Cinema Coreano

Castaway on the moon, Lee Hae-Jun 2009

Castaway on the moon (Kimssi pyoryugi)
di Lee Hae-Jun, 2009 

Il trionfatore indiscusso del Far East Film Festival di Udine, nell’edizione di tre anni fa, è effettivamente una commedia sentimentale sui generis davvero sorprendente. Lee Hae-Jun, anche sceneggiatore, porta alle estreme conseguenze il discorso sull’alienazione urbana raccontando la storia di due personaggi sull’orlo del precipizio: lui è un aspirante suicida che finisce naufrago su un isola disabitata nel bel mezzo di Seoul (esiste davvero, si chiama Bamseom); lei è una ragazza che, a causa di una bruciatura sul viso, è rinchiusa da anni nella sua stanza dove ha maturato una dipendenza dal social network Cyworld, sul quale ha creato un’identità fittizia. Ovviamente i due sono destinati a incontrarsi, ma sarà una strada lunga che li metterà alla prova fino alle estreme conseguenze, in un film che con talento e leggerezza mescola una comicità quasi demenziale, un’intensità da melodramma e un tenerissimo romanticismo: un piccolo gioiello.

***

Poco tempo fa, per vedere un film come questo, avremmo dovuto fare i salti mortali. Ora, grazie alla moltiplicazione dell’offerta digitale e, soprattutto, all’intervento di un distributore illuminato come la Tucker Film e di un canale pronto a sperimentare come Rai4, Castaway on the moon è andato in onda in Italia in tv, in prima serata e in chiaro. Ecco i prossimi titoli del ciclo, ogni martedì sera, tutti imperdibili:

15 gennaio: A bittersweet life di Kim Ji-Woon
22 gennaio: Exiled di Johnnie To
29 gennaio: Blind di Ahn Sang-hoon
5 febbraio: The man from nowhere di Lee Jeong-beom
12 febbraio: Overheard di Alan Mak e Felix Chong
19 febbraio: Overheard 2 di Alan Mak e Felix Chong
26 febbraio: Reign of assassins di di Su Chao-Bin e John Woo

Pietà, Kim Ki-duk 2012

Pietà
di Kim Ki-duk, 2012

Gran parte delle (perlopiù sterili) polemiche che hanno fatto seguito all’ultima Mostra del Cinema hanno ottenuto un effetto spiacevole, quello di spostare l’attenzione dall’effettivo valore del vincitore. Vale la pena di ribadirlo: Pietà è uno straordinario, meritatissimo Leone d’Oro, arrivato giusto con qualche anno di ritardo dopo la seccante sequela di argenti nei festival di mezzo mondo; è il film che chiude la lunga crisi creativa e psicologica di Kim, quella che ha prodotto lo sperimentale, autobiografico Arirang; ed è quello che vede tornare nel pieno della sua forma, al suo diciottesimo titolo, uno dei più grandi registi asiatici in attività. Ambientato in un mondo letteralmente inghiottito dal capitalismo, dove i palazzi moderni incombono sui quartieri ai margini della società e in cui il denaro è “l’inizio e la fine di tutte le cose: amore, onore, rabbia, violenza, odio, gelosia, vendetta”, Pietà è una parabola sconvolgente, insieme poetica e terrena, violenta e definitivamente umana, sulle conseguenze devastanti dell’avidità che utilizza il noto meccanismo narrativo, vorticoso e inarrestabile, della vendetta per parlare di dolore e sacrificio in un mondo privato della misericordia, trovando in Jo Min-Soo l’interprete formidabile di un castigo che nella sua estrema determinazione risuona quasi come l’ultimo grido, l’ultimo pianto soffocato di un’umanità sconfitta. Un grande racconto morale in cui ritroviamo anche il gusto geniale del regista per la composizione visiva; più in generale, una clamorosa potenza espressiva: e il film si chiude con una delle immagini simboliche più forti di tutto il portentoso, sbalorditivo, imperdibile cinema di Kim Ki-duk.

As One, Moon Hyeon-seong 2012

As One (Korea)
di Moon Hyeon-seong, 2012

Nel 1991 in Giappone si svolge il 41° campionato mondiale di tennis tavolo e per la prima volta dalla scissione, Corea del Nord e Corea del Sud decidono di formare una sola squadra con cui affrontare l’apparentemente imbattibile team cinese. È il primo passo di un accordo che in realtà, lo sappiamo fin dall’inizio, non avrebbe portato lontano: oggi le due nazioni sono ancora divise da una frontiera invalicabile. Ma ai tempi in Corea il torneo travolse l’opinione pubblica con il suo devastante potere simbolico diventando nel corso degli anni uno degli eventi sportivi più noti e celebrati, non senza malinconia, della storia della nazione. Per raccontare un momento storico così radicato nella memoria collettiva, Moon Hyeon-seong (che ha raccolto il testimone del progetto da Kim Ji-woon) ha scelto di seguire le vicende reali (con la consulenza dei veri protagonisti) guardandole attraverso la lente illuminante del cinema popolare: As One segue in tutto e per tutto i precetti del film sportivo, partendo dalla diffidenza tra atleti provenienti da due mondi diversi fino all’amicizia e alla complicità, concentrandosi soprattutto sul rapporto tra le due eroine del torneo, Hyun Jung-hwa per il Sud e Li Bun-Hui per il Nord, raccontato quasi come una storia d’amore messa a dura prova dalle avversità della Storia. Le due attrici (rispettivamente Ha Ji-won e la fantastica, perfetta Bae Du-na) offrono una prova convincente e intensa (un peccato non poter cogliere i frutti del lungo lavoro fatto dal cast sulle differenze linguistiche e di accento) e Moon al suo esordio alla regia mostra un talento davvero magistrale nello sfruttare, sfrontato ma disperatamente nostalgico, i cliché del genere per andare dritto al cuore dello spettatore, senza tirarsi mai indietro di un passo e mescolando con grande abilità la coscienza civile e i sentimenti spezzati dei suoi personaggi. E contravvenendo alle regole soltanto nell’ultimo, devastante, quarto d’ora di film, quando il potere dello sport e del cinema viene annichilito dall’inevitabile crudeltà dei fatti. Il risultato è una pacchia infinita per chiunque vada a nozze con il cinema sportivo, e uno dei film più maledettamente commoventi che io abbia visto negli ultimi tempi.

Il film è stato un discreto ma non enorme successo, per ora è 18° tra gli incassi dell’anno in Corea.

Il dvd al momento sembra essere disponibile solo in edizione coreana (Regione 3) a circa 23 euro.

Nameless Gangster, Yun Jong-bin 2012

Nameless Gangster (Bumchoiwaui junjaeng)
di Yun Jong-bin, 2012 

Siamo a Busan all’inizio degli anni novanta. Per ordine del Presidente in persona, comincia un’intensa e strategica lotta al crimine organizzato. Una delle persone coinvolte negli arresti è Choi Ik-hyun (interpretato da Choi Min-sik), ma un flashback ci rivela subito la verità sulle sue origini: meno di un decennio prima, Choi è un doganiere dagli incerti confini morali che si ritrova tra le mani un carico di eroina, sul quale cercherà di costruirsi una nuova (mala)vita. Uno dei maggiori incassi di quest’anno in Corea del Sud, svolgendosi tutto nel corso degli anni ottanta, sembra inserirsi in qualche modo nel filone nostalgico che ha avuto così grande successo negli ultimi tempi; in realtà si tratta di un robusto gangster movie, scorsesiano più negli sviluppi narrativi che nella messa in scena onesta e professionale di Yun Jong-bin, costruito quasi interamente sull’ambiguità del protagonista: un personaggio diviso tra talento e vigliaccheria, tra sfrontata arroganza e totale passività di fronte agli eventi. Diretto con mano sicura senza mai strafare, limitando al minimo i guizzi di stile e le scene madri (anche se la sequenza in cui Ik-hyun provoca volontariamente il rivale di Hyung-bae per scatenarne la rappresaglia è magistrale) il film lascia spazio libero ai due attori: buona parte del film è infatti incentrata sul rapporto tra il protagonista e Choi Hyung-bae, un giovane gangster lontano parente (intepretato dal favoloso Ha Jung-woo di The Chaser e The Yellow Sea) con cui Ik-hyun crea un’apparente situazione di co-dipendenza. E quella di Choi Min-sik è, ancora una volta, una performance memorabile: ironica, tagliente e sofferta, il ritratto di uno sgradevole perdente il cui cinismo infettivo si cela dietro una maschera innocua e banale, quasi ridicola. Più pericolosa e resistente di qualunque decaduto codice d’onore.

Per il momento del film, uscito a febbraio in patria, esiste solo un’edizione dvd coreana (Regione 3).

Architecture 101, Lee Yong-Joo 2012

Architecture 101 (Geon-chook-hak-gae-ron)
di Lee Yong-Joo, 2012

Uno dei più grandi successi al botteghino sudcoreano lo scorso anno è stato Sunny, un film che tra le altre cose fa leva sulla ritrovata nostalgia degli anni ottanta; allo stesso modo, uno dei campioni al box office di questa prima metà del 2012 (per ora il quarto incasso) è Architecture 101, in cui sono gli anni novanta al centro della narrazione. La costruzione dei due film è simile: qui l’architetto Seung-min viene contattato da Seo-yeon, una sua amica del primo anno di Università, che gli chiede di costruirle una casa sui ruderi di una sua vecchia proprietà, senza dargli troppe spiegazioni. Il resto del film, come già in Sunny, è raccontato in parallelo tra passato e presente, permettendoci di scoprire gradualmente la verità sul loro rapporto, su cosa li aveva allontanati, sul perché di questo improvviso ritorno. La grande differenza, anche con la norma del film sentimentale, è nella prospettiva da cui viene narrato – e, di riflesso, nel target: infatti il film è stato un enorme successo prima di tutto grazie al pubblico maschile.

Al suo secondo film dopo un horror (Possessed) Lee Yong-Joo, anche sceneggiatore, mostra di saper sfruttare la recente nostomania coreana con garbo e astuzia ma anche con classe e intelligenza, attirando il pubblico generazionale con un notevole armamentario d’epoca (i cercapersone, la spuma per capelli, un lettore cd portatile che diventa un elemento essenziale della trama) e con un’ironia sulle ingenuità di un passato prossimo che pare remotissimo (il dialogo sull’hard disk da 1 GB, “non ti basterebbe una vita per riempirlo”) ma concentrando poi quasi tutti gli sforzi sul lato più tradizionalmente romantico del film. Che funziona alla perfezione, soprattutto grazie all’universalità di una storia sul rimpianto e sulle occasioni perdute, ma anche a un ottimo cast (in primis le due Seo-yeon: l’incantevole Han Ga-in e la giovanissima Bae Suzy, una teen idol in patria), nonostante le età degli attori siano tutte visibilmente sfasate, a una brillante sceneggiatura che affianca l’esplorazione topografica a quella emotiva, e a una conclusione malinconica e tutt’altro che scontata.

L’immancabile canzone-feticcio del caso è “An Essay of Memory” degli Exhibition.

 

Punch, Lee Han 2011

Punch (Wan-deuk-i)
di Lee Han, 2011

Cresciuto dallo zio e dal padre, un gobbo clown venditore ambulante, il diciassettenne Wan-Deuk vive in un quartiere popolare, taciturno e isolato dai suoi coetanei. Il suo scontroso professore e vicino di casa Dong-Joo, per la cui morte Wan-Deuk si ritrova periodicamente a pregare, lo prende sotto la sua protezione a modo suo, e dopo avergli rivelato l’identità della madre, lo aiuta a coltivare il suo talento: la lotta. Che a dispetto della trama e del titolo internazionale Punch non sia un film di boxe né un “film sportivo” in senso stretto lo si evince facilmente dal fatto che in tutto il film c’è un solo vero incontro di kickboxing, anche se non mancano alcuni cliché del genere – come il montage degli allenamenti. Il film di Lee Han, sorprendente successo al box office (quarto film più visto in assoluto del 2011 in Corea del Sud), è in verità una gradevole commedia proletaria che funziona sia come romanzo di formazione di un giovane povero alla ricerca della sua identità e della felicità, sia come storia di un’amicizia impossibile e di rapporti paterni irrisolti, sia infine come affresco quasi corale di una bizzarra comunità di perdenti che imparano a farsi forza a vicenda. Lee Han riesce nell’intento di trasformare una materia potenzialmente deprimente in un vero e proprio feel-good movie, il cui ottimismo in barba alle avversità sociali ed economiche risulta in definitiva quasi travolgente nella sua ingenuità. Il cast è ottimo e Yu Ah-In è perfetto nel ruolo del ragazzino ribelle (nonostante abbia già 25 anni) ma la differenza vera la fa lo strabiliante Kim Yun-Seok, che dopo essersi fatto notare nei due bellissimi film diretti da Na Hong-Jin (The Chaser e The Yellow Sea) sfodera qui, nel ruolo del burbero professore marxista, un inaspettato e sfumatissimo talento leggero: davvero uno dei migliori attori coreani di questi anni.

Il film è stato presentato al Far East Film Festival di Udine lo scorso aprile.

Su Yesasia è disponibile l’edizione dvd coreana (Regione 3).

Sunny, Kang Hyeong-Cheol 2011

Sunny (Sseo-ni)
di Kang Hyeong-Cheol, 2011

Durante una visita all’anziana madre in ospedale, Na-Mi incontra una vecchia amica d’infanzia, che la informa di essere malata e ormai terminale. E le rivela un desiderio: incontrare di nuovo il gruppo di amiche (le “Sunny”) con cui entrambe hanno perso i contatti da più di vent’anni. Presentato nella opening night del Far East Film Festival di quest’anno, Il film di Kang Hyeong-Cheol (già regista del campione d’incassi Scandal Makers) è stata la vera sorpresa del botteghino sudcoreano nel 2011: terzo titolo più visto dell’anno (7,3 milioni di biglietti) per una storia che mescola malinconia e leggerezza rivelando gradualmente le storie passate e i destini delle sue protagoniste. A dispetto delle possibili apparenze, è veramente impossibile resistere a Sunny: anche autore della brillante e ingegnosa sceneggiatura, Kang ha sfruttato al meglio un ricchissimo cast di straordinarie interpreti (sia nel presente che nel passato) e grazie a un uso magistrale (anche tecnicamente) del montaggio parallelo ha trovato un equilibrio perfetto tra commedia e dramma, ma anche tra il gusto per il racconto e quello per la ricostruzione storica, peraltro di un popolo che in quegli anni stava attraversando grandi cambiamenti tra cui l’inizio di un’inesorabile occidentalizzazione (il mito de Il Tempo delle Mele, l’ossessione per i marchi) in contrasto con la coercizione della dittatura militare. Particolarmente originale è proprio il modo in cui Sunny affianca le vicende personali dei suoi personaggi alla Storia del paese, in particolare alla violenta repressione dei movimenti studenteschi da parte dell’esercito del presidente Chun Doo-hwan; il culmine è la sequenza inaudita in cui la rissa tra le due bande di ragazzine ha come sfondo proprio le lotte tra i manifestanti e i poliziotti nelle strade di Seoul, sdrammatizzata da uno stile cartoonesco e dalle note di Touch by touch dei Joy. La musica, più in generale, ha un’importanza fondamentale nel film: l’inevitabile Reality di Richard Sanderson, ma anche le canzoni di Cyndi Lauper e ovviamente il pezzo di Boney M che dà il nome al gruppo di amiche (e al film) e che diventa poi il fulcro di un finale sfacciatamente commovente.

War of the Arrows, Kim Han-min 2011

War of the Arrows (Choi-jong-byeong-gi Hwal)
di Kim Han-min, 2011

Si fa un gran parlare di una recente tendenza, forse del tutto casuale: la notevole presenza di archi e frecce in molti film come Hunger Games, Brave o The Avengers ma anche in tv con i prossimi Arrow Revolution. A modo loro, in Corea del Sud sono arrivati un passo in anticipo. In un anno particolarmente fortunato per il botteghino sudcoreano, il campione d’incassi tra i titoli locali è stato proprio il film di Kim Han-min, che nel corso del 2011 ha totalizzato quasi 7 milioni e mezzo di spettatori – battuto solo, ma a breve distanza, da Transformers 3. Ambientato durante l’invasione della Corea da parte della Manciuria (siamo nel 1636, per capirci), War of the Arrows è un film di avventura in costume dove le più tradizionali arti marziali e le lame del wuxia lasciano il posto a miracolosi e precisissimi tiri con l’arco, tendendo ad allontanarsi dalla cornice storica per concentrarsi sulla sfida a frecciate tra l’eroico arciere Nam-Yi e la sua nemesi Jyuu Shin-Ta. Il cuore del film è infatti il lunghissimo e appassionante inseguimento che occupa quasi tutta la seconda metà e che Kim Han-min orchestra con ritmo e intelligenza, quasi senza dialoghi, giocando sul continuo ribaltamento tra vittima e carnefice, azzeccando alcune ottime trovate (soprattutto quella della rupe) e recuperando l’interesse che, nella prima parte, si faceva desiderare – fino all’inevitabile pathos dello scontro finale. In definitiva, il film è un divertimento innegabile anche se piuttosto standardizzato e senza particolari guizzi. Se non nel cast: a parte la sfida virile tra due facce incredibilmente carismatiche come quelle di Park Hae-Il (il buono) e Ryoo Seung-Ryong (il cattivo), anche la brava semi-esordiente Moon Chae-won (già star della tv coreana) riesce a farsi notare a dispetto del poco spazio rimasto.

Il film è già disponibile nell’edizione dvd britannica, anche in blu-ray.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

Spellbound, Hwang In-ho 2011

Spellbound / Chilling Romance* (O-ssak-han Yeon-ae)
di Hwang In-ho, 2011

Tra gli aspetti che mi colpirono subito del cinema sudcoreano, quando cominciai a interessarmene, c’era la capacità di mescolare i generi e soprattutto i registri con sfrontatezza, entusiasmo e qualche volta persino con coraggio. Spellbound in tal senso si racconta molto facilmente: è in tutto e per tutto una commedia romantica, tipicamente coreana, ma è anche una tenebrosa ghost story, ben inserita nella recente tradizione del k-horror. L’ostacolo alla storia d’amore tra l’illusionista Jo-Goo e la solitaria assistente Yeo-Ri è infatti un particolare talento di quest’ultima: vede la gente morta. E chiunque le stia troppo vicino rischia di diventarne vittima.

Hwang In-ho, sceneggiatore al suo esordio dietro la macchina da presa, riesce con mano sicura a far convivere le due anime del film: da una parte il romance, declinato sia nella forma più comica e buffa sia in quella più melodrammatica; dall’altra il fantastico, con alcune sequenze che, pur con leggerezza, non hanno molto da invidiare a cugini horror meno allegri. “In un film del terrore la protagonista non si innamora mai perché se avesse qualcuno accanto non avrebbe più paura”, si dice nel film; perché Hwang non si limita a giocare con le convenzioni (capelli lunghi neri, rancori, bambini pallidi) e inserisce nella stessa sceneggiatura i meccanismi che danno vita al film – lui è appassionato di commedie con lieto fine, lei risponde “la mia vita assomiglia più a un horror” – scoprendo quindi tutte le carte, fin dallo spettacolo a tema con cui Jo-Goo ha ottenuto il successo.

Spellbound è un film bizzarro e tenerissimo che salta da un tono all’altro con naturalezza e brio, rinforzato da una produzione perfetta, da dialoghi davvero divertenti e da due attori (soprattutto la graziosa Son Ye-Jin di My Wife Got Married) che affrontano i loro ruoli con senso dell’umorismo, oltre che con bravura. Insomma, un piacevolissimo film che nel suo piccolo contiene tutta la vitalità del cinema sudcoreano.

Uscito nel dicembre 2011 in patria, il film è stato un buon successo commerciale anche grazie (pare) al passaparola su Internet: ottavo film coreano dell’anno e quattordicesimo nella classifica complessiva degli incassi.

Per chi non ha problemi con la Regione 3, è disponibile nell’edizione dvd coreana.

* il film è conosciuto all’estero con entrambi i titoli: “Spellbound” è quello internazionale, “Chilling Romance” è la traduzione letterale dell’originale

Silenced / The Crucible, Hwang Dong-Hyuk 2011

Silenced / The Crucible (Dogani)
di Hwang Dong-Hyuk, 2011

Nel 2005, la scuola Inhwa di Gwangju per bambini sordomuti finsice al centro di un processo per abusi, molestie e violenze sessuali ai danni dei giovanissimi alunni. I colpevoli, tra cui il preside, ne escono quasi indenni, con condanne morbide dovute alle scappatoie del sistema giudiziario coreano; uno dei colpevoli viene persino assunto di nuovo alla fine della condanna. Nel 2009, un libro della celebre scrittrice Gong Ji-young riporta l’attenzione su quei fatti ormai semidimenticati dai media; Silenced è tratto proprio da quel libro.

Da una storia così recente e così bruciante, era impossibile trarre un film del tutto compiuto: ma Hwang Dong-Hyuk, al suo secondo film, riesce a trovare un equilibrio ammirevole tra la crudezza del resoconto e le necessità del racconto cinematografico, affiancando le atmosfere tesissime da film dell’orrore della prima metà a una seconda parte più tradizionalmente processuale. Raccontato dal punto di vista di un giovane maestro vedovo e idealista che viene assunto (pagando una tangente) nella scuola per poi scoprirne ne scopre le verità nascoste, Silenced a tratti è vittima di qualche cliché del caso – soprattutto nel ritratto dei personaggi – ma non c’è dubbio che vada a colpire in modo efficace, duro e tagliente. Senza risparmiare quasi nulla allo spettatore né al giovane cast (le scene più dolorose sono terribilmente esplicite, quasi impensabili in un’ottica “occidentale”) si finisce per raccontare molto più di un singolo caso di cronaca, ma più generalmente le contraddizioni più profonde della società coreana, la sua corruzione, la sua ipocrisia e la sua omertà.

Tanto che il valore più determinante di Silenced si è rivelato fuori dai confini dello schermo: l’uscita in sala nel settembre 2011 e il suo enorme successo di pubblico (quinto tra i film locali e ottavo in assoluto tra gli incassi dell’anno, con più di 4 milioni e mezzo di spettatori: più dell’ultimo Harry Potter) hanno infatti contribuito ad attivare non soltanto l’interesse dei media, della rete e dell’opinione pubblica ma anche la macchina legislativa. Il caso drammatico della scuola Inhwa è stato riaperto, e poco più di un mese dopo l’uscita in sala l’Assemblea Nazionale ha pubblicato un una nuova legge che abolisce clausole confuse quando non medievali e rende più dure le pene per violenze sessuali ai danni di disabili e minori. La legge si chiama Dogani Law, dal titolo del film.

Il film è noto con entrambi i titoli: “Silenced” è il titolo per la distribuzione internazionale, “The Crucible” è la traduzione letterale del titolo coreano.

“Silenced” sarà proiettato al Far East Film Festival di Udine giovedì 26 aprile alle 22.

Hindsight, Lee Hyun-seung 2011

Hindsight (Poo-reun so-geum)
di Lee Hyun-seung, 2011

Nel complicato processo di selezione che porta alla visione di un film sudcoreano rispetto a un altro, la presenza di Song Kang-Ho vale come garanzia. Mal che vada, ci sarà Song Kang-Ho. Hindsight non è certamente di uno dei migliori film della sua carriera, ma l’attore è solitamente perfetto nel ruolo di un leggendario gangster che si è “ritirato” per aprire un ristorante. Al suo fianco durante il corso di cucina appare la motociclista ventenne Se-Bin (interpretata da Shin Se-kyung) che ovviamente nasconde un segreto, e non è lì per caso. Eccellente lui, bellissima lei, assai meno memorabile il resto: la produzione è curatissima ma patinata, la struttura è interessante (apre con la stilizzata morte del protagonista e si tuffa un lungo flashback volto alla spiegazione se non alla negazione della tragica premessa) ma il proseguimento della trama rivela un complicato quanto risaputo intreccio di debiti, ricatti, riscatti e killer col ciuffo che si svolge fino a un finale decisamente più morbido e rassicurante della media. Ma in fondo a Lee Hyun-Seung, inguaribile romantico (il suo ultimo film, uscito dodici anni fa, è il celebre melodramma Il Mare da cui è tratto La casa sul lago del tempo), interessano i dettagli affettuosi tra i due personaggi più che il collaudato contesto da mafia movie. In conclusione, un film sufficientemente godibile ma inconsistente, solo per completisti.

 

The Unjust, Ryoo Seung-wan 2010

The Unjust (Bu-dang-geo-rae)
di Ryoo Seung-wan, 2010

La polizia è a caccia di un serial killer di bambini che terrorizza la popolazione coreana, ma dopo che il maggior sospettato viene ucciso per sbaglio durante un inseguimento i piani alti della polizia di Stato (per conto del Presidente in persona) decidono di affidare al durissimo (e non proprio integerrimo) Capitano Choi un compito ingrato, in cambio di una promozione a lungo agognata: dovrà scegliere un altro individuo sospetto, attribuirgli i delitti e arrestarlo, per placare l’opinione pubblica. Per farlo si avvale dell’aiuto di un boss, ma a mettergli i bastoni tra le ruote c’è l’ambizioso (e nemmeno lui proprio integerrimo) procuratore cui viene stato affidato il caso.

Se nei suoi suoi più noti film precedenti si era in qualche modo specializzato sullo scontro fisico (le botte di No Blood No Tears, il super-eroismo con arti marziali di Arahan, la street boxe di Crying Fist, le risse coreografate di The City of Violence), con il suo ultimo film Ryoo Seung-Wan sembra voler iniziare un capitolo del tutto distinto della sua carriera, lasciando quasi del tutto da parte l’azione e le botte (anche se Choi è un judoka spaventoso) con un film più adulto e dai contorni quasi politici: The Unjust è infatti un’opera definitivamente cinica e disillusa, che a partire da meccanismi del noir poliziesco metropolitano, rappresenta un mondo in cui le distinzioni tra buoni e cattivi non hanno quasi più senso, in cui ciascuno fa esclusivamente il suo interesse – con conseguenze letali, non soltanto per i pochi malcapitati che si trovano a difendere gli ultimi residui di onestà, ma per l’intero sistema della giustizia.

La sceneggiatura (di Park Hoon-Jung, lo stesso di I Saw the Devil: è il primo film di Ryoo scritto da qualcun altro) incespica e si avvolge un po’ su se stessa nel raccontare il funzionamento dei rapporti politici e burocratici tra polizia, mondo degli affari e mafia, finendo per impallare spesso il film, che a tratti risulta troppo complicato e persino noioso, ma che si riprende alla grande nel rendere i conti della corruzione e dell’amoralità diffusa. E se l’assenza di un riferimento rende in qualche modo disturbante l’esperienza del film (Ryoo ci prova gusto, utilizzando tra l’altro in modo spregiudicato l’enfatica ed esagerata colonna sonora) l’intervento tardivo del Caso beffardo e una parte finale violentissima e infine (a suo modo) catartica chiudono in modo esemplare la sua nerissima e crudele parabola.

Il film è uscito in patria nell’ottobre 2010, ed è stato presentato l’anno scorso a Berlino nella sezione Panorama, prima di fare un giro di festival tra cui il Far East Film di Udine.

Per il momento il film è disponibile in dvd nell’edizione coreana (Regione 3).

The Yellow Sea, Na Hong-jin 2010

The Yellow Sea (Hwanghae)
di Na Hong-jin, 2010

Ku-Nam è un tassista col vizio del gioco che vive nel Yanbian, prefettura cinese al confine con la Russia in cui vivono moltissimi cittadini di origine o etnia coreana. Indebitatosi per far ottenere un visto per la Corea del Sud alla moglie, sparita poi da diversi mesi senza farsi viva, si vede costretto ad accettare un incarico per conto di un boss locale: dovrà recarsi illegalmente proprio in Corea del Sud per uccidere un uomo. Ma le cose si complicano quando scopre la verità sulla scomparsa della moglie e, soprattutto, di non essere l’unico assoldato per quell’omicidio.

The Chaser è stato uno degli esordi più sorprendenti del cinema coreano recente, e non solo dal punto di vista commerciale. Nella sua opera seconda, Na Hong-jin alza decisamente il tiro: rimettendo in campo gli stessi due attori del primo film (Yun-seok Kim e Ha Jung-woo) ma a ruoli invertiti, mette in scena un altro noir tesissimo e violento, basato non soltanto sul suo ormai noto talento per le fughe a piedi ma su una visione del mondo ancora più cupa e disperata. Che questa volta esplode in una moltiplicazione di personaggi (la lotta per la sopravvivenza di Ku-Nam finisce presto sullo sfondo di una vera e propria guerra tra bande e tra “mondi” enormemente distanti quali sono il Yanbian e la moderna città coreana) e di trame che Na si diverte a mescolare selvaggiamente, confondendo le acque, ribaltando le aspettative fino alla drammatica risoluzione finale.

L’ambizione del film non va del tutto a suo vantaggio: costruito in capitoli ben distinti, The Yellow Sea è un film molto lungo e denso (anche se i 157 minuti originali sono stati saggiamente ridotti ai 140 del director’s cut) che forse non riesce a bilanciare alla perfezione la complessità dell’intreccio con la capacità di tirarne le fila, e così il finale può persino portare lo spettatore a interrogarsi sulla comprensione stessa della trama. Ma sono difetti che passano in secondo piano rispetto alla bravura del regista, che riesce a compensare una certa confusione – ma solo nella seconda metà – con una furia davvero irresistibile, spingendo senza troppi pudori sul pedale sulla violenza (sopra la media locale: i colpi d’ascia non si contano, letteralmente) senza preoccuparsi troppo di stemperarla, finendo per azzeccare qualche sequenza davvero da antologia – il montaggio della fuga in Corea di Ku-Nam, la preparazione dell’omicidio, la sequenza in cui l’incredibile Kim Yun-seok si fa strada tra i nemici massacrando crani con un osso di bue – e, più in generale, uno stile che fa impallidire gran parte dell’action occidentale.

Il film è stato presentato a Cannes 2011 nella sezione Un Certain Regard. L’edizione britannica in dvd esce alla fine di marzo. Sul mercato internazionale viene distribuita la versione “director’s cut”, ovvero la stessa che ho visto io.

Per il momento non mi risulta sia prevista un’uscita italiana in sala.

The man from nowhere, Lee Jeong-beom 2010

The Man from Nowhere (Ajeossi)
di Lee Jeong-beom, 2010

Cha Tae-Sik è un taciturno e pacifico impiegato di un piccolo e buio banco dei pegni; la sua unica amica è una bambina, figlia di un’eroinomane che vive nell’appartamento accanto e che usa la sua bottega per spacciare per conto di un’organizzazione criminale. Ma quando madre e figlia vengono rapite, e la prima viene ritrovata svuotata degli organi interni, Tae-Sik sarà costretto a mostrare la sua vera identità e il segreto drammatico nascosto nel suo passato. Nella (relativa) scarsezza di titoli di genere davvero esaltanti provenienti dalla Corea del Sud negli ultimi anni, l’opera seconda di Lee Jeong-beom è davvero una perla. Ma anche in senso assoluto: un thriller lungo e denso, girato in modo magistrale, cupo e violento come non se ne vedevano da tempo, con un’ambientazione urbana perfetta, e un protagonista di inenarrabile figaggine. E se l’azione non manca, tra duelli e inseguimenti, spatatorie e coltellate, il film di Lee è qualcosa di più di un semplice action: costruito su moventi profondamente tragici che spingono ancora di più l’intensità della escalation vendicativa di Tae-Sik, The Man From Nowhere è uno stupefacente noir sanguinario sulla riscoperta dell’innocenza in un mondo definitivamente impazzito. Colpo di genio comunque quello di avere un protagonista addestrato per uccidere, abilissimo e quasi imbattibile in combattimento, e non fargli fare niente di niente per quasi un’ora.

Il film è stato presentato qualche giorno fa al Far East Film di Udine.

È già disponibile a pochi euro nell’edizione dvd britannica.

Non è al momento prevista un’uscita italiana.