Inediti

Goon, Michael Dowse 2011

Goon
di Michael Dowse, 2011

Il ruolo della violenza nel canone del film sportivo ha spesso un carattere oppositivo, di contrasto allo spirito del gioco. Goon parte da un presupposto diverso: sul campo da hockey il fallo è un elemento tattico di vitale importanza, capace di ribaltare le sorti di un torneo. Così Doug, pecora nera di una famiglia di medici, ingenuo buttafuori dal cuore d’oro senza alcun talento per i pattini ma capace di spaccare un casco a craniate, viene acquistato da una squadra della minor league per coprire le spalle a un giocatore eccellente ma traumatizzato e autodistruttivo, e ne diventa la star. Ma lo aspetta lo scontro inevitabile con un altro celebre picchiatore sul viale del tramonto. Ispirato alla vera storia di Doug Smith, le cui performance vengono mostrate durante i titoli di coda, e scritto dal co-protagonista Jay Baruchel insieme a Evan Goldberg (entrambi abituali sodali di Seth Rogen) Goon è una sorprendente e furiosa commedia iper-canadese che Michael Dowse, fresco del deludente Take Me Home Tonight, manovra con mano sicura, dirigendo le sequenze sportive con un ritmo forsennato e quelle romantiche (l’oggetto delle attenzioni di Doug è la bravissima Alison Pill) con affettuosa partecipazione, mantenendo sempre però il piglio irresistibilmente scorretto e parolacciaro richiesto dalla sceneggiatura. In ogni caso, ovviamente, il cuore del film è Seann William Scott, un candido antieroe dalla testa dura per cui è impossibile non fare un tifo sfegatato.

Il film è stato presentato a Toronto nel 2011, è uscito in UK lo scorso gennaio, in Canada e negli USA a febbraio. Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

Jeff, Who Lives at Home, Mark e Jay Duplass 2011

Jeff, Who Lives at Home
di Mark e Jay Duplass, 2011

Jeff ha superato i trent’anni ma vive ancora nello scantinato della madre. Non lavora, fuma il bong, guarda le televendite e ha una verace passione per Signs, di cui condivide l’esasperato fatalismo. Pat è il manager di un ristorante, sposato e cieco alle esigenze della moglie: nonostante stiano mettendo via i risparmi per comprare una casa, a colazione le presenta la sua nuova Porsche parcheggiata nel vialetto. Jeff e Pat sono fratelli, anche se non si parlano mai. Anche Mark e Jay Duplass sono fratelli, ma lavorano insieme: sono stati tra i protagonisti del mumblecore, più che un movimento un’etichetta volta a semplificare una pulsione produttiva presente nel cinema americano indipendente lo scorso decennio, di cui vediamo in qualche modo le conseguenze nelle carriere di Greta Gerwig, Lynn Shelton, ma anche di Lena Dunham e dello stesso Mark come attore. L’inevitabile evoluzione commerciale dei due registi non ne ha però compromesso il talento né ha intaccato la semplicità del loro modo di raccontare: come e meglio che in Cyrus, i Duplass utilizzano attori noti (qui Jason Segel, Ed Helms e Susan Sarandon) per parlare di avvenimenti ordinari e sentimenti convenzionali, facendo però un passo in più, ovvero dando loro un respiro epico. Partendo da uno spunto cinefilo quantomeno peculiare (la passione di Jeff per il film di Shyamalan), da un’aderenza alle unità aristoteliche e da un’opposizione trasparente (quella tra la fiducia nel destino di Jeff e lo scetticismo di Pat), il film racconta una trasformazione della banalità in eccezionalità ma senza mai allontanarsi dall’immediatezza con cui sanno raccontare i personaggi, anche in rapporto alla realtà del tessuto urbano (che conoscono bene: qui siamo a Baton Rouge, i due registi sono di New Orleans). Il risultato abbraccia una visione del mondo entusiastica e forse un po’ naïf in cui la volontà è in grado di mutare la prosaicità del mondo: per fortuna il tutto è realizzato con senso della misura (il film non arriva all’ora e mezza di durata), con un’ironia garbata e irresistibile, una messa in scena intelligente e originale, lontana dai vezzi più amatoriali, e ovviamente un impagabile trio di attori. Sette anni dopo The Puffy Chair, per la carriera dei Duplass non potevamo sperare di meglio.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

Extraterrestre, Nacho Vigalondo 2011

Extraterrestre
di Nacho Vigalondo, 2011

Dopo l’esordio cinque anni fa con il sorprendente, geniale Los cronocrímenes, il regista spagnolo Nacho Vigalondo torna finalmente con un’opera seconda che ne riafferma il talento, l’umorismo e l’originalità. Extraterrestre è ambientato in una città evacuata a causa della presenza di un’enorme e misteriosa astronave nel cielo, ma la priorità del film, come quella dei personaggi, è il quadrangolo amoroso che si svolge all’interno delle mura di un appartamento – Julio e Julia, che si sono appena conosciuti e hanno passato la notte insieme; Carlos, il fidanzato di lei che torna all’improvviso; e Ángel, il vicino di casa, da sempre innamorato della ragazza. L’incrocio di desideri e di segreti causerà conseguenze inaspettate.

Vigalondo utilizza la fantascienza come un pretesto per isolare i personaggi, le loro pulsioni e le loro paranoie, realizzando un’eccentrica commedia romantica da camera sul potere della parola giocata su un incastro perfetto di inganni e manipolazioni in cui è coinvolto anche lo spettatore. Caratterizzato da un umorismo spesso sotto le righe ma a tratti esplosivo, al tempo stesso fisico e cerebrale, e da una brillante sceneggiatura in continuo crescendo e tesa come quella di un thriller che fa tesoro di ogni singolo dettaglio e oggetto (le palline da tennis, il vaso di pesche sciroppate), Extraterrestre è semplicemente divertentissimo ma è anche un film estremamente curato, oltre che preciso e ingegnoso da un punto di vista registico nonostante i limiti del budget. Il cast, poi, è favoloso, tenendo conto che due terzi del film si svolgono in un paio di stanze: Michelle Jenner è uno stupefacente e inconsapevole oggetto del desiderio, Julián Villagrán regala la giusta dose di ambiguità al suo personaggio e Carlos Areces (già protagonista di «Balada Triste») è spassoso nel ruolo del dirimpettaio petulante.

Una bellissima conferma.

Il film è stato presentato a Toronto lo scorso settembre ed è uscito in Spagna a marzo. Nessuna traccia del film tra le uscite italiane, per il momento. Però il film precedente di Vigalondo nel frattempo è uscito in dvd anche da noi con il titolo internazionale “Timecrimes“. Consigliato, anzi obbligatorio.

Architecture 101, Lee Yong-Joo 2012

Architecture 101 (Geon-chook-hak-gae-ron)
di Lee Yong-Joo, 2012

Uno dei più grandi successi al botteghino sudcoreano lo scorso anno è stato Sunny, un film che tra le altre cose fa leva sulla ritrovata nostalgia degli anni ottanta; allo stesso modo, uno dei campioni al box office di questa prima metà del 2012 (per ora il quarto incasso) è Architecture 101, in cui sono gli anni novanta al centro della narrazione. La costruzione dei due film è simile: qui l’architetto Seung-min viene contattato da Seo-yeon, una sua amica del primo anno di Università, che gli chiede di costruirle una casa sui ruderi di una sua vecchia proprietà, senza dargli troppe spiegazioni. Il resto del film, come già in Sunny, è raccontato in parallelo tra passato e presente, permettendoci di scoprire gradualmente la verità sul loro rapporto, su cosa li aveva allontanati, sul perché di questo improvviso ritorno. La grande differenza, anche con la norma del film sentimentale, è nella prospettiva da cui viene narrato – e, di riflesso, nel target: infatti il film è stato un enorme successo prima di tutto grazie al pubblico maschile.

Al suo secondo film dopo un horror (Possessed) Lee Yong-Joo, anche sceneggiatore, mostra di saper sfruttare la recente nostomania coreana con garbo e astuzia ma anche con classe e intelligenza, attirando il pubblico generazionale con un notevole armamentario d’epoca (i cercapersone, la spuma per capelli, un lettore cd portatile che diventa un elemento essenziale della trama) e con un’ironia sulle ingenuità di un passato prossimo che pare remotissimo (il dialogo sull’hard disk da 1 GB, “non ti basterebbe una vita per riempirlo”) ma concentrando poi quasi tutti gli sforzi sul lato più tradizionalmente romantico del film. Che funziona alla perfezione, soprattutto grazie all’universalità di una storia sul rimpianto e sulle occasioni perdute, ma anche a un ottimo cast (in primis le due Seo-yeon: l’incantevole Han Ga-in e la giovanissima Bae Suzy, una teen idol in patria), nonostante le età degli attori siano tutte visibilmente sfasate, a una brillante sceneggiatura che affianca l’esplorazione topografica a quella emotiva, e a una conclusione malinconica e tutt’altro che scontata.

L’immancabile canzone-feticcio del caso è “An Essay of Memory” degli Exhibition.

 

The Raid: Redemption, Gareth Evans 2011

The Raid: Redemption (Serbuan Maut)
di Gareth Evans, 2011

Notte fonda. Nel suo appartamento, il giovane Rama si allena, prega. Saluta la moglie, le accarezza il grembo: “aspetta che tuo padre torni a casa, ok?”. Poi saluta il padre, gli dice: “lo riporterò”. In un mezzo corazzato la squadra di Rama, che è l’ultimo arrivato, il “novellino”, si prepara ad attaccare il condominio dominato dal boss Tama Riyadh. “Andiamo a purificare questa cazzo di città”, piano per piano, come in un platform. Ma Tama non si fa cogliere impreparato, anche perché ha un folto e pericolosissimo esercito: gli inquilini del palazzo. Non si perde tempo: l’assalto comincia dopo pochi minuti e da lì alla fine del film non ci sarà più un secondo di tregua né un attimo per fermarsi a riflettere. Presentato a Toronto, a Torino e al Sundance, uscito poi in sala negli states accolto dall’entusiasmo della critica, il terzo film del gallese Gareth Evans, innamoratosi del “pencak silat” durante le riprese di un documentario (e facendone già il fulcro del precedente Merantau) è riuscito in un’impresa che va ben oltre la scoperta occidentale di Iko Uwais e di quest’arte marziale tradizionale indonesiana: ha alzato spaventosamente l’asticella del ritmo, della violenza e della qualità, ponendo nuove basi per il cinema di arti marziali (le prove atletiche di Uwais o del “cane pazzo” Yayan Ruhian fanno quasi impallidire quelle di stimati colleghi come Tony Jaa e Jeeja) ma forse anche per l’action in generale. La differenza la fa proprio Evans, che è un regista vero, uno che sa trasformare pianerottoli di periferia nel campo di battaglia di un film di guerra, e che dirige con una precisione mostruosa e un’impressionante creatività. Basta guardare la ricchezza e la cura dei movimenti di macchina durante le scene più concitate per rendersi conto che sotto la spietata brutalità apparentemente caotica del suo film si nasconde un gusto per la ricerca tutt’altro che scontato – con la macchina da presa che si inclina insieme ai calci e ai corpi sollevati, che cade insieme ai corpi sbattuti a terra, che corre e urla insieme a Rama per i corridoi del palazzo, senza perdere o sbagliare un colpo. Un film che si guarda dall’inizio alla fine senza quasi riuscire a respirare e che, probabilmente, sta già cambiando le regole del gioco.

Il film è nel listino di One Movie e quindi dovrebbe uscire, presto o tardi, anche in Italia.

Punch, Lee Han 2011

Punch (Wan-deuk-i)
di Lee Han, 2011

Cresciuto dallo zio e dal padre, un gobbo clown venditore ambulante, il diciassettenne Wan-Deuk vive in un quartiere popolare, taciturno e isolato dai suoi coetanei. Il suo scontroso professore e vicino di casa Dong-Joo, per la cui morte Wan-Deuk si ritrova periodicamente a pregare, lo prende sotto la sua protezione a modo suo, e dopo avergli rivelato l’identità della madre, lo aiuta a coltivare il suo talento: la lotta. Che a dispetto della trama e del titolo internazionale Punch non sia un film di boxe né un “film sportivo” in senso stretto lo si evince facilmente dal fatto che in tutto il film c’è un solo vero incontro di kickboxing, anche se non mancano alcuni cliché del genere – come il montage degli allenamenti. Il film di Lee Han, sorprendente successo al box office (quarto film più visto in assoluto del 2011 in Corea del Sud), è in verità una gradevole commedia proletaria che funziona sia come romanzo di formazione di un giovane povero alla ricerca della sua identità e della felicità, sia come storia di un’amicizia impossibile e di rapporti paterni irrisolti, sia infine come affresco quasi corale di una bizzarra comunità di perdenti che imparano a farsi forza a vicenda. Lee Han riesce nell’intento di trasformare una materia potenzialmente deprimente in un vero e proprio feel-good movie, il cui ottimismo in barba alle avversità sociali ed economiche risulta in definitiva quasi travolgente nella sua ingenuità. Il cast è ottimo e Yu Ah-In è perfetto nel ruolo del ragazzino ribelle (nonostante abbia già 25 anni) ma la differenza vera la fa lo strabiliante Kim Yun-Seok, che dopo essersi fatto notare nei due bellissimi film diretti da Na Hong-Jin (The Chaser e The Yellow Sea) sfodera qui, nel ruolo del burbero professore marxista, un inaspettato e sfumatissimo talento leggero: davvero uno dei migliori attori coreani di questi anni.

Il film è stato presentato al Far East Film Festival di Udine lo scorso aprile.

Su Yesasia è disponibile l’edizione dvd coreana (Regione 3).

Sunny, Kang Hyeong-Cheol 2011

Sunny (Sseo-ni)
di Kang Hyeong-Cheol, 2011

Durante una visita all’anziana madre in ospedale, Na-Mi incontra una vecchia amica d’infanzia, che la informa di essere malata e ormai terminale. E le rivela un desiderio: incontrare di nuovo il gruppo di amiche (le “Sunny”) con cui entrambe hanno perso i contatti da più di vent’anni. Presentato nella opening night del Far East Film Festival di quest’anno, Il film di Kang Hyeong-Cheol (già regista del campione d’incassi Scandal Makers) è stata la vera sorpresa del botteghino sudcoreano nel 2011: terzo titolo più visto dell’anno (7,3 milioni di biglietti) per una storia che mescola malinconia e leggerezza rivelando gradualmente le storie passate e i destini delle sue protagoniste. A dispetto delle possibili apparenze, è veramente impossibile resistere a Sunny: anche autore della brillante e ingegnosa sceneggiatura, Kang ha sfruttato al meglio un ricchissimo cast di straordinarie interpreti (sia nel presente che nel passato) e grazie a un uso magistrale (anche tecnicamente) del montaggio parallelo ha trovato un equilibrio perfetto tra commedia e dramma, ma anche tra il gusto per il racconto e quello per la ricostruzione storica, peraltro di un popolo che in quegli anni stava attraversando grandi cambiamenti tra cui l’inizio di un’inesorabile occidentalizzazione (il mito de Il Tempo delle Mele, l’ossessione per i marchi) in contrasto con la coercizione della dittatura militare. Particolarmente originale è proprio il modo in cui Sunny affianca le vicende personali dei suoi personaggi alla Storia del paese, in particolare alla violenta repressione dei movimenti studenteschi da parte dell’esercito del presidente Chun Doo-hwan; il culmine è la sequenza inaudita in cui la rissa tra le due bande di ragazzine ha come sfondo proprio le lotte tra i manifestanti e i poliziotti nelle strade di Seoul, sdrammatizzata da uno stile cartoonesco e dalle note di Touch by touch dei Joy. La musica, più in generale, ha un’importanza fondamentale nel film: l’inevitabile Reality di Richard Sanderson, ma anche le canzoni di Cyndi Lauper e ovviamente il pezzo di Boney M che dà il nome al gruppo di amiche (e al film) e che diventa poi il fulcro di un finale sfacciatamente commovente.

War of the Arrows, Kim Han-min 2011

War of the Arrows (Choi-jong-byeong-gi Hwal)
di Kim Han-min, 2011

Si fa un gran parlare di una recente tendenza, forse del tutto casuale: la notevole presenza di archi e frecce in molti film come Hunger Games, Brave o The Avengers ma anche in tv con i prossimi Arrow Revolution. A modo loro, in Corea del Sud sono arrivati un passo in anticipo. In un anno particolarmente fortunato per il botteghino sudcoreano, il campione d’incassi tra i titoli locali è stato proprio il film di Kim Han-min, che nel corso del 2011 ha totalizzato quasi 7 milioni e mezzo di spettatori – battuto solo, ma a breve distanza, da Transformers 3. Ambientato durante l’invasione della Corea da parte della Manciuria (siamo nel 1636, per capirci), War of the Arrows è un film di avventura in costume dove le più tradizionali arti marziali e le lame del wuxia lasciano il posto a miracolosi e precisissimi tiri con l’arco, tendendo ad allontanarsi dalla cornice storica per concentrarsi sulla sfida a frecciate tra l’eroico arciere Nam-Yi e la sua nemesi Jyuu Shin-Ta. Il cuore del film è infatti il lunghissimo e appassionante inseguimento che occupa quasi tutta la seconda metà e che Kim Han-min orchestra con ritmo e intelligenza, quasi senza dialoghi, giocando sul continuo ribaltamento tra vittima e carnefice, azzeccando alcune ottime trovate (soprattutto quella della rupe) e recuperando l’interesse che, nella prima parte, si faceva desiderare – fino all’inevitabile pathos dello scontro finale. In definitiva, il film è un divertimento innegabile anche se piuttosto standardizzato e senza particolari guizzi. Se non nel cast: a parte la sfida virile tra due facce incredibilmente carismatiche come quelle di Park Hae-Il (il buono) e Ryoo Seung-Ryong (il cattivo), anche la brava semi-esordiente Moon Chae-won (già star della tv coreana) riesce a farsi notare a dispetto del poco spazio rimasto.

Il film è già disponibile nell’edizione dvd britannica, anche in blu-ray.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana.

Cinema Verite, Shari Springer Berman e Robert Pulcini 2011

Cinema Verite
di Shari Springer Berman e Robert Pulcini, 2011

All’inizio degli anni settanta, il produttore Craig Gilbert ebbe un’idea a suo modo geniale: riprendere per mesi una tipica “famiglia americana” e ricavarne un documentario televisivo lungo dieci ore. Superata la diffidenza della PBS, ne uscì An American Family, andato in onda nel 1973 e divenuto un caso mediatico senza precedenti: dodici episodi in cui la vita di una famiglia apparentemente felice e normale veniva osservata durante il suo graduale, inevitabile disfacimento. Causato in parte, ovviamente, dal programma stesso. Questo film per la tv prodotto e trasmesso dalla HBO racconta una versione romanzata di tutta la storia (assai meno nota da noi che negli states), dalla genesi del progetto alle polemiche che lo seguirono, trovando soluzioni intelligenti per far dialogare il materiale d’archivio con la sua ricostruzione e azzeccando un ottimo cast – su tutti Diane Lane e James Gandolfini. La coppia di registi di American Splendor viene proprio dal documentario e utilizza la storia dei Loud per riflettere sull’evoluzione del mezzo televisivo – An American Family è considerato un antesignano degli odierni reality – e più in generale sulla fine dell’innocenza della televisione americana (non a caso sono gli ultimi anni della guerra in Vietnam) anche se spesso Cinema Verite funziona più che altro come discreto period movie.

Spellbound, Hwang In-ho 2011

Spellbound / Chilling Romance* (O-ssak-han Yeon-ae)
di Hwang In-ho, 2011

Tra gli aspetti che mi colpirono subito del cinema sudcoreano, quando cominciai a interessarmene, c’era la capacità di mescolare i generi e soprattutto i registri con sfrontatezza, entusiasmo e qualche volta persino con coraggio. Spellbound in tal senso si racconta molto facilmente: è in tutto e per tutto una commedia romantica, tipicamente coreana, ma è anche una tenebrosa ghost story, ben inserita nella recente tradizione del k-horror. L’ostacolo alla storia d’amore tra l’illusionista Jo-Goo e la solitaria assistente Yeo-Ri è infatti un particolare talento di quest’ultima: vede la gente morta. E chiunque le stia troppo vicino rischia di diventarne vittima.

Hwang In-ho, sceneggiatore al suo esordio dietro la macchina da presa, riesce con mano sicura a far convivere le due anime del film: da una parte il romance, declinato sia nella forma più comica e buffa sia in quella più melodrammatica; dall’altra il fantastico, con alcune sequenze che, pur con leggerezza, non hanno molto da invidiare a cugini horror meno allegri. “In un film del terrore la protagonista non si innamora mai perché se avesse qualcuno accanto non avrebbe più paura”, si dice nel film; perché Hwang non si limita a giocare con le convenzioni (capelli lunghi neri, rancori, bambini pallidi) e inserisce nella stessa sceneggiatura i meccanismi che danno vita al film – lui è appassionato di commedie con lieto fine, lei risponde “la mia vita assomiglia più a un horror” – scoprendo quindi tutte le carte, fin dallo spettacolo a tema con cui Jo-Goo ha ottenuto il successo.

Spellbound è un film bizzarro e tenerissimo che salta da un tono all’altro con naturalezza e brio, rinforzato da una produzione perfetta, da dialoghi davvero divertenti e da due attori (soprattutto la graziosa Son Ye-Jin di My Wife Got Married) che affrontano i loro ruoli con senso dell’umorismo, oltre che con bravura. Insomma, un piacevolissimo film che nel suo piccolo contiene tutta la vitalità del cinema sudcoreano.

Uscito nel dicembre 2011 in patria, il film è stato un buon successo commerciale anche grazie (pare) al passaparola su Internet: ottavo film coreano dell’anno e quattordicesimo nella classifica complessiva degli incassi.

Per chi non ha problemi con la Regione 3, è disponibile nell’edizione dvd coreana.

* il film è conosciuto all’estero con entrambi i titoli: “Spellbound” è quello internazionale, “Chilling Romance” è la traduzione letterale dell’originale