Anwar Congo è un anziano signore della Sumatra settentrionale, è riverito da tutti nella regione, ha un sorriso contagioso, e ha ucciso centinaia di persone strangolandole con un filo di metallo. The act of killing è a tutti gli effetti un documentario, ma non assomiglia a niente che abbiate visto, nella realtà o nella finzione. Il regista Joshua Oppenheimer, americano di base a Copenhagen, che aveva conosciuto Congo in occasione di un precedente lavoro girato proprio in Indonesia, ha convinto l’ex boss delle “squadre della morte”, insieme a diversi suoi collaboratori, a diventare star di un film. Anwar, che prima del colpo di stato del 1965 era un piccolo gangster che spacciava biglietti del cinema di contrabbando (non nascondendo un verace amore per il cinema hollywoodiano), non si limita a raccontare con nostalgia la metodologia dei suoi omicidi, ma li mette letteralmente in scena – ispirandosi ai film di genere, proprio come faceva quando uccideva a sangue freddo i comunisti, veri o presunti, e tutti gli oppositori politici. A rendere The act of killing un’esperienza disturbante è soprattutto il punto di vista, che è unicamente quello di Congo e degli altri aguzzini, convinti in un’ottica di regime di celebrare con questo film (nel film) la grandezza e l’importanza storica del loro gesto: il documentario di Oppenheimer è infatti ambientato in un paese in cui l’atto di uccidere è glorificato, non condannato, dalle istituzioni e dai media (tra le scene più inquietanti, il congresso dell’organizzazione paramilitare Pemuda Pancasila e l’incredibile talk show di una rete tv indonesiana), perché fa parte del linguaggio dei vincitori, con un ribaltamento morale dell’intera società che mette i brividi e manda in frantumi i punti fermi della nostra prospettiva; ci si trova di fronte a una situazione reale che ha i caratteri di un modello fantascientifico, vicino alla distopia, dove il senso di colpa, soffocato dalla complicità del sistema, si rivela soltanto tra le pieghe dell’inconscio. Fino a quando qualcuno non si rovesciano i ruoli di vittima e carnefice, facendo esondare il fiume del rimorso, con il rumore di un conato infernale. Se è l’incastro sbigottito tra realtà e rappresentazione, tra morte e cinema, a fare di The act of killing un film così inusuale, a farne un’esperienza così agghiacciante è soprattutto questa finestra spalancata sui limiti e sulle contraddizioni della nostra morale. Ci vuole fegato per fare un film così, parecchio stomaco per assistervi. Imperdibile.
The act of killing, Joshua Oppenheimer 2013
Il passato, Asghar Farhadi 2013
Non siamo più in Iran, ma c’è ancora una separazione al centro dell’ultimo film di Asghar Farhadi: è quella tra la farmacista Marie e l’ex marito Ahmed, che la donna ha fatto arrivare da Teheran alla periferia di Parigi, per firmare le carte del divorzio. Ahmed scopre solo al suo arrivo il motivo dell’urgenza: Marie vuole risposarsi, in terze nozze, con il convivente Samir, che lavora in una lavanderia. Anche quest’ultimo è sposato: sua moglie giace in un letto d’ospedale. Dopo lo straordinario dramma iraniano premiato con un Oscar indiscutibile nel 2012, Farhadi si sposta in Francia, con un cast apolide (su cui spicca una splendida Bérénice Bejo, alle prese con un personaggio umano e difficile) e non perde un briciolo della sua maestria e del suo rigore, confermandosi uno dei più lucidi osservatori del comportamento umano nel cinema di oggi. Costruito su una sceneggiatura di impressionante solidità, Il passato è un film che non ha mai fretta ma che non lascia scampo, svelando gradualmente, come se fossero indizi di un thriller, i dettagli dell’intreccio, le identità dei personaggi, i loro desideri e infine i loro segreti – finendo per rovesciare ancora una volta, in modo chirurgico, le prospettive morali e le aspettative degli spettatori su di esse. Fin dal brillante incipit in cui i due protagonisti non riescono a comunicare attraverso un vetro dell’aeroporto, quello raccontato da Farhadi è un complesso incastro di desideri egoisti, e le incoscienti illusioni di poter cancellare, spazzare via il proprio passato non potranno che scontrarsi l’un l’altra. Ma l’onestà impietosa con cui il regista osserva i personaggi, le loro colpe, i loro rimpianti, non è priva di un’empatia coinvolgente, persino commovente. Se è impossibile fare il tifo per qualcuno, lo è altrettanto non immedesimarsi in quest’umanità ferita, incapace di andare avanti, ma sempre alla ricerca ostinata, afflitta e forse vana di un po’ di felicità.
Solo Dio perdona, Nicolas Winding Refn 2013
Solo Dio perdona (Only God forgives)
di Nicolas Winding Refn, 2013
Una delle argomentazioni che ho letto spesso, a ridosso dell’uscita del nuovo film di Nicolas Winding Refn nelle sale (ma già durante il suo passaggio a Cannes), sia a favore del film che come osservazione neutrale, suona più o meno così: Solo Dio perdona sarebbe un “vero” film di Refn, così come fu Valhalla rising. Il suo meraviglioso Drive, invece, sarebbe un contentino per un pubblico più vasto, un film più semplice e accessibile, derivativo e ruffiano, che sporcandosi le mani con il pop lo avrebbe allontanato dal suo stile più integro e intransigente. Il discorso, pur nelle sue sfumature snob (per le quali chi ama Drive sarebbe meno acuto di chi ama Valhalla rising: io preferisco parlare dei film e tenermi stretto un soggettivismo che si rispecchi nel rispetto, pure dei fan dei film che detesto) ha il suo fascino, e contiene anche una buona parte di verità, ma mi fa sempre sorridere per un motivo del tutto personale: dal canto mio, trovo Valhalla rising un film pressoché insostenibile e Drive un capolavoro – una parola, lo sottolineo, che cerco di usare con una certa cautela – proprio, o anche, per gli aggettivi che ho riportato sopra. La deduzione finale, sotto questa prospettiva e alla luce di questo suo ultimo film, sarebbe questa: il cinema integro e intransigente di Refn e io non sappiamo proprio cosa dirci ed è meglio se non ci frequentiamo più. Perché Solo Dio perdona, ancor più del tedioso epic del 2009, è un’opera di atroce, fastidiosa, dannosa inutilità – il titolo che è venuto fuori con desolante naturalezza quando qualcuno mi ha chiesto quale fosse, secondo me, il peggior film della stagione in corso. E quasi mi dispiace, per farmi due risate in vostra compagnia, dover tirare fuori Drive: il confronto tra i due film non è gentile per nessuno, oltre che fonte inesauribile di banalità da entrambe le parti (l’uno è l’anti-altro! No.) e, soprattutto, Solo Dio perdona non ha certo bisogno di Drive per palesarsi come un disastro. È inevitabile che un film così vistosamente presuntuoso divida il pubblico, ma ridurre tutto a un contrasto manicheo (film popolare vs film d’arte, quando nessuno dei due appartiene a queste due strampalate categorie) non ci porterà mai da nessuna parte; per avere un assaggio della ricchezza e della diversità della filmografia di Refn basta recuperare Bronson, un film che non c’entra quasi nulla con i titoli citati finora eppure è un’opera vibrante, personale, memorabile. Inutile, d’altra parte, pensare che un regista così intelligente e capace abbia fatto un film così terribile e sbagliato apposta, solo per sbatterlo in faccia a un certo tipo di pubblico: l’idea, a dire il vero piuttosto diffusa, che Solo Dio perdona sia una presa per i fondelli del fan di Drive, mi sembra, allo stesso modo, una sciocchezza che non tiene conto di numerosi elementi – dalla densità di riferimenti alla chiarezza espositiva, alla precisione iconografica, cromatica, compositiva di questo orribile, micidiale film da quattro soldi. Il che, forse, rende il tracollo ancora più funesto: Solo Dio perdona è, a tutti gli effetti, una cosa seria, è un film totalmente cosciente di sé, inflessibile nella sua direzione artistica e tecnica; ed è forse proprio questo a danneggiarlo in modo irrevocabile: Refn è così compiaciuto dell’unicità della sua opera, così convinto dell’ostinazione del suo metodo, da dare totalmente per scontato il proprio valore, senza sentire il bisogno, per esempio, di dirigere un film che uno spettatore possa guardare dall’inizio alla fine senza chiedersi chi sia il cretino, tra lui e il film. Infatti, Solo Dio perdona è ricco di elementi di interesse, di idee, è spinto da un’autentica visione: ma la stima per gli intenti non sposta di un millimetro l’avversione per i risultati. È uno di quei film più interessanti da analizzare scena per scena, tonalità di rosso per tonalità di rosso, metafora diabolica per metafora diabolica, che da vedere. Esperienza, quest’ultima, e stiamo parlando di un film che, beffa definitiva, arriva a malapena all’ora e mezza di durata, che mi auguro di non dover mai più fare nella mia vita. Mai più, mai più, ve ne prego.
Nella casa (Dans la maison), François Ozon 2012
Nella casa (Dans la maison)
di François Ozon, 2012
Un burbero professore di liceo, marito annoiato e romanziere fallito, riceve da uno dei suoi studenti la prima parte di un tema: riguarda un compagno di classe che aiuta con i compiti di matematica, la nascita della loro amicizia, l’ossessione per la loro casa e per la loro famiglia. Colpito dal suo stile narrativo, avvinto dall’apparente ingenuità dell’alunno e dalla morbosità della storia (il cui baricentro si sposta presto sull’attrazione verso la madre dell’amico) decide di diventare il suo mentore, finendo per condizionare la scrittura e, con esso, anche la vita stessa dei personaggi: ma il confine tra il racconto e la realtà è meno stabile di quanto il maestro possa immaginare. Una delle più grandi doti di Ozon, almeno in questo caso, è non aver mai paura di risultare troppo intelligente per il suo pubblico: questo suo strabiliante piccolo film è un gioiello di sottile ferocia, ma l’elemento più ludico, interessante e indubbiamente centrale (la brillante riflessione “meta” sull’ambiguità e il potere della narrazione, inclusa quella cinematografica) non svilisce il dato più immediato, la bravura del regista francese nel mettere in scena, con una sceneggiatura di incredibile densità e un cast perfetto (in particolare Ernst Umhauer, che pare nato per questo ruolo), una sorta di thriller intellettuale, in tono minore ma ugualmente teso, che porta all’ennesima, inesorabile disgregazione borghese. L’inquadratura finale, tra le più efficaci degli ultimi tempi, solleva il velo con gusto surrealista dando una lucida chiave di lettura all’intero film: un colpo di genio.
Il sospetto, Thomas Vinterberg 2012
Il sospetto (Jagten)
di Thomas Vinterberg, 2012
Quanto è cambiato il cinema danese, dai tempi del Dogma 95 a quelli dell’ultimo Refn? È una domanda retorica, nel frattempo dopo 14 anni Thomas Vinterberg è riuscito finalmente, a mio avviso, a scollarsi davvero di dosso l’ingombrante celebrità di Festen, la cui innegabile efficacia, a distanza di tempo, viene perlopiù offuscata da ciò che rappresentava, come parte e come specchio di un momento (e di un movimento) culturale – e non a caso quel titolo ancora trova posto nelle locandine di tutto il mondo. L’eccellente Jagten gli permette invece di affermare totalmente la personalità del suo sguardo, quello di uno tra i più spietati autori europei, che non si ferma di fronte a nulla pur di sezionare a colpi d’accetta le convenzioni sociali, pur di permetterci di scovarne il marcio all’interno. Pur contando molto sulla memorabile interpretazione di Mads Mikkelsen (premiato a Cannes), la riuscita del film dipende soprattutto dal talento di Vinterberg nello spostare il baricentro morale della pellicola fuori dallo schermo, coinvolgendo gli spettatori in un gioco crudele (e davvero sfiancante) di complicità, senso di colpa, rigetto, che contribuisce a fare di Jagten una delle più disturbanti esperienze emotive del cinema europeo recente.
La madre (Mama), Andrés Muschietti 2013
La madre (Mama)
di Andrés Muschietti, 2013
Non è la prima volta che un lungometraggio viene tratto da un corto, ma Andrés Muschietti è al centro di un’operazione leggermente diversa: Mama non amplia la premessa dell’originale (spaventoso gioiello lungo solo tre minuti, datato 2008), bensì ci costruisce un intero film intorno. Letteralmente: il corto in questione viene praticamente replicato a metà della corsa. Per fortuna il talento del regista argentino “scoperto” da Guillermo Del Toro, che patrocina questo suo debutto, non era un abbaglio: Mama non eccelle in compattezza e prende a piene mani a destra e a manca (l’impianto narrativo e tematico arriva dritto dai migliori anni del j-horror), ma Muschietti dimostra un talento visivo straordinario (il suo direttore della fotografia è Antonio Riestra) e una notevole sapienza nella costruzione di personaggi che non sembrino le solite pretestuose macchiette il cui unico scopo è occupare il tempo tra uno spavento e l’altro. Lo aiuta avere per le mani un co-sceneggiatore come Neil Cross e soprattutto un’attrice come Jessica Chastain: la sua Annabel è un personaggio interessante, tutt’altro che “gradevole”, decisamente in controtendenza rispetto al cinema horror, e fa la fortuna del film.
Upside down, Juan Diego Solanas 2012
Upside down
di Juan Diego Solanas, 2012
Che un film come Upside down possa presto trovarsi in difficoltà lo si intuisce fin dalle prime battute, quando a causa dell’estrema complessità dell’assunto di base (in breve: in un sistema solare dalla doppia gravità con due pianeti abitati contigui, uno è riuscito a prevalere economicamente sull’altro) e delle leggi fisiche che regolano questo universo, è costretto a spiegarsi esplicitamente in un lungo preambolo, con tanto di schemi. Va detto che l’idea in sé è tra le più interessanti degli ultimi anni, in un panorama abbastanza monocolore com’è quello del cinema fantastico odierno, e va premiata la sua originalità, dovuta forse in qualche modo alla lontananza da Hollywood – il film è infatti una produzione franco-canadese diretta da un regista argentino. Purtroppo Upside down è un film davvero poco riuscito, pasticciato e goffo, segnato irreparabilmente dalla scarsezza di Jim Sturgess, rovinato da una sceneggiatura che perde tempo su dettagli di poco conto per poi saltare a piè pari interi passaggi rendendosi poco comprensibile. Impossibile non pensare, con una punta di malignità, che Solanas abbia dedicato poca attenzione a uno script così frettoloso per concentrarsi soprattutto sull’apparato visivo; ma anche lì, il lavoro del direttore della fotografia Pierre Gill sembra sfuggirgli di mano, e una volta superato lo stupore causato dalle scenografie e dalle scene che sfruttano in modo più spettacolare i paradossi della doppia gravità, le sue saturazioni diventano stucchevoli. Anche perché sotto non c’è granché, un metaforone banalotto sulla segregazione sociale annacquato dall’ennesima variazione sul tema di Romeo e Giulietta, con Kristen Dunst ridotta a statuina inerme. In buona sostanza, uno dei più imperdonabili sprechi della stagione: il cinema fantastico ha sete di idee di questo tipo, coraggiose e creative, magari un po’ sciocche ma stimolanti, e Solanas dimostra di averne; solo, andrebbero affidate a persone capaci di tenerle in piedi per cento minuti.
The Impossible, Juan Antonio Bayona 2012
The Impossible
di Juan Antonio Bayona, 2012
L’incipit di The Impossible mostra subito l’estrazione horror di Juan Antonio Bayona, già regista dell’ottimo The Orphanage: la famiglia protagonista, che noi sappiamo già (anche grazie a un cartello che ci avverte che questa è la versione riarrangiata di una storia vera) essere vittima designata dello tsunami che colpì la Thailandia nel dicembre 2004, si scambia sull’aereo una serie di battute che fungono da nefasti presagi per l’ora e mezza a venire. Un procedimento noto, che viene confermato quando Bayona, senza girarci attorno troppo a lungo, sbatte l’onda anomala in faccia ai cinque personaggi, dividendoli in due parti che sembrano le anime stesse del film. La madre, intepretata con intensa dedizione da Naomi Watts, occupa la prima metà del film e su di lei Bayona sfoga una furia che avvicina il film proprio a un horror di truce stampo europeo (forse più “gentile” ma comunque impressionante), insistendo sul deterioramento del corpo con un pizzico di sadismo e costruendo con quella terribile nuotata nel fango una sequenza davvero magistrale, spettacolare e drammatica. A seguire, il baricentro del film si sposta sul primogenito Lucas, il cui romanzo di formazione funziona piuttosto bene: l’insistenza sulla timidezza di Lucas di fronte al corpo nudo e martoriato della madre può passare inosservata ma è una grande finezza di scrittura. Dall’altra parte, quando ci si sposta sul punto di vista del padre Ewan McGregor, viene fuori tutta l’anima più sentimentale di Bayona, che fa precipitare il film verso una parte finale dove l’approccio “di pancia” del film resta sempe vivo, ma abbandona il territorio del genere per entrare in quello del puro melodramma familiare. A ciascuno decidere se farsi strappare le lacrime a calci e pugni (cit. gniola), se sia meglio questo stravolgimento emotivo rispetto alla compattezza delle dinamiche più horror della prima metà o sia un “tradimento”; in ogni caso The Impossibile è un film curioso e interessante, perché è una produzione europea che non teme i confronti e tiene testa sotto quasi tutti gli aspetti (in primis tecnicamente; Bayona, poi, è veramente bravo da matti), perché il regista ha sì uno sguardo che sembra rifarsi soprattutto al cinema di Spielberg (L’impero del sole, La guerra dei mondi, eccetera) ma dà l’impressione di averne colto il succo, e in definitiva, con tutti i suoi difetti e le sue mille sbracature, è difficile (o impossibile?) non divertirsi, spaventarsi ed emozionarsi quanto basta (e avanza).
Qualcosa nell’aria (Après Mai), Olivier Assayas 2012
Qualcosa nell’aria (Après Mai)
di Olivier Assayas, 2012
Ciò che riesce meglio a Olivier Assayas, in questo romanzo di formazione sentimentale e politica di un giovane studente nella Francia dei primi Anni 70, è l’idea di ricostruzione storica come rievocazione di uno stato d’animo collettivo, in cui si scontrano le esigenze private dei singoli e le ispirazioni civili, quelle di una generazione a cui è stata lasciata un’eredità tanto importante quanto ingombrante; più che attraverso costumi e scenografie, Assayas restituisce quegli anni grazie a elementi marginali come la colonna sonora, che ha un ruolo assolutamente centrale ed è straordinaria – anche quando non è imprevedibile, come nei casi di Nick Drake o Syd Barrett, invocato con tanto di vinile sul giradischi. Il suo maggior pregio, più semplicemente, è quello di aver azzeccato tutte le facce, dal debuttante Clément Métayer (che ha l’espressione da schiaffi che meglio si addice al ruolo di Gilles) alla formidabile Lola Créton, a cui basta uno sguardo per comprendere le sfumature del suo personaggio, fino a un’esordiente terribilmente fotogenica come Carole Combs, alla cui drammatica, celata intensità è dedicata pure la sequenza più riuscita (e più dolorosa) del film. È in scene come queste, e più in generale negli interni degli appartamenti, delle ville e degli scantinati che Assayas mostra la sua bravura tecnica, senza mai sfoggiarla apertamente; meno convincente, anche se convinta, la scelta di costruire il film allineando uno dietro l’altro situazioni e spunti, anche autoriflessivi (il dibattito interno ai dialoghi sulla rivoluzione del linguaggio del cinema avviene in un film il cui linguaggio, pur con tutte le sue libertà, è piuttosto tradizionale e riconoscibile) con lo spirito euforico, malinconico e di chi scrive la propria autobiografia, dilungandosi sui dettagli più inessenziali e nostalgici, e si stufa (o muore) prima di poterla rileggere per bene. Il risultato è un film che ricerca la sua vitalità proprio nell’assenza di una vera struttura, ma senza mai trasgredire davvero alle regole, svelando infine un destino necessario ma costruito con un confuso, disordinato entusiasmo.
Alps (Alpeis), Yorgos Lanthimos 2011
Alps (Alpeis)
di Yorgos Lanthimos 2011
Il precedente film di Yorgos Lanthimos, presentato a Cannes ormai quattro anni fa, ha creato aspettative mostruose per questa sua nuova regia: Dogtooth era, in fin dei conti, uno dei più scioccanti e straordinari film europei degli ultimi anni, un’opera estremamente ambiziosa sulla coercizione sociale e sulla manipolazione del linguaggio che viveva all’interno di una trama surreale e che, grazie all’allucinato talento visivo di Lanthimos, era riuscita anche a diventare un vero cult movie presso i cinefili di mezzo mondo. Alps, presentato a Venezia nel 2011, prende il via da un’altra sistematica provocazione: i protagonisti si offrono infatti per un periodo di tempo, previo pagamento, di prendere il posto dei “cari estinti” all’interno di famiglie distrutte dal lutto, cercando di saldare le ferite della perdita attraverso la recita letterale di una quotidianità perduta, diventando, di fatto, fantasmi part time. Un presupposto introdotto gradualmente, quasi come un mistero da risolvere, e che muta, seguendo uno dei personaggi (interpretato dalla dolente Aggeliki Papoulia), da pungente riflessione sul rifiuto della morte a studio sulla fragilità dell’identità e sulla sua frantumazione. Messo in scena da Lanthimos con innegabile talento visivo e un notevole gusto per la composizione, Alps finisce però vittima della sua presunzione, le scene migliori si alternano ad altre di fastidiosa gratuità, e in mancanza dell’ironia perversa di Dogtooth, qui virata su toni ancora più macabri, anche l’originalità figura come un vuoto esercizio di stile. Conturbante e irritante al tempo stesso, Alps lascia in qualche modo una buona impressione di sé grazie al fascino del tema e al colpo di coda finale (onore ad Ariane Labed) ma tutto sommato è difficile non considerarla un’occasione sprecata.
Del film è già disponibile in dvd un’edizione tedesca, in greco con sottotitoli inglesi. L’edizione britannica sarà disponibile dall’inizio di marzo 2013. Non è al momento prevista un’uscita italiana.
Cloud Atlas, Lana & Andy Wachowski, Tom Tykwer 2012
Cloud Atlas
di Lana & Andy Wachowski e Tom Tykwer, 2012
Se ogni adattamento dalla pagina allo schermo è un lavoro complesso e rischioso, quello di L’atlante delle nuvole di David Mitchell, per forza di cose, era persino una sfida: un romanzo costruito come una matrioska, composto da sei storie “nidificate” ambientate in altrettante epoche e legate tra loro da una mera traccia: ogni capitolo è contenuto nel successivo in una differente forma narrativa. In tal senso, quella svolta dai fratelli Wachowski e da Tom Tykwer è davvero una delle trasposizioni più ardite e più entusiasmanti degli ultimi tempi: facendo tesoro dell’esperienza del cinema “corale”, i tre autori hanno reinventato tutto da capo, utilizzando un gruppo ristretto di attori in tutti i segmenti, incastrando con sapienza tra loro i racconti e non lasciando mai al caso alcun singolo raccordo, per spingere in superficie i significati che Mitchell aveva accennato in modo forse più implicito. Cloud Atlas è infatti, va detto, un film che non si trattiene troppo dall’esporre a chiare lettere la profonda spiritualità dei suoi temi, e l’idea di un’umanità legata da un filo sottile di causa ed effetto, morte e rinascita. Ma questa sua entusiasta franchezza, volendola abbracciare, rientra in verità nei suoi più grandi pregi, come quello di voler recuperare a ogni costo l’idea di uno spettacolo popolare e “totale” che sappia superare tutte le barriere del tempo e dello spazio, attraversando tanto le stagioni dell’uomo quanto la molteplicità del cinema (dal dramma in costume al thriller, dalla commedia alla fantascienza) per trasmettere un messaggio di frustrazione e speranza, in cui il ciclo continuo di oppressione del più debole si rispecchia in un perenne processo di liberazione e rivoluzione. Il tutto inserito in un contesto di assoluta unicità produttiva: ma se il budget (circa 100 milioni di dollari), il cast e le ambizioni del film sono piuttosto inusuali per un film tedesco, non sorprende che Cloud Atlas sia una produzione europea girata, in parte, da una coppia di “esuli” del cinema americano, perché è trascinato da un’idea di cinema che Hollywood sembra aver superato, o forse voler ignorare. Ne è uscito un film affascinante e sfrontato, altisonante e squilibrato, intelligente e spettacolare, passionale ed emozionante. Una sfida stravinta.
Amour, Michael Haneke 2012
Amour
di Michael Haneke, 2012
L’ultimo film del grande regista austriaco poteva sembrare, a una prima occhiata distratta, una deviazione dalla cifra abituale del suo cinema, dai suoi temi e dal suo stile, ma in verità si tratta di un altro spietato ritratto, a suo modo persino più estremo del solito, di una sicurezza borghese che si frantuma, meglio ancora che si decompone lentamente di fronte ai nostri occhi, ambientato ancora una volta in una casa – che, non a caso, è stata da poco oggetto di una tentata effrazione – che diventa una trappola e una prigione, in cui tutto ciò che vi è contenuto – la musica, la cultura, la memoria – finisce per diventare l’ultima beffa di fronte alla fragilità dell’esistenza e all’ineluttabilità della morte. Dopo aver aperto la storia in modo sconcertante e insieme necessario (ai suoi occhi una progressione narrativa verso questa conclusione sarebbe, probabilmente, un tradimento e un ricatto nei confronti dello spettatore), Haneke racconta la storia di Georges e di Anne in un lungo flashback, spezzando il tempo a colpi di accetta e poi diluendolo con tenerezza e brutalità, non concedendo alcuna tregua a loro né a noi (e nemmeno ai sogni) e facendo viaggiare il suo sguardo glaciale in parallelo al nostro: il regista sembra quasi mettersi in disparte, a osservare con il cinismo di un etnologo nascosto dietro una parete trasparente. Girato con la solita precisione chirurgica attraverso un uso magistrale degli spazi interni, Amour è un film apparentemente semplice ed essenziale ma scardina gli equilibri delle nostre certezze e delle nostre coscienze con una franchezza quasi insostenibile, lasciando infine un dubbio aperto e bruciante sui confini dei sentimenti, sulla natura stessa di un gesto definitivo, sull’egoismo, sulla dolcezza, e sulla crudeltà dell’amore.
Holy Motors, Leos Carax 2012
Holy Motors
di Leos Carax, 2012
Un mito da sfatare, quando si parla di Holy Motors, è che si tratti di un film in cui non è dato penetrare, un film dalle porte serrate. La cui bellezza, sfacciata e spesso spropositata, risieda semplicemente nell’accostamento bizzarro e straniante dei suoi elementi. Che non ci sia nulla da svelare, dietro le mille maschere e le mille storie interpretate da Oscar in una Parigi suggestiva, fuori dal tempo, terribile e spettrale. Peggio ancora, d’altra parte: che questo compiuto svelamento sia davvero necessario. Come ogni operazione puramente surrealista, lo straordinario film di Leos Carax – che richiama all’appello il favoloso Denis Lavant, rimettendogli pure per qualche minuto il mostruoso make up di Tokyo! - fa scivolare l’interpretazione oggettiva tra le mani dello spettatore, introducendo raccordi impossibili, paradossi, scherzi e tragedie, con una perfidia che è pari solo alla ricchezza di idee, di spunti e di dettagli, e alla capacità di trasformarli in grandi momenti di cinema. Come l’apparizione musical di Kylie Minogue, che canta una canzone scritta dallo stesso Carax, o come l’incredibile, ipnotica sequenza di sesso tra Lavant e la contorsionista Zlata in uno studio di motion capture – forse la più palese tra le dichiarazione d’intenti del film – o come quella, commovente, con Elise Lhomeau al capezzale di un Oscar novantenne: impossibile, quanto inutile, citarle tutte. Ma che ci si voglia fermare all’impatto francamente innegabile e a tratti allucinatorio del film in sé, dalle sue immagini all’epocale performance di Lavant (vale la pena di citarlo il più possibile) o che si preferisca usarlo come base di una metafora autoriflessiva, è impossibile rimanere indifferenti di fronte a questo viaggio entusiasmante e disturbante, eccitante e sinceramente folle, mostruosamente ambizioso eppure stranamente leggiadro, ma sicuramente irresistibile, all’interno del film e dei suoi generi, che sembra tramutarsi gradualmente in una sorta di rimandato, malinconico e sempre più beffardo rito funebre. Come fossero le esequie definitive del cinema, l’ultimo canto di un’arte che muore.
Oltre le colline, Cristian Mungiu 2012
Oltre le colline (Dupa dealuri)
di Cristian Mungiu, 2012
Cinque anni fa, 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, vincitore della Palma d’Oro, ha imposto il nome di Cristian Mungiu come capofila del cinema rumeno. Il suo nuovo film, tratto da una terribile storia vera e anch’esso premiato a Cannes per la miglior sceneggiatura e per le due strabilianti attrici protagoniste, non sembra possederne la medesima immediata intensità drammatica: in verità, Oltre le colline è semplicemente un film che chiede qualcosa di diverso al suo spettatore, accumulando con una progressione lenta spietata una tensione impossibile e rimandandone la risoluzione in modo così snervante da accoglierla, in tutta la sua violenza, quasi come una liberazione. Riflessione morale, a tratti brutale, sui confini tra la fede e la ragione, Oltre le colline è attraversato da una strisciante quanto disperata vena di ironia che si trasforma inesorabilmente in tragedia e ambientato in un mondo follemente avvinghiato al suo integralismo, dove un medico prescrive insieme alle medicine di “leggere un po’ la Bibbia, che fa sempre bene”. Allo stesso modo, l’assenza di progresso narrativo (fortificata dalla bellissima fotografia di Oleg Mutu) avvolge e ipnotizza lo spettatore, mettendone in discussione le certezze; al momento del risveglio, ci lascia inermi e impotenti ad assistere, accanto a Voichita, sull’orlo dell’abisso.
I bambini di Cold Rock (The Tall Man), Pascal Laugier 2012
I bambini di Cold Rock (The Tall Man)
di Pascal Laugier, 2012
Una delle firme di punta del cinema horror “estremo” francese, Pascal Laugier, scrive e dirige il suo primo film in lingua inglese ambientato negli Stati Uniti, in verità una produzione franco-canadese, levando il pedale del gore ma mantenendo il gusto, già mostrato nel suo discusso Martyrs, per il ribaltamento prospettico e per i twist narrativi. La sceneggiatura, tutt’altro che impeccabile ma piuttosto divertente per chi sa stare al gioco, è infatti l’elemento migliore del film insieme alla regia, dove Laugier piazza qualche pezzo di bravura per innalzare il film dalla media dei thriller di Serie B con ambizioni metaforiche. Il suo The Tall Man, pur essendo un po’ scombinato, è comunque un ibrido interessante e curioso, più difficile da inquadrare di quanto sembri; manca giusto un po’ di coraggio e il cast non è del tutto adeguato (anche se Jessica Biel ce la mette tutta) ma è davvero brillante l’idea di usare l’ambientazione in una deprimente cittadina di minatori disoccupati nello stato di Washington per rappresentare, non tanto la crisi economica o culturale, ma il definitivo decadimento di un intero immaginario, quello della provincia americana. Con uno sguardo da “straniero”, Laugier predilige il gioco narrativo ma pizzica anche il pubblico con un interrogativo morale.
Un sapore di ruggine e ossa, Jacques Audiard 2012
Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d’os)
di Jacques Audiard, 2012
(Ciò che racconto accade nella primissima parte del film, non è niente che non sia già raccontato dal trailer italiano. In ogni caso, per correttezza: spoiler alert.)
Costretto suo malgrado a badare al figlio, lo spiantato Ali si trasferisce a casa della sorella ad Antibes dove si mette a lavorare in discoteca. Fuori dal locale conosce Stéphanie, una bella e turbolenta addestratrice di orche: la riaccompagna a casa dopo una rissa di cui è stata vittima, le lascia il numero di telefono. Tempo dopo, mentre Ali continua ad arrancare passando da un lavoro all’altro, Stéphanie ha un terribile incidente sul lavoro e perde entrambe le gambe. Un giorno, rimasta sola in casa, compone il numero dello sconosciuto buttafuori. La porterà in spiaggia. Questo è soltanto l’inizio del nuovo film di Jacques Audiard, che senza pretendere di replicare la densità narrativa di un capolavoro come Il profeta racconta una storia d’amore brutale, inconsapevole eppure necessaria, tra due anime costrette a ridefinire i loro confini e le loro coordinate. Schivando le categorie e le etichette (ma anche sfuggendo alla tentazione di fare un film sul corpo: la mutilazione è più un innesto che un obiettivo), Audiard trascina i suoi personaggi in una narrazione libera dalle costrizioni, capace di affiancare al dramma più straziante un’inattesa ironia e una sensualità travolgente, perdendo (perdonabilmente) qualche colpo quando si immerge quasi con spirito “sociale” nello sgradevole sottobosco del lavoro, riprendendosi del tutto quando colpisce i suoi protagonisti con lampi di epicità, coraggio, grandezza – segni di una straordinarietà già presente ma ancora tutta da conquistare, sfidando la paura di sé e dell’altro. Il loro “racconto di formazione” è infatti una terribile marcia a ostacoli che Audiard organizza con perizia e un pizzico di sadismo: i personaggi sono messi costantemente e spietatamente alla prova, fino alle estreme conseguenze – ma non è tanto la meta a interessare Audiard, quanto il tragitto: alla fine del giochi, il proprio destino è scritto nelle ferite, nelle lacerazioni e nelle ossa rotte, memorie indelebili, sempre presenti, della strada percorsa per trovare o ritrovare la luce. L’uso degli effetti speciali, abbinato al realismo della messa in scena e alla predominanza della camera a mano, crea un contrasto che amplifica se possibile la magnifica prova di Marion Cotillard, struccata ed emaciata per gran parte del film eppure sempre incredibilmente magnetica; con il rischio di sminuire la performance del pur adeguato Matthias Schoenaerts: ma vale la pena correrlo. Inaudito e perfetto, persino commovente, l’uso espressivo nella colonna sonora di “Firework” di Katy Perry, in una delle scene più intense e significative del film.
Il ragazzo con la bicicletta, Jean-Luc e Pierre Dardenne 2011
Il ragazzo con la bicicletta (Le gamin au vélo)
di Jean-Luc e Pierre Dardenne, 2011
Quando senti arrivare le note di una melodia, ad accompagnare le immagini del film, seppure per pochi secondi, pensi che questo non sarà il solito film dei Dardenne. In verità i due registi belgi con questo film proseguono impassibili la loro missione narrativa e morale, ma trovano nell’incontro improvviso tra Samantha e il dodicenne Cecyl una sorta di scintilla di umanità in un mondo crudele e folle e scelgono di raccontarla con le fattezze di una fiaba contemporanea; una dolcezza inattesa che diventa necessaria al di là della loro stessa volontà, intorno alla quale si chiude però la morsa di un mondo crudele in cui tutte le figure paterne (il padre di Cecyl, il fidanzato di Samantha, lo spacciatore, l’edicolante) rappresentano l’incapacità di assumere rischi e responsabilità, fino all’autentica abiezione; e anche se i Dardenne decidono di lasciare un po’ di luce – anche da un punto di vista prettamente visivo – questa non smussa gli spigoli appuntiti e arrugginiti del mondo, né smentisce la condanna dolorosa che sta a monte: stiamo assistendo a un mondo collassato sul suo stesso egoismo, questa è l’ultima speranza oppure l’ultimo respiro? Il ragazzo con la bicicletta è un emozionante, a tratti straziante romanzo di formazione, tenero e crudele, che conferma la vitalità e la caratura morale di due tra i migliori registi europei in attività, tornati qui – con un pizzico di evoluzione, all’interno di un’incrollabile coerenza – al massimo della loro forma. Un piccolo grande capolavoro.
Extraterrestre, Nacho Vigalondo 2011
Extraterrestre
di Nacho Vigalondo, 2011
Dopo l’esordio cinque anni fa con il sorprendente, geniale Los cronocrímenes, il regista spagnolo Nacho Vigalondo torna finalmente con un’opera seconda che ne riafferma il talento, l’umorismo e l’originalità. Extraterrestre è ambientato in una città evacuata a causa della presenza di un’enorme e misteriosa astronave nel cielo, ma la priorità del film, come quella dei personaggi, è il quadrangolo amoroso che si svolge all’interno delle mura di un appartamento – Julio e Julia, che si sono appena conosciuti e hanno passato la notte insieme; Carlos, il fidanzato di lei che torna all’improvviso; e Ángel, il vicino di casa, da sempre innamorato della ragazza. L’incrocio di desideri e di segreti causerà conseguenze inaspettate.
Vigalondo utilizza la fantascienza come un pretesto per isolare i personaggi, le loro pulsioni e le loro paranoie, realizzando un’eccentrica commedia romantica da camera sul potere della parola giocata su un incastro perfetto di inganni e manipolazioni in cui è coinvolto anche lo spettatore. Caratterizzato da un umorismo spesso sotto le righe ma a tratti esplosivo, al tempo stesso fisico e cerebrale, e da una brillante sceneggiatura in continuo crescendo e tesa come quella di un thriller che fa tesoro di ogni singolo dettaglio e oggetto (le palline da tennis, il vaso di pesche sciroppate), Extraterrestre è semplicemente divertentissimo ma è anche un film estremamente curato, oltre che preciso e ingegnoso da un punto di vista registico nonostante i limiti del budget. Il cast, poi, è favoloso, tenendo conto che due terzi del film si svolgono in un paio di stanze: Michelle Jenner è uno stupefacente e inconsapevole oggetto del desiderio, Julián Villagrán regala la giusta dose di ambiguità al suo personaggio e Carlos Areces (già protagonista di «Balada Triste») è spassoso nel ruolo del dirimpettaio petulante.
Una bellissima conferma.
Il film è stato presentato a Toronto lo scorso settembre ed è uscito in Spagna a marzo. Nessuna traccia del film tra le uscite italiane, per il momento. Però il film precedente di Vigalondo nel frattempo è uscito in dvd anche da noi con il titolo internazionale “Timecrimes“. Consigliato, anzi obbligatorio.