Qual è il modo migliore per raccontare le contraddizioni della Cina di oggi? Jia Zhangke, uno dei più riveriti registi della sesta generazione, già premiato a Venezia per il suo bellissimo Still life, non ha alcuna intenzione di farsi imprigionare dalle etichette del cinema d’autore e dirige un film in cui si dissolvono letteralmente i confini che separano abitualmente il cinema di impegno civile dalla tradizione del genere – fin da un titolo suggestivo che rimanda volutamente a uno dei massimi capolavori del wuxiapian. Girati con una personalità spiccata che non teme mai di affiancare, a più riprese, lo stile puro che proviene dal thriller al messaggio doloroso e profondamente contemporaneo che veicolano, i quattro segmenti che compongono A touch of sin, intrecciati tra di loro con un filo a volte sottilissimo, più spesso spiazzante e davvero imprevedibile, non sono semplici episodi separati, né singoli racconti tragici e brutali, ma tasselli di un complesso e affascinante mosaico. Che rappresenta con grande ricchezza il panorama di un paese devastato dalla corruzione e dall’ingiustizia sociale, confuso dalla precarietà dei sentimenti e dalla decadenza dei valori nel nome della prevaricazione e del denaro – usato persino come arma di prepotenza in una delle scene più drammatiche del film. Che è anche un viaggio affascinante e terribile nelle cento facce della Cina odierna: dalle province rurali alle metropoli, passando per le case popolari delle periferie, Jia segue le vicende di personaggi risucchiati dalla violenza, spinti a seguire il richiamo del sangue, tra depressione, vendetta, sopravvivenza e follia. Quattro storie che finiscono per rappresentare un grande affresco, per quanto disperato e accusatorio, dei peccati di un intero paese, vittima di un’incontrollabile esplosione, che rischia di fare a brandelli gli ultimi residui di umanità.
Il passato, Asghar Farhadi 2013
Non siamo più in Iran, ma c’è ancora una separazione al centro dell’ultimo film di Asghar Farhadi: è quella tra la farmacista Marie e l’ex marito Ahmed, che la donna ha fatto arrivare da Teheran alla periferia di Parigi, per firmare le carte del divorzio. Ahmed scopre solo al suo arrivo il motivo dell’urgenza: Marie vuole risposarsi, in terze nozze, con il convivente Samir, che lavora in una lavanderia. Anche quest’ultimo è sposato: sua moglie giace in un letto d’ospedale. Dopo lo straordinario dramma iraniano premiato con un Oscar indiscutibile nel 2012, Farhadi si sposta in Francia, con un cast apolide (su cui spicca una splendida Bérénice Bejo, alle prese con un personaggio umano e difficile) e non perde un briciolo della sua maestria e del suo rigore, confermandosi uno dei più lucidi osservatori del comportamento umano nel cinema di oggi. Costruito su una sceneggiatura di impressionante solidità, Il passato è un film che non ha mai fretta ma che non lascia scampo, svelando gradualmente, come se fossero indizi di un thriller, i dettagli dell’intreccio, le identità dei personaggi, i loro desideri e infine i loro segreti – finendo per rovesciare ancora una volta, in modo chirurgico, le prospettive morali e le aspettative degli spettatori su di esse. Fin dal brillante incipit in cui i due protagonisti non riescono a comunicare attraverso un vetro dell’aeroporto, quello raccontato da Farhadi è un complesso incastro di desideri egoisti, e le incoscienti illusioni di poter cancellare, spazzare via il proprio passato non potranno che scontrarsi l’un l’altra. Ma l’onestà impietosa con cui il regista osserva i personaggi, le loro colpe, i loro rimpianti, non è priva di un’empatia coinvolgente, persino commovente. Se è impossibile fare il tifo per qualcuno, lo è altrettanto non immedesimarsi in quest’umanità ferita, incapace di andare avanti, ma sempre alla ricerca ostinata, afflitta e forse vana di un po’ di felicità.
Drug War, Johnnie To 2012
Come ogni regista in grado di plasmare il cinema che gli sta intorno, Johnnie To è stato tanto influente nel panorama del thriller dell’area cinese (e non solo) quanto imitato, con risultati alterni. La sua prolificità, peraltro, gli ha permesso di farsi perdonare, nel corso degli anni, di non essere stato sempre al 100% delle sue possibilità e di aver sfornato, in mezzo ai suoi più grandi film, anche titoli tutt’altro che epocali. Ma ogni tanto, e a dire il vero spesso, arriva un suo film capace di spazzare via tutto il resto e ricordarci che solo Johnnie To può girare un film di Johnnie To.
Capita, in modo piuttosto inequivocabile, con l’enorme Drug War: presentato nel 2012 al Festival di Roma, è uno sconvolgente gangster movie, una missione-sfida tra poliziotti e spacciatori nell’arco di 72 ore in una Cina che ha dichiarato guerra alla droga. Costruito su un meccanismo narrativo oliato ma rigorosissimo e impeccabile, il film non si risparmia autentici pezzi di bravura che a volte sembrano diventare una riflessione sulla messa in scena (una parte del piano di Sun Honglei lo vede “interpretare” il ruolo del nemico, portando gli spettatori a rivivere la stessa sequenza più volte) e monta gradualmente la sua tensione fino allo straordinario finale. Lunga e sanguinaria, coordinata con la solita ineguagliabile precisione e un gusto estetico maniacale, la conclusione di Drug War conferma l’anima più nera di To e più che al brillante ma catartico citazionismo di Exiled sembra rifarsi al nichilismo totale di un capolavoro della Milkyway come Expect the unexpected di Patrick Yau. Un finale senza vie di scampo che sbatte la porta in faccia agli epigoni, ricordandoci cosa può fare e cosa può essere un maestro del cinema al pieno della sua forma.
Journey to the West: Conquering the Demons, Stephen Chow (e Derek Kok) 2013
Ci sono voluti cinque anni perché Stephen Chow tornasse alla regia dopo la (relativa) delusione del tenero CJ7. Per il suo ritorno, una delle più grandi star in patria (ma anche all’estero grazie a due titoli epocali come Shaolin soccer e Kung Fu Hustle) ha scelto di restare soltanto dietro la macchina da presa e tornare alle origini, dirigendo l’ennesima variazione sul tema di Journey to the West, il poema epico cinquecentesco che ha dato il vita, tra i tanti film e serie tv, a un capolavoro come il dittico A Chinese Odyssey di Jeffrey Lau (1995) di cui Chow era proprio il protagonista. Gli impressionanti numeri di questo Conquering the demons al box office cinese (è il più grande incasso del 2013) sono comprensibili: in questo affollato racconto fantastico pieno di trovate, bizzarrie, magie, combattimenti, amori e morti spietate, si respira un amore puro per il cinema d’avventura (e per la grande tradizione di Hong Kong) ma si ritrovano anche tutte le caratteristiche del cinema della superstar Chow, dal percorso di riscatto del perdente emarginato (l’imbranato ma volenteroso protagonista Tang Sanzang, qui interpretato da Wen Zhang) al suo umorismo tipicamente demenziale che va a braccetto con un esasperato romanticismo – dualità incarnata perfettamente dalla meravigliosa, magnetica e ironica Shu Qi. Fin dalla prima, folle sequenza, in cui un demone marino aggredisce un villaggio facendo fuori un’intera famiglia in pochi bocconi, Chow mette subito in chiaro uno spiccato e divertito sadismo (di cui faranno le spese soprattutto i personaggi secondari), oltre che un disinteresse totale nei confronti del pubblico “globale”, lo stesso a cui sembrava essersi rivolto con le sue ultime opere, e allo stesso modo delle loro limitanti convenzioni narrative. Complice l’espansione crescente del mercato cinese, questo è un film pensato per il pubblico locale, che è in grado di cogliere ogni sfumatura, ogni citazione della complessa mitologia che ruota attorno al “monkey king”, un’audience che è in linea con l’incontenibile surrealismo della messa in scena e che infatti ha risposto con notevole entusiasmo. Ma la verità è che il genio di Chow è in grado di attraversare, abbattere, calpestare queste differenze culturali, e che c’è un pezzo del suo Journey to the west anche per noi poveri, grigi, tristi occidentali; a patto di settare la propria mentalità su “aperto” e il proprio senso dell’umorismo su “completamente fuori di testa”, Conquering the demons è un film irresistibile, prodigioso e sinceramente esilarante.
Stoker, Park Chan-wook 2013
Stoker
di Park Chan-wook, 2013
Quando hai un blog che sta per compiere dieci anni, è inevitabile, talvolta, che si diventi insopportabilmente nostalgici. La trappola è sempre aperta, nascosta dal fogliame dei pretesti. Chi ha avuto la fortuna di frequentare i (pochi ma buoni) blog italiani di cinema intorno alla metà dello scorso decennio, come autore o come lettore, sa cosa abbia rappresentato Park Chan-wook in quegli anni per noi, piccola inascoltata setta dedita al culto di film come Joint Security Area, Mr Vengeance e – ovviamente - Oldboy. Ma anche se quest’ultimo titolo ha goduto, insieme al suo successivo capolavoro Lady Vendetta, di una popolarità che non avremmo mai immaginato, l’interesse per Park è scemato non appena si sono esaurite le etichette che rendevano facilmente vendibili i suoi film.
Ovviamente Stoker è tutto un altro discorso: è il suo primo film in inglese. Non è, perlomeno, la canonica “svendita americana” dell’autore asiatico di culto (la produzione è anglo-statunitense) e nonostante sia un’opera su commissione o giù di lì (la celebrata sceneggiatura preesistente è firmata da Wentworth Miller, l’attore di Prison Break) nel film si ritrova indubbiamente il gusto visivo del regista, l’incredibile talento di Park nel giocare con gli ambienti, con i colori, e più in particolare con gli oggetti. Il problema è che, sotto al persistente ondeggiare della macchina da presa, c’è il vuoto assoluto: Stoker è un film che ci suggerisce il suo essere ambiguo, inquietante, perverso, ostinandoci a ripertercelo (un po’ come quando un film pensa che per commuovere basti un personaggio che piange) e associando alla raffinatezza della direzione artistica dei dialoghi risibili e una direzione d’attori che al centesimo sguardo intenso sfocia nell’auto-parodia. L’esperienza perlopiù innocua, perdonabile, di Stoker diventa davvero irritante solo a posteriori: il film, infatti, ingrana la marcia negli ultimi dieci minuti, diventando all’improvviso favoloso, interessante – e lasciandoci sui titoli di coda con l’impressione di aver assistito a un lungo, tedioso antefatto. A salvarsi, ancora una volta, è invece Mia Wasikowska, che riempie lo schermo con la sua enigmatica, impenetrabile bellezza, restituendo un po’ di quel senso di stravagante sconcerto che nel resto del film risulta preconfezionato e fasullo.
In definitiva, di questo Park elegante, infido e sostanzialmente pigro da morire, non so che farmene. Chiediamoci, invece, che fine abbiano fatto i suoi due film precedenti, da lui co-sceneggiati come tutte le altre sue regie, minori ma comunque splendidi: I’m a cyborg e Thirst sono due sbalorditive anomalie d’autore che in Italia non hanno trovato un centimetro di spazio, nemmeno tirando in ballo cyborg e vampiri, nemmeno in mercati onnivori e indiscriminati come l’home video e il satellite. Forse senza la fascetta “della vendetta” non sarà così facile, ma è incredibile che, dopo quasi dieci anni, ci si debba ancora lamentare di una cecità, della distribuzione ma anche di parte del pubblico, che nasconde una forma sibillina ma radicata di razzismo. Pensavate che fosse cambiato tutto? Non è cambiato proprio niente.
Vita di Pi, Ang Lee 2012
Vita di Pi (Life of Pi)
di Ang Lee, 2012
Una storia che, per la maggior parte della sua durata, ha tre protagonisti: un ragazzo, una tigre, l’oceano. Trasferire sullo schermo un romanzo come quello di Yann Martel non era un’impresa da poco (non solo per questa ragione: lo sa bene chi conosce il funzionamento del libro, che preferisco non rivelare) e ci hanno provato diversi registi nel corso di una decina d’anni, da Shyamalan a Jeunet.
Alla fine l’incarico è toccato ad Ang Lee, un autore con un riconosciuto spirito di adattamento; il regista taiwanese è riuscito a vincere la sfida con grande naturalezza ed eccezionale maestria, trasformando Vita di Pi in un film suggestivo, incantevole ed emozionante. Visivamente, prima di tutto, è uno dei più clamorosi traguardi del cinema americano recente; non tanto per la strabordante ricchezza di colori, luci, stimoli (a partire dai formidabili, semi-documentaristici titoli di testa nello zoo) e non solo per la perfezione micidiale della CGI, quanto per la cura sovrumana della regia: con l’aiuto del direttore della fotografia Claudio Miranda (che si è fatto le ossa con Fincher: è abituato a sperimentare), Lee porta a compimento uno stupefacente paradosso: Vita di Pi è quasi tutto ambientato su una piccola scialuppa, eppure ogni singola inquadratura è una nuova scoperta.
Ma in tutto questo splendore visivo, che talvolta si trasforma in allucinazione, Lee riesce a infondere una sentita e mai banale spiritualità; senza allontanarlo, quindi, dalla natura più profonda della storia, quella di una riflessione sulla ricerca incessante della (propria) fede che va a braccetto con uno studio sulla soggettività della narrazione, manifestato nella parte finale con inattesa durezza. E allo stesso tempo, senza dimenticare la sua dimensione più spettacolare: quella del naufragio, per esempio, è una sequenza a cui difficilmente si arriva preparati, dieci minuti di puro cinema, grandioso e spaventoso, il cui impressionante impatto, per una volta, è valorizzato da un 3D davvero sorprendente.
Perché uno degli aspetti più straordinari di Vita di Pi è la potenza espressiva con cui viene utilizzata questa tecnologia: in un un momento in cui il 3D sembra diventato, in molti casi, un modo per aumentare furbescamente il prezzo dei biglietti, Ang Lee lo sfrutta invece con una destrezza e con un’intelligenza che lasciano spesso a bocca spalancata, restituendo un raro e prezioso senso di autentica meraviglia. Il concetto è chiaro: nessun progresso è buono o cattivo in sé, ma dipende dall’uso che se ne fa – e questo bellissimo film riuscirebbe a convertire anche il più testardo degli scettici. Se dovete vedere anche un solo film in 3D nella vostra vita, fate che sia Vita di Pi.
C’era una volta in Anatolia, Nuri Bilge Ceylan 2011
C’era una volta in Anatolia – Once upon a time in Anatolia (Bir zamanlar Anadolu’da)
di Nuri Bilge Ceylan, 2011
Un dottore che viene dalla città, un pubblico ministero con problemi alla prostata, il capo della polizia e alcuni membri delle forze dell’ordine accompagnano nella steppa dell’Anatolia Centrale due fratelli ammanettati, rei confessi, alla ricerca del corpo dell’uomo che hanno ucciso ubriachi. A causa del buio e dei postumi i due però non riescono a riconoscere il luogo dove l’hanno seppellito. Comincia così il film del regista turco Nuri Bilge Ceylan, vincitore del Gran Prix a Cannes (pari merito con i Dardenne), ma è evidente che siamo distanti dai meccanismi del cinema investigativo: le auto si muovono lentamente in uno scenario buio e inospitale, i personaggi si fermano di tappa in tappa parlando di argomenti seri come faceti, fino a quando un dialogo tra il medico e il procuratore spalanca un’inquietante verità sulla vita di quest’ultimo. Aiutato dalla straordinaria fotografia di Gökhan Tiryaki, davvero una delle più ipnotiche e incredibili degli ultimi tempi, Ceylan gira con uno stile formidabile e controllatissimo (un esempio: l’inquadratura che si stringe lentamente sul viso sconvolto dell’omicida, seduto nei posti dietro dell’auto) che a volte sembra avere l’ambizione di avvicinarsi, almeno nei primi due atti, a un’idea di cinema puro: l’ingresso della figlia del sindaco, seguita dagli sguardi increduli dei personaggi quasi catatonici, increduli di fronte alla improvvisa, semplice quanto violenta bellezza, è una delle scene più intense degli ultimi tempi – ma il film è pieno di momenti rivelatori, silenziosi e scioccanti, in cui sono l’immagine e la natura a fare da commento ai turbamenti dell’umanità, come lampi nel buio che rivelano minacciosi volti incisi nella roccia. Nell’ultima parte poi il film si appropria di un punto di vista preciso, quello del medico, concentrandosi sul contrasto tra l’idealismo morente del dottore e la sua graduale, tragica rivelazione di una cecità morale che porta a una duplice perdita dell’innocenza. Un film bellissimo che, nonostante la durata e il ritmo indolente, chiede solo un po’ di impegno – e restituisce dieci volte tanto.
The Raid: Redemption, Gareth Evans 2011
The Raid: Redemption (Serbuan Maut)
di Gareth Evans, 2011
Notte fonda. Nel suo appartamento, il giovane Rama si allena, prega. Saluta la moglie, le accarezza il grembo: “aspetta che tuo padre torni a casa, ok?”. Poi saluta il padre, gli dice: “lo riporterò”. In un mezzo corazzato la squadra di Rama, che è l’ultimo arrivato, il “novellino”, si prepara ad attaccare il condominio dominato dal boss Tama Riyadh. “Andiamo a purificare questa cazzo di città”, piano per piano, come in un platform. Ma Tama non si fa cogliere impreparato, anche perché ha un folto e pericolosissimo esercito: gli inquilini del palazzo. Non si perde tempo: l’assalto comincia dopo pochi minuti e da lì alla fine del film non ci sarà più un secondo di tregua né un attimo per fermarsi a riflettere. Presentato a Toronto, a Torino e al Sundance, uscito poi in sala negli states accolto dall’entusiasmo della critica, il terzo film del gallese Gareth Evans, innamoratosi del “pencak silat” durante le riprese di un documentario (e facendone già il fulcro del precedente Merantau) è riuscito in un’impresa che va ben oltre la scoperta occidentale di Iko Uwais e di quest’arte marziale tradizionale indonesiana: ha alzato spaventosamente l’asticella del ritmo, della violenza e della qualità, ponendo nuove basi per il cinema di arti marziali (le prove atletiche di Uwais o del “cane pazzo” Yayan Ruhian fanno quasi impallidire quelle di stimati colleghi come Tony Jaa e Jeeja) ma forse anche per l’action in generale. La differenza la fa proprio Evans, che è un regista vero, uno che sa trasformare pianerottoli di periferia nel campo di battaglia di un film di guerra, e che dirige con una precisione mostruosa e un’impressionante creatività. Basta guardare la ricchezza e la cura dei movimenti di macchina durante le scene più concitate per rendersi conto che sotto la spietata brutalità apparentemente caotica del suo film si nasconde un gusto per la ricerca tutt’altro che scontato – con la macchina da presa che si inclina insieme ai calci e ai corpi sollevati, che cade insieme ai corpi sbattuti a terra, che corre e urla insieme a Rama per i corridoi del palazzo, senza perdere o sbagliare un colpo. Un film che si guarda dall’inizio alla fine senza quasi riuscire a respirare e che, probabilmente, sta già cambiando le regole del gioco.
Il film è nel listino di One Movie e quindi dovrebbe uscire, presto o tardi, anche in Italia.