito in questa rocambolesca missione: riportare la Disney al vertice dell’animazione americana, con un film così bello da levare il fiato, così perfetto che quasi non ci si crede. Dopo due ottime produzioni che avevano altrettanti compiti ben precisi (riappropriarsi del linguaggio delle fiabe strappandolo agli emuli di Shrek il primo, aprire un dialogo reciproco e più costruttivo con la Pixar di Brave il secondo), il meraviglioso Frozen è un vero punto di arrivo – il più compiuto film del cosiddetto “canone” dai tempi (lontanissimi) de Il re Leone. Sintesi ideale di un approccio che si rifà a una tradizione senza rivali che non rifiuta i contraccolpi della rivoluzione culturale, il film (ispirato a una fiaba di Andersen, non tra le più note) mostra dopo tanto tempo una Disney totalmente a suo agio con se stessa, tanto nell’abbracciare il formato un po’ desueto (ma profondamente rituale) del musical, quanto nel coraggio di fidarsi, una volta tanto, dell’animazione digitale, con risultati abbaglianti. Ma tutto questo, per quanto rappresenti una svolta interna decisiva per la storia della Disney (un momento a cui, tra qualche anno, forse guarderemo come si fa ora a La sirenetta), non basterebbe a farne l’opera incredibile che ci siamo trovati sullo schermo. A rendere Frozen così sublime è soprattutto l’attenzione e il rispetto che gli autori e i registi (tra cui Jennifer Lee che, dettaglio non proprio marginale, è la prima donna di sempre a dirigere un film animato Disney) hanno messo nella costruzione dei loro personaggi, soprattutto femminili, nella modernità delle loro pulsioni, su uno sviluppo narrativo che non rinnega i punti di forza di un rito vecchio di decenni (i sentimenti, l’avventura, la simpatia) ma a un certo punto ne ribalta le consuetudini in modo sorprendente, evoluto e attuale. E poi, fatemelo ripetere, ci sono le musiche, le pazzesche musiche di Frozen. Diventate negli ultimi anni più che altro un obolo da versare, sgradito ai più, qui le canzoni (firmate dai coniugi Lopez) tornano di nuovo al centro della scena: tantissime, orchestrate in modo esuberante, spassose, vibranti, una più bella dell’altra.
Much Ado About Nothing, Joss Whedon 2012
Che il regista del maggior incasso del 2012, il terzo della storia del cinema, parliamo di un film costato 220 milioni di dollari che ne ha incassati un miliardo e mezzo, sia uscito nelle sale a pochi mesi di distanza con un film costato quasi nulla, girato in casa sua in bianco e nero in pochi giorni con un gruppo di amici, è una delle cose più singolari accadute lo scorso anno, e non solo nel cinema americano. Ancora più curioso, però, che siano entrambi bellissimi film. Ma anche che The Avengers e Much ado about nothing non si annullino a vicenda, rappresentino in qualche modo due visioni complementari della sua poetica, meglio ancora: l’alfa e l’omega del suo stile (in particolare nella scrittura dei dialoghi e nell’intreccio dei caratteri dei personaggi) ed è irresistibile, pur se opinabile, immaginare che due film così diversi possano essersi influenzati a vicenda. Da sempre appassionato di Shakespeare (pare che le “letture” collettive siano una un’abitudine di casa Whedon ben precedente alla produzione di questo film), il regista di Serenity ha scelto una delle commedie più brillanti del bardo (già portata sullo schermo da Kenneth Branagh una ventina d’anni fa, in costume, in modo altrettanto sublime) per “prendersi una pausa” tra le riprese del kolossal Marvel e la sua complicata post-produzione; chiamato a raccolta gran parte del nutrito gruppo di amici attori che popola da anni le sue serie tv (Alexis Denisof e Nathan Fillion fin dai tempi di Buffy, Amy Acker da Angel, Sean Maher da Firefly), ha girato questa versione di Molto rumore per nulla in cui l’esattezza del testo originale contrasta con l’ambientazione contemporanea, il look casual e l’accento statunitense del cast. Ma questo piccolo esperimento è tutt’altro che minuscolo, anche perché il rispetto che il registra mostra nei confronti di Shakespeare include il desiderio di giocare con le sue convenzioni (ha scritto persino la musica di due canzoni, sul testo originale) con una professionalità ineccepibile, mescolata a un entusiasmo conviviale veramente contagioso.
Il film è ancora inedito in Italia. Si può acquistare, anche in blu-ray, nell’edizione britannica.
Sleepwalk with me, Mike Birbiglia 2012
Dal volante della sua auto, Matt Pandamiglio ci invita, prima di tutto, a spegnere il telefono durante il film. Negli ottanta minuti successivi, Matt ci racconterà la sua storia d’amore con Abby, sua fidanzata da otto anni che non si è mai deciso a sposare. E i suoi problemi con il sonnambulismo. Proprio come Mike Birbiglia, che oltre a interpretare il ruolo principale scrive e dirige questo atipico e bellissimo piccolo film presentato al Sundance Film Festival nel 2012, Matt è un comico di incerto talento che cerca di farsi strada nel duro mondo dello stand up. E che tra un lavoretto mortificante e l’altro, riuscirà a superare le sue difficoltà di performer soltanto trasformando in monologhi, di nascosto, le bizzarrie e le frustrazioni della sua vita sentimentale. Il primo riferimento che viene in mente guardando Sleepwalk with me è inevitabilmente Io e Annie: il capolavoro di Woody Allen viene richiamato in modi molti diversi (dalla cornice che sfonda la quarta parete fino alla presenza nel cast della favolosa Carol Kane) anche se l’intersezione tra arte e vita ricorda più da vicino Louie, la sublime serie tv del collega Louis CK. E pur essendo tratto da un monologo messo in scena off-Broadway, il film non è affatto limitato dalle sue origini teatrali: Birbiglia è riuscito a trasformare con intelligenza un flusso di coscienza in un’opera cinematografica compiuta, con una personalità notevole per un’opera prima e una struttura narrativa tutt’altro che banale (né lineare), sfruttando la patologia di Matt per una manciata di gustose sequenze oniriche, con l’aiuto di un eccezionale cast di contorno popolato di tantissimi colleghi (Kristen Schaal, Wyatt Cenac, John Lutz, David Wain, Marc Maron in una specie di parodia di se stesso) venuti a dare una mano con piccoli ruoli all’amico Mike. Aiuta molto il fatto che Birbiglia sia, in effetti, un comico divertente, acuto e stralunato, visto che parte del film è effettivamente ambientata sui palchi dei club dove Matt trova gradualmente la sua personalità – ma la forza di Sleepwalk with me sta soprattutto nella sua pervasiva malinconia: in fondo è la storia di un bambinone che per diventare grande, suo malgrado, scopre di dover accogliere in sé un cinismo indispensabile, lasciando alle spalle un pezzo di sé, destinato a diventare un triste e romantico rimpianto.
Il film è inedito in Italia. È disponibile in dvd nell’edizione britannica.
Il monologo originale Sleepwalk with me Live si può ascoltare su Deezer o Spotify.
Passion, Brian De Palma 2012
Ci sono diversi momenti, guardando Passion, in cui si ha la netta sensazione di assistere alla parodia più riuscita di sempre di un film di Brian De Palma, un effetto ancora più spiccato che in Femme fatale, uscito più di dieci anni fa e a tutt’oggi il suo ultimo vero capolavoro. L’armamentario del grande regista americano è tutto qui, senza alcuna eccezione, come in un manuale, dalle soggettive alle sghembe, dallo split screen alle musiche di Pino Donaggio; la trama stessa, che è un complicato e insidioso intreccio di gelosie, ricatti, segreti, ossessioni, omidici e colpi di scena, con tanto di accento sul tema del doppio per non sbagliarsi, si inserisce nel flusso della sua filmografia con l’evidenza sfacciata di un emulatore fuori tempo massimo nonostante si tratti di un remake (di Crime d’amour). Eppure, Passion è un film che andrebbe fatto studiare nelle scuole: De Palma, che aveva temporaneamente abbandonato il suo stile più esuberante (il film precedente, è giusto ricordarlo, è Redacted) qui si riappropria del suo arsenale e lo spara con i cannoni sullo schermo, alla massima potenza, in modo a volte strampalato, ma anche con una ricchezza e soprattutto con un’impertinenza nella messa in scena che non ha pari nel cinema americano odierno. Non è una questione di perdonare a De Palma ciò che condannerebbe un altro; la questione qui è che non c’è nessuno che diriga più come De Palma e che forse il cinema ne sente la mancanza. Sensuale, morboso ed stremamente disonesto verso i personaggi e verso gli spettatori (come sono alcuni dei suoi film più belli), Passion è un film spudoratamente ridicolo, incendiario e trionfale.
Il film è inedito in Italia. Si può acquistare in dvd, nell’edizione inglese.
Mud, Jeff Nichols 2012
Qualunque direzione prenda la sua carriera negli anni a venire, sono pochi gli attori nati a metà degli Anni 90 che possono vantare esordi come quelli di Tye Sheridan. Il ragazzo texano, oggi 17enne, è spuntato dal nulla dopo aver passato le rigide selezioni di The tree of life, in cui è finito a interpretare il ruolo del figlio (minore) di Brad Pitt. Dopo un debutto così altisonante, nei due anni successivi ha interpretato il ruolo di vero protagonista per altri due tra i più acclamati registi del cinema indipendente americano. Il secondo l’abbiamo visto a Venezia, è lo strepitoso Joe di David Gordon Green con Nicolas Cage. Il primo, presentato a Cannes nel 2012 e uscito negli Usa la primavera successiva, è proprio Mud, firmato da Jeff Nichols dopo l’enorme successo di critica di Take shelter. Curiosamente, però, Sheridan non è l’unico elemento in comune tra i due titoli: Joe e Mud sembrano quasi due varianti dello stesso canovaccio (l’amicizia tra un ragazzino, Sheridan appunto, e un “fuorilegge”) e giocano in modo simile con l’immaginario del Sud (il Texas in Joe e l’Arkansas in Mud), dipinto come un paesaggio trascurato, squallido, violento e “sporco”, e finendo per risultare un inaspettato e irripetibile duetto. Il confronto, aiutato da quello più mediatico tra le “star” (due attori in stato di grazia, nonché bisognosi di una redenzione agli occhi della critica) è fin troppo facile, quasi evidente per chi abbia visto i due film, ma rischia di sminuire il valore di entrambi: perché sia Joe che Mud sono i formidabili eredi di un film come Winter’s Bone, affreschi di un’America ai margini e alla ricerca di una salvezza.
E il film di Nichols, a dire il vero, ha un vantaggio competitivo: è arrivato primo. Dopo essersi addentrato con Take Shelter in un territorio insolito ed eccitante che stava tra la disgregazione psicanalitica e il fantastico-apocalittico, il regista affronta la storia di “Mud”, delinquente romantico auto-esiliatosi su una piccola isola, con un piglio meno oscuro e inquietante e con un andamento decisamente più classico (lasciando anche un po’ di respiro, ma chiamiamola pure speranza, agli spettatori), affidandosi sì all’interpretazione del “solito”, sbalorditivo Matthew McConaughey (andrebbe scritto un trattato a parte su come sia diventato uno dei migliori in circolazione nell’arco di un pugno di film) ma accogliendo il punto di vista del giovane Ellis come unica prospettiva sul mondo e sui personaggi che lo popolano. Questa non è tanto la storia di un criminale che vuole fuggire con la donna che ama (citiamola: è una bravissima Reese Witherspoon) con l’aiuto di un ragazzino, quanto prima di tutto quella di un adolescente abbandonato a metà strada tra l’infanzia e l’età adulta che vede il suo piccolo universo crollare intorno a sé (letteralmente, e qui la metafora “politica” è ancora più marcata) e si aggrappa all’amicizia con un uomo che sostituisce (anche qui, come in Joe) l’assenza marcata di una figura paterna (tema centrale in un film disseminato di padri, figli, patrigni e figliastri) alla ricerca dell’ultimo miraggio della sua innocenza: qualcuno che gli dica la verità. Quella di Sheridan, che è ancora un emergente, non è una prova da poco, ma le scene più struggenti del film sono tutte sue, ed già più che la promessa di un attore. Dopotutto, con quella faccia, non poteva fare altro.
“Mud” non è uscito in sala in Italia e non ha una data d’uscita prevista. Il blu-ray Uk è già disponibile a una decina di sterline.
Frances Ha, Noah Baumbach 2013
Frances Halladay ha 27 anni, è una ballerina, vive a New York, e presto non avrà più una casa. La sua migliore amica, Sophie, ha trovato un altro appartamento, un’altra coinquilina con cui dividerlo. Potremmo dire che Frances Ha racconta i suoi tentativi di trovare un posto dove vivere, tra Brooklyn e Washington Heights passando per Sacramento e Parigi, se non fosse che la trama e la struttura vengono meno di fronte alla stravagante libertà con cui Baumbach narra la storia della sua eroina. Ideato e scritto dal grande regista di Il calamaro e la balena e Margot at the wedding a quattro mani con la sua fenomenale protagonista Greta Gerwig (che dopo Greenberg è diventata anche la sua compagna nella vita) e costruito nelle sua grandi linee anche come una storia d’amore (platonico) in assenza, tra la protagonista e l’amica perduta, Frances Ha è uno dei film più belli di quest’anno – un vero gioiello di cinema indipendente, intelligente ed emozionante nella sua impalpabile leggerezza. Una commedia brillante e nostalgica, tenera e caustica al tempo stesso, girata in un suggestivo e sognante bianco e nero digitale che rimanda ai contrasti di Gordon Willis per la Manhattan di Woody Allen, e dotata di una grazia che la rende un oggetto piacevolmente alieno persino nel frastagliato panorama del cinema indie americano. Un film la cui apparente frivolezza, nelle situazioni e nei (perfetti, divertentissimi) dialoghi, nasconde non soltanto un acuto affresco sociale che trascende la dimensione generazionale (lo stile senza tempo sembra rifarsi alla nouvelle vague, citata esplicitamente nella splendida colonna sonora) ma anche e soprattutto uno studio sul personaggio, singolare e inconsueto. Simpatica, stralunata, sventata, sottilmente malinconica, interpretata meravigliosamente da un’attrice che è una delle più stupende sorprese degli ultimi anni, Frances è un personaggio a cui è impossibile non affezionarsi immediatamente e di cui è lecito innamorarsi perdutamente, una ragazza ancora alla ricerca di un suo posto nel mondo, di un modo di vivere la propria vita senza affrontare la paura di crescere, di un luogo dove poter smettere di volteggiare, dove appoggiare i piedi e sentirsi a casa.
Cattivissimo me 2 (Despicable Me 2), Pierre Coffin e Chris Renaud 2013
Era scontato che il sequel di Cattivissimo Me avrebbe seguito, sopra tutte le altre, una direttiva ben precisa: aumentare la dose di “minions”. I chiassosi e dispettosi aiutanti dell’ex-villain Gru sono infatti una delle più azzeccate invenzioni del cinema d’animazione contemporaneo: graficamente essenziali, minimalisti e infinitamente modificabili, i minions sono stati capaci di trasformare con una perfidia che si rifà alla tradizione dei looney toones e alle comiche del muto, un nuovo franchise divertente ma tutto sommato modesto come Cattivissimo Me in una macchina da soldi in tutto il mondo: il primo incassò 543 milioni di dollari su un budget di 69, questo secondo film è costato poco di più e veleggia già verso il miliardo. Gran parte del merito, soprattutto sui mercati internazionali, è dovuto alla loro immediatezza globale: la cattiveria, la stupidità o la follia dei “minions” si esprimono esclusivamente con la gestualità, oltre che con un idioma inventato che è un miscuglio delle lingue di mezzo mondo, e più in generale con un comportamento che non ha nulla a che fare con la razionalità del mondo adulto. I minions sono una grande trovata, una goccia di anarchia inserita in un progetto di calcolata ragioneria, ed è quindi ovvio che Cattivissimo Me 2 faccia ancora più leva su di loro, mettendoli non più ai margini delle avventure dei “veri protagonisti” e più non solo come spalle ma veramente al centro dell’intreccio, facendone le vittime di un diabolico complotto – e che il film aumenti a dismisura il minutaggio delle loro incredibili fesserie. Il risultato è sinceramente esilarante, anche se l’assoluto spasso del film quando (cioè quasi sempre) ci sono dei minions in scena rischia di rendere ancora più evidente la pochezza del contesto – che già ai tempi era arrivato in enorme ritardo su un capolavoro come Gli Incredibili. A sopperire, stavolta, interviene anche (a patto di vedere il film in lingua originale) la nuova entrata Lucy Wilde, agente schizzata, buffa e romantica che il lavoro impagabile di Kristen Wiig contribuisce a rendere tridimensionale e irresistibile.
Rush, Ron Howard 2013
In piena notte, durante la luna di miele con Niki Lauda, Marlene si sveglia e non trova il marito accanto a sé. Scende le scale e lo trova al piano di sotto, silenzioso e assorto, mentre osserva un fuoco acceso al di là di un vetro. Lo stacco sul volto di Lauda, ripreso dall’esterno, ci mostra, riflesse nel vetro, le fiamme che lo avvolgono. La scena è una delle più inventive e drammatiche di Rush (tra quelle non ambientate su una pista di Formula 1, ovviamente) ed è soltanto uno dei molti nefasti presagi di cui il film è disseminato, in una sorta di azzeramento temporale che trasforma la vita di Lauda e Hunt in quella di due fantasmi sfuggiti – per ora – alla morte. Da un lato c’è un intelligente, antipaticissimo pilota tedesco (Daniel Brühl, favoloso nel mettere in scena un Lauda sfaccettato e sgradevole, penalizzato dal doppiaggio italiano), dall’altra un inglese biondo, fascinoso e donnaiolo. In comune, Niki e James hanno un talento per i motori pagato con cara moneta: un fato tragico, riconosciuto più o meno consapevolmente. È Lauda in prima persona a introdurre la sua storia, all’inizio del film: lo fa dal presente, da narratore omnisciente; poco dopo tocca a Hunt, che racconta invece la vicenda al tempo presente. Intorno ai due piloti gira un mondo intero, incapace di modificarne lo spirito e le sorti (non a caso alle donne sono affidati ruoli ingloriosi, ai margini, eternamente in ansia davanti a un piccolo schermo) che Rush decide di ignorare, concentrandosi unicamente su Niki, James, e sulle loro gare.
Purtroppo il film non riesce a (o non vuole) far uscire i protagonisti dalla rigida opposizione caratteriale che lo script ha voluto frettolosamente inseguire nelle prime battute, senza ammettere troppe sfumature: Lauda e Hunt raccontano loro stessi con una statura eroica, quando in verità sono due personaggi di estrema semplicità, descrivibili con un pugno di aggettivi a testa. Se la sceneggiatura di Peter Morgan non fa molti sforzi in tal senso e dopo un certo punto non inventa più nulla (inserendo il pilota automatico, si direbbe di solito) è Ron Howard a dare il meglio di sé. Con l’aiuto della fotografia di Anthony Dod Mantle, usuale collaboratore di Danny Boyle, il regista ricostruisce una memorabile, terribile annata (prescindendo però dalla complessità dell’universo della Formula 1, quasi un rumore di fondo) in modo impeccabile, facendo sfoggio di soggettive e dettagli, utilizzando (con parsimonia) i materiali d’archivio, lavorando in qualche modo sulla patina ma senza spingersi mai fino al finto vintage, e soprattutto mettendo insieme un pugno di sequenze automobilistiche tese e appassionanti, che fanno perdonare lo scontato sviluppo narrativo. Quando ai personaggi è chiesto o concesso di esprimersi al di là delle proprie pulsioni, il film si rivela prevedibile e affrettato; quando invece si mette in moto e parte davvero, Rush sa essere un esempio emozionante di cinema sportivo: trascinato dal rombo dei motori, Howard riesce a restituire attraverso il linguaggio del cinema, senza troppe raffinatezze, l’istinto primordiale, sensuale a sfidare la morte.
Elysium, Neill Blomkamp 2013
Sembra una vita, ma sono passati solo quattro anni dall’uscita di District 9, un film di fantascienza su cui molti di noi hanno riposto, per anni, un sacco di speranze. Per molte buone ragioni. Era un progetto totalmente inedito, un’opera prima, basata su una sceneggiatura originale. Era un film apolide e di frontiera, prodotto da un neozelandese, diretto da un sudafricano. Non era un film da due soldi, ma i suoi 30 milioni di budget al cospetto di Hollywood parevano briciole. Era anche un film che si proponeva come tutt’altro che sciocco, una metafora dell’apartheid con gli alieni. Ma era pure un film che sapeva il fatto suo, quando si trattava di tirare le mazzate: divertente, spaventoso, qua e là un po’ deviato, strambo, mutante. La domanda giusta era: cosa farà Neill Blomkamp la prossima volta? Il sistema in sé, forse, ci spinse a farci la domanda sbagliata: cosa potrebbe fare Neill Blompkamp con il quadruplo dei soldi? La risposta è stata una di quelle che vanificano tutti i discorsi più idealistici sul talento che, quando c’è, è impossibile da adulterare con il vil denaro: Elysium è stata una delle più cocenti delusioni dell’anno. Ma la batosta è ancora più sonora proprio perché non è particolarmente mal riuscito: è soltanto un film inoffensivo, sterile, quasi insapore, con una sceneggiatura frettolosa e sgraziata, la cui ordinarietà cozza miseramente contro il discorso su classismo e rivoluzione. Quello che Blomkamp aveva mostrato in District 9 qui lo troviamo soltanto nel personaggio interpretato da Sharlito Copley, già protagonista del precedente: il suo Kruger, morto e risorto come un Anticristo sci-fi, è una specie di esaltante e violenta scheggia impazzita la cui missione non sembra tanto quella di distruggere i piani del protagonista, un Matt Damon che ci chiede con troppa vana insistenza di detestarlo, quanto quelli del film stesso, come se Kruger provenisse da un Elysium sotterraneo che si ribella all’Elysium reale ma a cui, presto o tardi, tocca soccombere.
The Way Way Back (C’era una volta un’estate), Nat Faxton & Jim Rash 2013
Nella station wagon non ci sono solo i posti dietro, ci sono anche i posti dietro dietro. In buona sostanza, il baule. Duncan ha 14 anni, è timido e silenzioso, ed è seduto dietro dietro. Vorrebbe passare l’estate con suo padre, invece si sta recando nella casa al mare del nuovo compagno della madre. Un uomo dall’aspetto banale che, da dietro il volante gli fa una domanda crudele (“Che voto ti daresti da uno a dieci?”) a cui fornisce anche una risposta, altrettanto crudele. Nat Faxton e Jim Rash, riconoscibili volti di due belle sitcom dall’alterna fortuna (Ben & Kate e Community) proseguono il percorso del loro sorprendente Oscar come migliori sceneggiatori (per Paradiso amaro) con un malinconico, tenero e divertente esordio alla regia – a dire il vero, molto più compiuto e interessante del film di Payne. Un piccolo film di coinvolgente semplicità, ma scritto con un impareggiabile talento per i dialoghi, in cui l’ambientazione del parco acquatico che non è stato rinnovato per decenni risponde tanto alle esigenze nostalgiche e in parte autobiografiche degli autori quanto all’universalità del racconto di formazione. The way way back infatti rientra nella categoria, ambita ma dalle maglie assai strette, dei film capaci di raccontare quanto possa essere terribile l’adolescenza, la sensazione di essere in balia degli eventi, messo in disparte, dietro dietro, l’angoscia di dover imparare da soli di cosa è fatto il mondo e quella di osservare la vita degli adulti, dall’esterno, con un misto di orrore e cognizione che presto toccherà anche a loro. Il film di Faxton e Rash lo fa mescolando con notevole dimestichezza (e furbizia, a buon fine) il talento comico di un cast perfetto in cui spicca un incredibile Sam Rockwell (anche i registi si ritagliano due piccoli ruoli) e gli elementi più drammatici, tenendosi però sempre a debita distanza dalle svolte patetiche, riuscendo così a risultare originale, autentico e commovente.
Nei cinema italiani dal 28 novembre 2013
Hunger Games: La ragazza di fuoco (The Hunger Games: Catching Fire), Francis Lawrence 2013
Tra le dovute virgolette, il secondo film della saga di Hunger Games ”soffre”, per sua stessa natura, di un vizio che è proprio delle trilogie e che abbiamo vissuto più volte, soprattutto al cinema, in particolare in quello fantastico. Le motivazioni di base, in verità, hanno ben poco di spirituale: l’episodio originario, di solito, viene realizzato senza la certezza di una continuazione, ma gli elementi autoconclusivi devono ugualmente convivere con una spinta, con una potenzialità seriale. Sempre seguendo la norma, invece, il secondo capitolo è costruito sulla sua consapevolezza di essere una “parte”. Questo è un problema, però, soltanto per chi è interessato a Catching fire e non a Hunger Games, una serie cinematografica che grazie a questo secondo, eccellente film prosegue sui binari tracciati dal primo con ferrea coerenza, ma senza risultare ripetitivo o prevedibile; Francis Lawrence, dal canto suo, è riuscito a ereditare un progetto di spaventoso successo facendolo proseguire nella direzione giusta, con mano sicura, senza protagonismi. Se la sua messa in scena è indubbiamente meno “personale” di quella di Gary Ross, il risultato è un film forse meno ambizioso e originale da un punto di vista visivo (anche perché si predilige la riproposizione di elementi già introdotti nel film dello scorso anno) ma decisamente più profondo e riflessivo. Catching fire deve, per forza di cose, mettere ai margini l’anima più action e spettacolare, ma da questa necessità ricava la capacità (e il coraggio, aggiungerei) di concentrare gran parte dei suoi sforzi sullo sviluppo e sulla crescita non solo dei personaggi ma anche del mondo in cui abitano. Dal libro, di cui è un adattamento persino più fedele del precedente, il film ha acquisito una posta in gioco enormemente più alta per l’intero universo narrativo; e sebbene sia facile vederci poco più che un’affannosa rincorsa per Mockingjay (che uscirà in due parti tra il 2014 e il 2015), nelle appassionanti e volatili due ore e mezza di Catching fire, Lawrence riesce ugualmente a restituire un drammatico senso di incombenza che si sviluppa maggiormente nei momenti di quiete. Ha la fortuna, ovviamente, di avere per le mani una delle migliori attrici in attività, non soltanto della sua generazione: Jennifer Lawrence è una complice umile e versatile, e anche stavolta affronta la prova con sbalorditiva professionalità, e mentre intorno a lei il cast di contorno continua a funzionare (in particolare la strepitosa Elizabeth Banks, il cui ruolo diventa finalmente tridimensionale) l’aggiunta, seppur secondaria, di un mostro sacro come Philip Seymour Hoffman regala (in particolare nella scena del “primo ballo”) qualche emozione in più del previsto. In definitica, Catching fire è un secondo capitolo ispirato e brillante, il segno che la saga di Hunger Games sta crescendo in parallelo ai suoi personaggi, e ovviamente al suo pubblico.
L’evocazione – The Conjuring, James Wan 2013
L’evocazione (The Conjuring)
di James Wan, 2013
Tra gli esempi di cinema fantastico che, negli ultimi anni, ha cercato di riportare sullo schermo le suggestioni di un passato non troppo lontano, The Conjuring è stato forse il caso di maggior successo, sia presso il pubblico che per la critica, oltre che un esempio di indubbia efficacia. I due sceneggiatori (i fratelli Hays) avevano già esplorato le potenzialità del vintage in House of wax di Jaume Collet-Serra; qui l’esperimento si fa meno cinico e più filologico, recuperando una metodologia “analogica” dello spavento che sembra voler dialogare con l’ambientazione temporale del film. James Wan, regista abile per quanto (o proprio perché) privo di personalità, dirige con notevole mestiere, senza lasciare traccia di sé, e può contare sulla presenza scenica di due attori come Vera Farmiga e Patrick Wilson, desiderosi di non prendere mai troppo sul serio la severa intensità dei loro ruoli. In definitiva, The Conjuring si rifà quasi più alla tradizione del fantastico americano (dalla Amblin in giù) che al cinema horror, e per questo scontenterà (o ha già scontentato) i più passionali esperti del genere. D’altra parte, nel suo essere un prodotto piuttosto innocuo, pur non inventando nulla né volendo davvero farlo, come divertimento passeggero funziona alla perfezione.
Prince Avalanche, David Gordon Green 2013
Prince Avalanche
di David Gordon Green, 2013
Se il suo ultimo film, lo straordinario Joe con Nicolas Cage presentato a Venezia, rappresenta il ritorno di David Gordon Green alla sua forma migliore e, soprattutto, alla sua originaria passione per il dramma della ruvida, violenta provincia americana, Prince Avalanche si può vedere come la medicina assunta per avviare la disintossicazione, per portare alla riabilitazione di una grande firma del cinema indie statunitense. Limitato nelle intenzioni, nella produzione (è costato meno di 800mila dollari) e nella distribuzione (negli Usa è uscito “on demand”), il delizioso piccolo film ispirato a una pellicola islandese uscita pochi mesi prima permette a Green di “allontanarsi dalla civiltà”, proprio come il suo protagonista, ritrovando nell’amicizia virile tra Alvin e suo “cognato” Lance la chiave di un cinema fresco, onesto, essenziale, originale e profondamente umano. La lunga (e altalenante) esperienza nella commedia, forse, non è stata tempo buttato: in Prince Avalanche, soprattutto nella direzione degli attori (Paul Rudd, in particolare, è fantastico), ritroviamo l’ironia un po’ crudele coltivata negli anni accanto a gente come Jody Hill e Danny McBride – anche se decisamente più gentile, ma ugualmente efficace. Ed è bello poterlo dire così, a posteriori, con una certa sicurezza: questo film minuscolo e speciale è stato il primo passo di un ritorno in grande stile.
Black Rock, Katie Aselton 2012
Black Rock
di Katie Aselton, 2012
Per riappacificare due amiche che non si parlano da anni, Sarah (Kate Bosworth) organizza una gitarella su un’isola che le tre frequentavano da ragazzine. Ma la “roccia nera” non è deserta; la loro vacanza non sarà così rilassante. La sceneggiatura di Black rock è firmata da Mark Duplass, che non è solo il marito della regista Katie Aselton (è anche una delle tre attrici) ma anche l’attore-autore capofila del cosiddetto mumblecore. La cui influenza, in questo curioso thriller, si vede soprattutto nel realismo naif (anche quando si entra in territori horror), nell’acutezza dei dialoghi semi-improvvisati nella parte iniziale (nelle prime battute, Sarah dice di avere pochi mesi di vita, pur di tenere buone le due amiche) e nella componente produttiva – stiamo parlando infatti di un film dal budget ridotto, circa 7 milioni di dollari. L’obiettivo sembra quello di costruire una sorta di inquietante metafora dei rapporti di potere tra i generi, giocando con un pizzico di sadismo con i cliché del dramma al femminile, ma l’originalità della Aselton resta sulla carta quando il film, inizialmente davvero inusuale, diventa una più ordinaria caccia al topo – con ben in mente la saggia prerogativa di poter ribaltare all’occorrenza il ruolo del gatto. Restano, comunque, tratti singolari, soprattutto l’evoluzione selvaggia del personaggio di Lou, la solita bravissima Lake Bell. Pur essendo spezzato (in modo poco elegante) in due parti distinte, Black rock ha anche una grande dote nella sua compattezza: dura appena 80 minuti, quindi non ha nemmeno il tempo di stancare.
The East, Zal Batmanglij 2013
The East
di Zal Batmanglij, 2013
Da queste parti si è parlato a più riprese di Brit Marling, una delle più interessanti e anomale figure del cinema indipendente americano. Dopo aver scritto e interpretato due film eccezionali come Another Earth e Sound of my voice, era quasi naturale che l’attrice si confrontasse con una produzione più ambiziosa e (molto relativamente: siamo intorno ai 6,5 milioni di dollari) più ricca, grazie al patrocinio dei fratelli Scott. Diretta ancora una volta dal Batmanglij di Sound, la Marling mantiene anche il ruolo di co-sceneggiatrice e produttrice, ma The East è un film meno inconsueto dei precedenti: si tratta, di fatto, di un ecothriller all’apparenza piuttosto semplice, su una talentuosa ex agente dell’Fbi, ora impiegata nel settore privato, che si infiltra in un gruppo di attivisti. Il formato dell’undercover cop che rivede le sue posizioni affascinato dal carisma del capo della setta (comprensibile, trattandosi di Alexander Skarsgård) è rispettato, ma il film affronta i temi legati ai metodi e alle responsabilità della sovversione sociale ed economica con una lucidità decisamente superiore alla media hollywoodiana. Poco interessati a dare risposte compiute, tantomeno a tracciare definizioni di merito e colpa, Marling e Batmanglij giocano tutto sull’ambiguità morale dell’una e dell’altra parte; suggerendo, semmai, un’interpretazione più forte con la cinica rigidità di Patricia Clarkson, autentico villain del film. Chiaramente, la Marling si ritaglia il ruolo centrale e lo porta a casa con una prova di notevole intensità, anche se qua e là si fa rubare la scena, e non soltanto da uno Skarsgård terribilmente magnetico: pur relegata al secondo piano, Ellen Page mostra ancora una volta una comprensione assoluta della parte e finisce per regalare alcuni dei momenti migliori del film. Chiuso, ed è un marchio di fabbrica, da un finale a effetto che mette in discussione quanto visto fino ad allora, The East ha portato forse Brit Marling e soci in territori cinematografici più rassicuranti, ma il cinema della sua personalissima setta (il cui prossimo capitolo sarà I Origins di Mike Cahill nel 2014) continua a produrre opere in grado di porre questioni delicate, in particolare sulle nostre aspettative legate al patto narrativo, mascherate da un approccio professionale e impeccabile alle stesse convenzioni del genere. Non è mica da tutti.
Pacific Rim, Guillermo Del Toro 2013
Pacific Rim
di Guillermo Del Toro, 2013
Quand’ero giovane – e dico giovane per davvero, mica per titolo – mi poteva capitare di rivedere un film nuovo una seconda volta. Avevo più tempo libero, più energie? Se non riesco nemmeno a stare a pari con i post sui film che vedo, chiese con un’evidente domanda retorica, quanto tempo potrò mai avere per fare un bis? Nel corso di quest’anno solare, per esempio, mi è successo di rivedere in sala soltanto un film.
Questo film è Pacific Rim.
Il motivo per cui sono tornato a vederlo non ha nulla a che vedere con la razionalità. La prima volta che vedi Pacific Rim, se hai la fortuna ma anche il desiderio di “entrarci” (dimenticando per un’ora e mezza di essere uno sbuffante, bolso, noiosissimo adulto), può essere un’esperienza emotiva totalizzante. In tal senso, il film di Guillermo Del Toro è uno dei più generosi blockbuster degli ultimi (parecchi) anni, si offre totalmente allo spettatore, sostituisce lo strato (sottile o spesso che sia) di sarcasmo con un’avvolgente crosta di passione per l’avventura pura, per le sue meravigliose macchine, per i suoi eroi senza macchia e con qualche paura. Farsi letteralmente travolgere da un film come Pacific Rim (non per forza da lui, dico, ma preferibilmente) è un’esperienza che consiglio, una volta ogni tanto; perché è vero, sembrerai meno figo agli occhi dei tuoi amici (pace all’anima loro) perché tremavi mentre gli jaeger si immergevano sott’acqua per sfidare i kaiju, perché non riuscivi a trattenere una lacrima mentre Idris Elba in armatura motivava i suoi uomini a cancellare l’Apocalisse – ma il film ti invita a fare proprio questo, a fare un viaggio nel tempo, a goderti lo spettacolo del cinema come quando avevi tredici anni, spingendoti a ricordare che quel ragazzino è ancora lì dentro da qualche parte. Perché non accontentarlo? Per quello sono tornato a vedere Pacific Rim, perché la prima cosa che ho pensato quando sono partiti i titoli di coda è stata: dio, che voglia di rivedere questo film. Quante volte vi capita, ormai?
L’ho fatto alla prima occasione – sempre in un teatro IMAX, che fa sicuramente la differenza. E ho capito, o meglio ho avuto conferma (perchè sarò pure un emotivo, ma non sono uno sprovveduto) che un film non può funzionare così bene a livello immediato senza essere un grande film – tanto più che si tratta di un’opera che, nella generale indolenza dei franchise, ha avuto il coraggio di scrivere la propria mitologia su un foglio bianco. La seconda volta ci si diverte ancora, quindi, ma si comincia ad apprezzare, veramente, tutto quello che c’è sotto. La semplice, forse artigianale cura con cui sono disegnati i personaggi, in particolare quello di Rinko Kikuchi. La brillante scaltrezza con cui Del Toro e il co-sceneggiatore Travis Beacham sfruttano sia la comodità dei cliché da action movie (come le schermaglie à la Top Gun) sia una ricchissima dote di precursori culturali (un discorso a sé che sono troppo pigro per fare, e che comunque hanno già fatto tutti), ma sempre e comunque a vantaggio del racconto, sempre con in mente lo spettatore e non i riferimenti stessi. Gli elementi più tipici del regista, come la direzione degli attori, l’abilità nell’usare il comic relief con pertinenza narrativa (Ron Perlman, Charlie Day e Burn Gorman: sono tutti suoi), di bilanciare l’ingombrante carisma dell’incredibile Pentecost con un’ironia imprevista e impeccabile. La fotografia di Guillermo Navarro, il cui apporto è fondamentale in molte sequenze, come quella più clamorosa e complessa del film, il flashback di Mako Mori. Una produzione che è sontuosa, ma serrata, in cui nemmeno un dollaro sembra andare sprecato e dove si respira un’aria di diversità culturale che è difficile riscontrare nei più redditizi (e “più americani”) blockbuster recenti.
Non sono tornato a vedere nessun altro film, forse, perché non c’era nessuno che lo meritasse altrettanto. Lo dico a prescindere da un discorso di qualità, di lista, ma lo dico con il cuore e con la testa – e pure con un pizzico di acrimonia, visto lo scarso successo che Pacific Rim ha avuto presso il pigro, bolso, sbuffante pubblico occidentale. E sapete che c’è? Ho già voglia di vederlo per la terza volta.
Your Sister’s Sister, Lynn Shelton 2011
Your Sister’s Sister
di Lynn Shelton, 2011
La breve era del mumblecore è ormai finita da un pezzo, i suoi protagonisti stanno facendo carriera a Hollywood (anche Mark Duplass, che qui è il protagonista), ma a posteriori un film come Your sister’s sister, diretto dalla regista di Humpday che nel frattempo si è fatta notare anche in tv dirigendo episodi di Mad Men (“Hands and knees”) e New Girl (tra gli altri, lo stupendo “Injured” è opera sua), mostra che il cinema americano può trarre un insegnamento dal metodo di un cinema super indipendente. Con un impianto ridotto all’osso (il film ha solo tre personaggi ed è quasi interamente ambientato in una casa nel bosco), girato in meno di due settimane e costato una miseria (circa 125 mila dollari), il film di Lynn Shelton è una delle migliori, più inusuali commedie romantiche americane degli ultimi tempi: un originale triangolo di segreti, bugie, sentimenti nascosti e madornali errori, sostenuto non solo dai tre splendidi attori (Emily Blunt è sempre una meraviglia, Rosemarie DeWitt sostituisce degnamente Rachel Weisz per la quale era stato scritto il ruolo) ma sulla sceneggiatura impeccabile della stessa Shelton, che gioca in modo singolare e brillante con il conformismo del genere. A impreziosire il film c’è poi il metodo della Shelton, che richiama le sue origini, quello di lasciare a briglia sciolta l’improvvisazione degli attori: una scelta rischiosa (don’t try this at home!) ma che funziona alla perfezione, dando al film una sensazione di genuinità che non ha prezzo.
Purtroppo il film, essendo appunto una commedia originale e intelligente con tre bravissimi attori, non è mai uscito in Italia. Potete rivarvi a pochi euro con il dvd britannico.
Admission, Paul Weitz 2013
Admission
di Paul Weitz, 2013
Anche la simpatia e la bravura di due attori come Tina Fey e Paul Rudd possono essere messe a dura prova quando non sono sostenute da personaggi che valgano la pena di essere seguiti. Ed è quello che accade nell’ultimo dimenticabile film di Paul Weitz, che ritorna a percorrere la strada dei suoi primi due (buoni) film in solitaria, A good company e American Dreamz, quella di una commedia adulta e aggrappata con le unghie alla realtà, purtroppo con risultati assai meno soddisfacenti. La sceneggiatura, troppo intenta a girare intorno al tema dell’istinto materno, dipinge il personaggio di Tina Fey come quello di una donna completamente in balia degli eventi che non sa mai che pesci pigliare, una delle professioniste meno professionali mai viste sullo schermo, e quello di Paul Rudd non è da meno, visto che l’intero improbabile plot è basato su una sua imprecisione dovuta a un eccesso di buona fede e ottimismo. Non è la prima volta che i due non funzionano al cinema, ma come era successo con Date night (dove lui era Steve Carell) anche la loro accoppiata romantica è prova di qualsiasi alchimio; almeno nel film di Shawn Levy c’era un Mark Wahlberg memorabile, qui nemmeno i personaggi secondari (la mamma femminista Lily Tomlin, l’inglese fedifrago Michael Sheen) destano alcun interesse. Si guarda dall’inizio alla fine, perché Tina e Paul sono comunque una delizia e ce la mettono tutta: meritavano uno script e una regia alla loro altezza.
Warm Bodies, Jonathan Levine 2013
Warm bodies
di Jonathan Levine, 2013
Girare una “commedia romantica con gli zombi” dopo Shaun of the dead e Zombieland portando a casa un risultato dignitoso non era un’impresa da niente. Per fortuna, Jonathan Levine è un regista e sceneggiatore in gamba e intelligente che già in 50 / 50 aveva saputo ribaltare le convenzioni del cancer movie e che anche qui decide di fregarsene delle regole e fare di testa sua. Warm bodies parte da due idee vincenti, non solo quella di assumere totalmente il punto di vista di uno zombi (utilizzando la voce fuori campo in modo assolutamente funzionale, per una volta), ma anche quella di partire dai postumi della pandemia; creando, di fatto, una sua mitologia autonoma, in cui gli zombi apprendono i ricordi delle vittime, “invecchiano” (diventando orribili mostri in CGI) e, addirittura, possono guarire. Levine ci tiene a mettere gli obiettivi di questa sua tenera parabola sull’insensibilità generazionale davanti ai precetti del sottogenere, e finisce per trasformare questo disinteresse per il ”canone” in un punto a suo favore. La risoluzione, magari, potrà sembrare un po’ troppo candida (e un paio di passaggi della sceneggiatura sono buttati via con colpevole distrazione) ma l’operazione è condotta con freschezza e senza troppa ruffianeria, una messa in scena adeguata, un ottimo cast e un equilibrio perfetto tra senso dell’umorismo e sentimentalismo spudorato. Un film terribilmente divertente sul micidiale potere terapeutico degli affetti.