Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato (The Hobbit – An unexpected journey)
di Peter Jackson, 2012
Negli anni della trilogia di Il signore degli Anelli, gran parte del discorso sull’adattamento di Peter Jackson era imperniato sulla fedeltà al testo: cos’è assente? Cosa è stato inserito? Di cosa si sente la mancanza? Cosa c’è di troppo? Discorsi, a dire, il vero, che interessavano quasi soltanto gli iniziati – per quanto non si tratti propriamente di una nicchia. Un decennio dopo, Jackson è tornato sui suoi passi ma ha messo subito in chiaro una cosa: scordatevi l’aderenza al testo, anche perché se un libro di 350 pagine diventa una saga di tre filmoni, qualcosa bisognerà pur inventare. Ma nel frattempo, all’annoso dilemma del rapporto tra il film e il libro se n’è aggiunto un altro: quello tra questa trilogia e la precedente. Ed è proprio qui, più che nell’aneddotico e limitante paragone tra pagina e schermo, che Un viaggio inaspettato comincia a soffrire. Non tanto per una questione di confronto qualitativo, non perché con questo primo capitolo la trilogia di Lo Hobbit si preannunci, a scanso di miracoli, infinitamente meno riuscita di quella del Signore degli Anelli, quanto perché il peso enorme di quel mostro da tre miliardi di dollari (e diciassette Oscar, non scordiamolo) agisce sulla nuova operazione schiacciandola e trasformandola in una pallida appendice in cui ogni santa volta che appare l’Anello deve per forza partire il tema musicale dell’Anello. Invece di affrontare Lo Hobbit come un oggetto a sé stante, con la sua dignità, Jackson ne mortifica l’individualità ponendo l’accento su un’unica qualità – quella di essere “il prequel”, l’anticipazione di una storia ben più importante e più bella, a suo avviso, che abbiamo però già sentito e di cui conosciamo le sorti. Non ha troppo senso dire che un film sarebbe migliore se fosse diverso (perché non è così: sarebbe un altro film) ma è innegabile che l’impulso verso una storia esplosivamente infantile, come traspare dalle sequenze più divertenti del film, come quella dei troll, strida terribilmente con il tono generale – che è minaccioso e cupo, con tanto di posticcio super-villain in CGI, nonché mortalmente serioso: ma la posta in gioco così ridotta, messa continuamente in parallelo alla successiva e più decisiva lotta tra il Bene e il Male, non aiuta certo ad appassionarci alle vicende di due protagonisti che sappiamo usciranno pressoché incolumi da queste nove interminabili ore. La dilatazione temporale non è d’aiuto, riempie il film di accessorie lungaggini ma, paradossalmente, non ci dà il tempo di conoscere per bene i nani, che restano quasi tutti indistinguibili, e persino la scena più attesa (e apparentemente più acclamata), quella di Gollum e degli “indovinelli”, soffre di tutto ciò: da un lato mette letteralmente il film “in pausa”, dall’atro viene avvilita dal continuo rimando al destino dell’Anello. Ciò nonostante, non manca il divertimento, il film è realizzato con grande cura, vi si ritrova il senso della grandiosità e dell’impellenza che Jackson riesce a infondere in ogni sua storia (per quanto svilito dalla proiezione in HFR, ma questo è tutto un altro discorso), e i panorami della Nuova Zelanda, che pensavamo di aver abbondamente digerito, continuano a mozzare il fiato. Ma in definitiva, Lo Hobbit è un monumento che Jackson ha costruito, più che all’epica tolkieniana, al suo appropriamento totale della stessa: spettacolare, e francamente inutile.