Prime Visioni

Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, Peter Jackson 2012

Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato (The Hobbit – An unexpected journey)
di Peter Jackson, 2012

Negli anni della trilogia di Il signore degli Anelli, gran parte del discorso sull’adattamento di Peter Jackson era imperniato sulla fedeltà al testo: cos’è assente? Cosa è stato inserito? Di cosa si sente la mancanza? Cosa c’è di troppo? Discorsi, a dire, il vero, che interessavano quasi soltanto gli iniziati – per quanto non si tratti propriamente di una nicchia. Un decennio dopo, Jackson è tornato sui suoi passi ma ha messo subito in chiaro una cosa: scordatevi l’aderenza al testo, anche perché se un libro di 350 pagine diventa una saga di tre filmoni, qualcosa bisognerà pur inventare. Ma nel frattempo, all’annoso dilemma del rapporto tra il film e il libro se n’è aggiunto un altro: quello tra questa trilogia e la precedente. Ed è proprio qui, più che nell’aneddotico e limitante paragone tra pagina e schermo, che Un viaggio inaspettato comincia a soffrire. Non tanto per una questione di confronto qualitativo, non perché con questo primo capitolo la trilogia di Lo Hobbit si preannunci, a scanso di miracoli, infinitamente meno riuscita di quella del Signore degli Anelli, quanto perché il peso enorme di quel mostro da tre miliardi di dollari (e diciassette Oscar, non scordiamolo) agisce sulla nuova operazione schiacciandola e trasformandola in una pallida appendice in cui ogni santa volta che appare l’Anello deve per forza partire il tema musicale dell’Anello. Invece di affrontare Lo Hobbit come un oggetto a sé stante, con la sua dignità, Jackson ne mortifica l’individualità ponendo l’accento su un’unica qualità – quella di essere “il prequel”, l’anticipazione di una storia ben più importante e più bella, a suo avviso, che abbiamo però già sentito e di cui conosciamo le sorti. Non ha troppo senso dire che un film sarebbe migliore se fosse diverso (perché non è così: sarebbe un altro film) ma è innegabile che l’impulso verso una storia esplosivamente infantile, come traspare dalle sequenze più divertenti del film, come quella dei troll, strida terribilmente con il tono generale – che è minaccioso e cupo, con tanto di posticcio super-villain in CGI, nonché mortalmente serioso: ma la posta in gioco così ridotta, messa continuamente in parallelo alla successiva e più decisiva lotta tra il Bene e il Male, non aiuta certo ad appassionarci alle vicende di due protagonisti che sappiamo usciranno pressoché incolumi da queste nove interminabili ore. La dilatazione temporale non è d’aiuto, riempie il film di accessorie lungaggini ma, paradossalmente, non ci dà il tempo di conoscere per bene i nani, che restano quasi tutti indistinguibili, e persino la scena più attesa (e apparentemente più acclamata), quella di Gollum e degli “indovinelli”, soffre di tutto ciò: da un lato mette letteralmente il film “in pausa”, dall’atro viene avvilita dal continuo rimando al destino dell’Anello. Ciò nonostante, non manca il divertimento, il film è realizzato con grande cura, vi si ritrova il senso della grandiosità e dell’impellenza che Jackson riesce a infondere in ogni sua storia (per quanto svilito dalla proiezione in HFR, ma questo è tutto un altro discorso), e i panorami della Nuova Zelanda, che pensavamo di aver abbondamente digerito, continuano a mozzare il fiato. Ma in definitiva, Lo Hobbit è un monumento che Jackson ha costruito, più che all’epica tolkieniana, al suo appropriamento totale della stessa: spettacolare, e francamente inutile.

The Amazing Spider-Man, Marc Webb 2012

The Amazing Spider-Man
di Marc Webb, 2012

Non vale per qualunque film, ma spesso la scelta di assegnare una grande produzione a un determinato regista può essere l’avviso di una pista da seguire o di una decisione già presa. Scegliere il regista di una commedia romantica come (500) Days of Summer per dirigere un film di Spider-Man rendeva abbastanza chiaro almeno un intento, forse commerciale prima che artistico: spostare il baricentro dall’Uomo Ragno a Peter Parker, e mettere al centro del film più di ogni altra cosa il rapporto sentimentale tra il protagonista e Gwen Stacy. In tal senso, non è del tutto errato definire The Amazing Spider-Man un teen romance con i superpoteri, ma per fortuna Webb è rimasto lontano dalla pigrizia della saga di Twilight si è dimostrato all’altezza della situazione: il suo è un film decisamente riuscito che ha semmai la sfortuna di essere costruito su limiti strutturali, ben chiari già da prima della visione. Per quanto ci possano spacciare questo reboot come un’autentica novità, si tratta infatti di una origin story estremamente tradizionale e che non si scosta granché da quella raccontata soltanto dieci anni fa. La sceneggiatura non sembra fare molti sforzi per evitare l’effetto-replica e la narrazione procede in modo meccanico attraverso blocchi ben definiti e ormai noti; il reparto spettacolare è assolutamente impeccabile (le soggettive dei voli fanno la loro porca figura) ma non si vede il tentativo di dire qualcosa di veramente nuovo in un genere vicino alla saturazione; si perde qualche colpo in più con il villain di turno (il Lizard di Rhys Ifans) e ci si riprende quando in scena ci sono Peter e Gwen. Il grande vantaggio del film, persino rispetto ai primi due capitoli diretti da Raimi, è infatti senza dubbio nei due protagonisti: Andrew Garfield non è solo un attore capace e versatile, è espressivo, simpatico, arrabbiato, profondo, e contribuisce a sporcare il suo personaggio con un’umanità scombinata e confusa che lo allontana dai cliché adolescenziali per dare una nuova dimensione sia alle sue motivazioni che alla sua incapacità di fare la cosa giusta; e la sua stessa intelligenza è affrontata più come una condanna che come un’opportunità. Dall’altra parte, peraltro, c’è la solita favolosa Emma Stone, e probabilmente ciò che ci ricorderemo di questo film divertente e innocuo in futuro è l’alchimia davvero impressionante tra i due, la naturalezza del loro talento: senza bisogno di tirare in ballo le vicende personali dei due attori, Garfield e la Stone portano sullo schermo una freschezza e una bellezza immediata di cui il film aveva davvero bisogno. Forse è stata una buona idea, quella di mettere al centro del film la loro storia d’amore: perché è quello che ci portiamo a casa, alla fine del film.

Nei cinema dal 4 luglio 2012

Detachment, Tony Kaye 2011

Detachment – Il Distacco (Detachment)
di Tony Kaye, 2011

Tredici anni dopo l’esordio con American History X, da lui disconosciuto a causa dell’intervento della New Line e dello stesso Edward Norton sul final cut, Tony Kaye torna con un film che parte da un canovaccio piuttosto tradizionale per trasformarlo, attraverso la messa in scena, in qualcosa di molto più originale. Tratto dalle memorie di Carl Lund, il film racconta infatti del breve periodo passato in una scuola pubblica da un professore specializzato in supplenze e dal misterioso passato personale: incontrerà tra gli alunni e nel corpo docente un classico campionario di varia umanità a cui si aggiunge una giovanissima prostituta che si impone in qualche modo di redimere. Ma il film di Kaye è realizzato con uno stile personalissimo e fieramente indipendente che lo allontana dai canoni hollywoodiani: le singole scene del film (così come i membri del ricco cast) sembrano quasi schegge disordinate e causali a cui il montaggio si impone di restituire dignità narrativa, la regia liberissima e dinamica va alla ricerca del realismo sfiorando quasi lo stile del documentario ma con un intuito visivo spesso ammaliante che compensa i limiti del budget. E in tutta la parte finale Kaye riesce a trovare un equilibrio sensazionale tra il melodramma più tragico e una riflessione lucida e terribilmente avvilita sul ruolo dell’educazione nella società che, con la straordinaria immagine che chiude il film, non lascia molte speranze. Quelle restano altrove: lontano dai libri, fuori dalla classe.

Biancaneve e il Cacciatore, Rupert Sanders 2012

Biancaneve e il Cacciatore (Snow White and the Huntsman)
di Rupert Sanders, 2012

È inevitabile che nella promozione di film tratti da una celebre fiaba, come sono i due diversissimi Biancaneve spuntati a poche settimane di distanza l’uno dall’altro, si faccia leva prima di tutto sull’attrice che interpreta la regina cattiva: dopotutto, la tradizione disneyana vuole che il villain sia (quasi) sempre il personaggio più interessante della storia. Così, come per Mirror Mirror era Julia Roberts, qui è Charlize Theron il punto di forza del film. Ma la pressione non giova all’attrice sudafricana che, nonostante la sensazionale presenza scenica le permetta di riempire lo schermo con un semplice sguardo, cade nel tranello dell’overacting, spingendo troppo la sua interpretazione e facendola cascare fuori dalla righe. Un elemento che sarà smorzato dall’edizione doppiata, ma che diventa presto il tratto caratteristico della prima mezz’ora: il geniale understatement di Young Adult sembra lontano secoli. Poi però Charlize, di fatto, scompare per buona parte del film – che ne esce ugualmente impoverito, privato della sua ragion d’essere.

Sanders è un regista capace di buone invenzioni visive, il background pubblicitario avvicina il suo stile fiammeggiante e autocompiaciuto proprio a quello di Tarsem (lo specchio liquido, l’abito fatto di corvi: paradossalmente questo film pare quasi più “tarsemiano” di Mirror Mirror) mentre il nume tutelare dell’operazione, tra battaglie epiche e lunghe camminate sul dorso delle montagne, sembra essere il fantasy jacksoniano della trilogia dell’Anello. Ma al di là di qualche intuizione, il suo Biancaneve non aggiunge nulla di originale o travolgente, la sceneggiatura è pigra e il plot terribilmente meccanico (se non si conta la scelta di troncare di netto ogni risoluzione, chiudendo come chi guarda l’orologio e vede che si è fatto tardi e peraltro barando con un finto accenno a un finale aperto), gli sforzi sovrumani per trasformare otto attori inglesi in nani sono scarsamente giustificati dal loro apporto alla trama e allo spirito del film (che è fin troppo cupo e serioso, qualche pennellata di ironia non avrebbe guastato) e la palese carenza di talento di una legnosa e impacciata Kristen Stewart non è certo d’aiuto.

Per chi ne avesse già ammirato le doti in Thor e The Avengers non è una vera sorpresa, ma il migliore in campo è proprio Chris Hemsworth: burbero, romantico e sfrontato, riesce persino a umanizzare il puntuale monologo amoroso e sorpassa le sue colleghe con una naturalezza e un fascino brusco che, nella seconda metà, contribuisce da solo a salvare il film dal pericolo della noia ogni volta che è in campo. Difficile invece salvare un paio di effetti speciali così sgraziati da sembrare ancora in corso d’opera: dove sono finiti 170 milioni di budget?

The Woman in Black, James Watkins 2012

The Woman in Black
di James Watkins, 2012

Un horror inglese prodotto dalla Hammer, una volta abituatisi alla melodia della frase, sembra davvero un caso di condizioni produttive che influenzano artisticamente un’opera. Dopotutto, per sua stessa natura il film di James Watkins, alla sua seconda prova come regista dopo Eden Lake, sembra presentarsi come erede ufficiale di una lunga tradizione, quella di uno dei marchi per eccellenza del cinema di genere. Un horror d’altri tempi, insomma, volutamente desueto e “analogico”, in cui il montaggio sonoro e il make-up, le silhouette e la nebbia sono ben più funzionali degli effetti speciali odierni per provocare emozioni e spaventi. Il film non fa nulla per allontanare questa impressione: tratto da un libro di Susan Hill di una trentina d’anni fa e ambientato nella provincia inglese all’inizio del secolo scorso, è un ricettario, compiuto e piuttosto godibile, della ghost-story britannica che trae il massimo vantaggio da una sceneggiatura (di Jane Goldman, collaboratrice di Matthew Vaughn fin da Stardust) semplice e anch’essa volutamente inattuale e da una fotografia (di Tim Maurice-Jones, ex sodale di Guy Ritchie) che utilizza in modo intelligente la peculiare ambientazione storica e geografica. Curiosamente, il film non ha il suo culmine nella parte finale ma in una tesa e lunghissima sequenza centrale (quella in cui Arthur passa la notte nella casa stregata), perfetta antologia di trucchi e stilemi del genere, dalle apparizioni improvvise ai classici minacciosi scricchiolii. Verso la fine il film finisce per prendersi un po’ troppo sul serio, rinuncia a un po’ della sua gradevolissima obsolescenza (talvolta sembra persino strizzare l’occhio al j-horror) e chiude in modo poco convincente; ma rimane un suggestivo esercizio di stile, che peraltro permette al bravo Daniel Radcliffe il primo passo di una – probabilmente ardua – fuga dalla maledizione del typecasting.

Dark Shadows, Tim Burton 2012

Dark Shadows
di Tim Burton, 2012

Da qualche anno a questa parte, quando si parla di Tim Burton è bene specificare da quale parte della barricata ci si trovi. L’orribile Alice in Wonderland da una parte e il meraviglioso Big Fish dall’altra sono forse gli unici due suoi film degli ultimi 15 anni a mettere d’accordo quasi tutti: per il resto, molti suoi fan nel corso del tempo si sono allontanati a causa di alcuni titoli che avrebbero “tradito” il cuore più amato della sua filmografia, diventando ripetitivi, meccanici e fasulli. Giusto per capirci, io me ne resto dall’altra parte della barricata: per esempio, considero Sweeney Todd un grande musical sanguinario penalizzato forse da musiche poco più che mediocri, La Sposa Cadavere era il mio “numero tre” tra i film usciti nel 2005, La Fabbrica di Cioccolato e Planet of the Apes sono due film riusciti solo a metà ma troppo spesso ingiustamente maltrattati. Difendere Tim Burton però non è un’impresa semplice, richiede dedizione e pazienza, anche perché il regista americano non fa nulla per distanziarsi dalle manie che gli vengono attribuite.

Mi piace immaginare, anche se sono già del tutto certo che non accadrà, che Dark Shadows possa tornare a riportare la pace tra difensori e detrattori. Tratto da una “soap con vampiri” degli anni settanta, un curioso oggetto vintage quasi del tutto dimenticato e riesumato con un affetto privo di eccessiva riverenza, il film è infatti davvero un gran divertimento. Al di là di una gestione dei registri forse un po’ pasticciata – ma quantomeno trascinata da una vivacità che Burton sembrava aver perduto – sa giocare con i cliché del period movie e con quelli dello stesso gotico burtoniano, mescolando in modo inusuale i consueti omaggi cinefili agil stilemi della soap opera televisiva. Lo sceneggiatore Seth Grahame-Smith, diventato una penna richiestissima dopo il caso di Pride and Prejudice and Zombies, non si preoccupa troppo di nascondere le metafore agli occhi del pubblico e preferisce sfoggiare una repertorio comico da time travel che sfrutta ogni variante della sua premessa (l’uomo settecentesco alle prese con le bizzarrie degli anni settanta) e porta con sé dalla sua esperienza letteraria una straordinaria dote – quella di non prendersi mai del tutto sul serio, anche al momento della resa dei conti. Una dote di cui, dopo il ridicolo involontario di Alice, si sentiva il bisogno come dell’aria.

Dal canto suo, il ricchissimo cast riesce a compiere l’impresa più ardua che gli veniva richiesta, ovvero quella di arginare l’ingombrante presenza di Johnny Depp. Se l’attore è certamente ancora popolarissimo ed è la “star” attraverso cui il film viene venduto al pubblico in tutto il mondo, non c’è dubbio che nel tempo sia diventato il maggior argomento d’attacco nei confronti dei film più recenti di Burton. E non sempre a torto. Risaputo make-up a parte, Depp fa il suo lavoro con classe e abnegazione, ma in Dark Shadows c’è ben altro: Michelle Pfeiffer, che comprende meglio di tutti gli altri come funziona il linguaggio di una soap, e recita di conseguenza; Helena Bonham Carter, che prima di essere la musa del regista è un’attrice con una mimica strepitosa e un invidiabile intuito comico; Chloe Moretz, che si impegna un po’ troppo ma all’occorrenza sa riscattarsi; la graziosa Bella Heathcote, che con quella faccia non poteva che finire nei panni dell’eroina emaciata in un film di Tim Burton. Ma soprattutto c’è Eva Green: grazie a lei la biondissima e demoniaca Angelique Bouchard è il personaggio più riuscito del film e tra i più memorabili della filmografia burtoniana, ruba la scena a tutti ogni secondo in cui è in campo con una bellezza abbagliante e un sorriso perfido e malefico. Un amore a seconda vista.

Tra gli aspetti che colpiscono di più in Dark Shadows c’è però sicuramente la magnificenza visiva, che ne fa uno dei film di Burton più “belli a vedersi”: il direttore della fotografia Bruno Delbonnel ha alle spalle un curriculum davvero notevole (da Amelie al Principe Mezzosangue fino al Faust di Sokurov) e qui conferma la sua enorme bravura e la sua elasticità assecondando le visioni del regista (per dirne una, il fantasma di Josette arriva dritto dalla Sposa Cadavere) non limitandosi a riempire il film di carrelli e dolly virtuosistici ma facendo respirare un senso di cura quasi ossessiva per ogni singola inquadratura, dalla saturazione dei colori alla posizione dei corpi e degli oggetti nello spazio, che lascia spesso ipnotizzati – e che richiede di essere goduta sul grande schermo. Splendente superficie senza alcuna profondità? Non proprio. Si potrà obiettare che Dark Shadows è più che altro un gioco, a tratti volutamente sciocco, che a volte sacrifica il pathos per una (buona) risata: ma è anche un film in cui Burton recupera una spontaneità, un equilibrio nella gestione tecnico-artistica e un senso dell’umorismo che non gli riconoscevamo da tempo, nonostante l’impegno preso per difendere la sua buona fede. La barricata resta alta, vedrete, ma stavolta non avrebbe nemmeno bisogno del nostro aiuto.

21 Jump Street, Phil Lord & Chris Miller 2012

21 Jump Street
di Phil Lord & Chris Miller, 2012

“Teenage the fuck up!”

Negli ultimi anni, molti film hanno cercato di riportare sullo schermo la migliore tradizione dei buddy movie polizieschi. Il tentativo è sempre più o meno lo stesso: fare una commedia che non sia una parodia ma dove funzioni anche il lato puramente action. I risultati sono alterni: ha fallito Kevin Smith con il suo Cop Out, è andata decisamente meglio ad Adam McKay e Will Ferrell in The Other Guys. Ma se Hot Fuzz di Edgar Wright rimane un modello insuperato da imitare, 21 Jump Street è forse il film che si avvicina di più al suo equilibratissimo miscuglio di omaggio affettuoso e divertimento puro.

Chi avrebbe mai scommesso su un film come 21 Jump Street? Un lungometraggio tratto da una serie tv conclusa più di vent’anni fa e che solitamente viene ricordata per aver lanciato Johnny Depp? Peraltro un film comedy tratto da una serie drama? E tutto ciò dopo il disastro (artistico, si intende) dello Starsky & Hutch di Todd Phillips? Per fortuna a scrivere il film c’è Michael Bacall, che viene – guarda il caso – da Scott Pilgrim di Wright, e per fortuna a dirigere ci sono Phil Lord e Chris Miller, ex ragazzi-prodigio della tv, responsabili del sorprendente film d’animato Piovono Polpette. Insomma, poteva essere l’ennesima sciocchezza ridanciana prodotta in un clima di zero creatività in cui finisce a scavare nei fondi di magazzino della cultura televisiva americana (vedi alla voce Land of the Lost); invece, a sorpresa, 21 Jump Street è uno dei film più esilaranti della stagione.

In parte anche perché è completamente consapevole del tipo di operazione che rappresenta, lo fa presente fin dalle primissime battute, e se non perde l’occasione per sottolineare ogni cliché (un esempio per tutti, il capitano della squadra degli infiltrati che si presenta dicendo “I know what you’re all thinking: Angry Black Captain!”) non li ridicolizza mai fino in fondo ma in qualche modo li abbraccia, come si fa con un vecchio amico a cui si vuole bene nonostante tutto. L’arrivo dei due poliziotti infiltrati nella high school è poi l’occasione per ribaltare in modo geniale gli stereotipi del liceo americano: leggere fumetti è diventato popolare, essere un jock manesco ti condanna all’emarginazione sociale. Cos’è successo nel frattempo? ”Fuck you, Glee!” risponde Channing Tatum.

Uno dei meriti maggiori di 21 Jump Street è stato proprio intuire, portare alla luce e sfruttare fino in fondo il potenziale comico di “COLLO” Tatum, tutt’altro che mera spalla dell’ormai navigato e qui dimagritissimo Jonah Hill: i due formano una coppia comica perfetta e capace di autentiche meraviglie – con il supporto di un ricco cast di contorno tra cui spiccano Dave Franco, Ice Cube, Ellie Kemper, Rob Riggle e l’adorabile Brie Larson. Bacall e il duo di registi ci mettono tutto il resto: da una parte una lista interminabile di dialoghi incredibilmente spassosi e immediatamente citabili (“stop fuckin’ with Korean Jesus! He’s busy with korean shit!”), dall’altra una cura superiore alla media delle sequenze più movimentate (che siano inseguimenti, sparatorie o viaggi lisergici sotto effetto di droghe sintetiche) che a tratti  ricordano proprio il mondo cartoonesco dentro cui Lord & Miller si sono fatti le ossa.

Una gran bella sorpresa.

Chronicle, Josh Trank 2012

Chronicle
di Josh Trank, 2012

Negli ultimi anni, si è diffusa in modo capillare, soprattutto nel cinema fantastico e nel cinema horror, la moda del cosiddetto found footage; un artificio tecnico e narrativo al tempo stesso attraverso il quale si possono anche compensare, magari in modo autoriflessivo, le proprie ristrettezze di budget. Sono però pochi (e quasi tutti usciti anni fa, per esempio Cloverfield, Redacted, Rec) i film che hanno saputo utilizzarlo in modo intelligente, sensato. Chronicle in tal senso rappresenta una svolta quasi epocale.

In una nuvolosa e suggestiva Seattle ricreata tra Vancouver e Cape Town, tre studenti delle superiori (tra cui uno solitario ed emarginato, con una tragica situazione famigliare e una fresca ossessione per la sua telecamera) scoprono per caso in un bosco fuori città una profonda cavità, il cui misterioso contenuto dona loro straordinari poteri telecinetici – e non solo, come vedremo in seguito. Chronicle è di fatto costruito come una origin story, ma quella che dalla distanza potrebbe sembrare l’ennesima variazione del tema super-eroico declinato nel mondo delle high school americane diventa nel suo implacabile e cupissimo sviluppo uno dei più originali e trascinanti romanzi di formazione degli ultimi tempi.

La sceneggiatura brillante e colta, solidissima anche se non sempre sottile, del 25enne figlio d’arte Max Landis accorpa noti contrasti sociali dell’immaginario high school, riferimenti geek, implicazioni filosofiche, ma partendo di base da una domanda ben chiara, che suona all’incirca: cosa succederebbe davvero se un adolescente ottenesse dei superpoteri? Tutti spunti che l’esordiente Josh Trank sfrutta con dedizione e passione, ma anche con innegabile fiuto; perché tra i grandi punti di forza, al di là dello stratagemma filmico in sé, è infatti l’uso che ne viene fatto e la sua centralità nel racconto. Dopotutto il film si chiama Chronicle e si apre sulla decisione di Andrew di “filmare tutto”: non si tratta di un pretesto ma di un concetto saldato alla psicologia dei personaggi, e quella della telecinesi come direzione della fotografia è un’idea autenticamente geniale che contribuisce a cambiare le regole del gioco dall’interno.

Ma al di là delle considerazioni necessarie sull’intelligenza, sulla scaltrezza e sulle implicazioni metanarrative di un film come Chronicle, da un certo punto in poi il talento artistico in campo e il gusto per lo spettacolo puro prendono totalmente il sopravvento. E fanno terra bruciata. Grazie alla bravura (ma anche al casting perfetto) degli semisconosciuti attori principali e a uno spirito strenuamente apocalittico, la seconda metà di Chronicle mette gradualmente da parte il tono più ironico e scanzonato dei dialoghi di Landis e si lancia in un crescendo drammatico, esplosivo, irresistibile che a molti ha ricordato quello di Akira e in cui la moltiplicazione degli strumenti di ripresa non fa che amplificare le notevoli ambizioni di tragica grandezza del film.

Chronicle fa molto di più che “spendere poco e guadagnare molto” (costato 12 milioni, ne ha già incassati più di 60 in Nord America e il doppio in totale) né si limita a percorrere strade già percorse dai suoi predecessori. Al contrario: ci riporta alla centralità delle idee, della bravura, della cura del racconto, dei personaggi. E ci lascia senza fiato in gola.

Nei cinema dal 9 maggio 2012

Hunger Games, Gary Ross 2012

Hunger Games (The Hunger Games)
di Gary Ross, 2012

Aver letto il libro da cui è stato tratto un film non è affatto necessario per giudicare o comprendere quest’ultimo; anzi, spesso può portare fuori strada. Ma in alcuni casi può essere utile per inquadrarlo, quantomeno per avere un punto da cui partire, soprattutto se si parla di un imponente successo letterario come quello del libro di Suzanne Collins, che io stesso mi sono sorpreso a divorare in poco tempo. Pur trascinandosi dietro l’etichetta “young adult”, è un libro fluido e lucido, immaginifico e incalzante, in cui l’autrice mostra un’abilità notevole nell’applicare il gusto per il sincretismo culturale (dai miti greci ai reality show, passando per i classici della fantascienza distopica) senza limitarsi, come nel caso di Twilight, ad applicare una “cornice” di genere a convenzioni reazionarie.

Molto fedele al suo testo originario fino a dove è narrativamente plausibile (adattato dalla stessa Collins insieme al regista e al Billy Ray di Breach, risponde in modo agile al passaggio dal racconto in prima persona), il film trova a sorpresa nel Gary Ross di Pleasantville una guida intelligente e non banale (vedi la prima parte ambientata nel Distretto 12, tutta camera a mano e primissimi piani) e qualche difficoltà si riscontra solo nelle scene più movimentate, a tratti un po’ confuse. Per il resto, Hunger Games è un divertimento solidissimo e appassionante, con alcune scelte di casting incredibilmente azzeccate (Harrelson in primis, ma anche Lenny Kravitz e Stanley Tucci funzionano benissimo) e dominato per tutta la sua durata dalla formidabile presenza scenica della sua protagonista. Tra le attrici più dotate (e più belle, diciamolo) della sua generazione, Jennifer Lawrence riesce a trasmettere tutte le sfumature del personaggio di Katniss Everdeen senza mai forzare la mano, regalando una performance memorabile che sembra quasi un complemento della Ree Dolly di Winter’s Bone.

Due pesi, due misure: Hunger Games, così come il libro, non è un’opera radicale o rivoluzionaria; ma è un film che riesce a bilanciare in modo perfetto le esigenze del target a cui sarebbe dedicato (senza sottovalutarne la maturità o l’intelligenza) con un gusto per il puro racconto che Hollywood spesso trascura, costruendo insieme all’attrice un personaggio femminile autenticamente eroico, coraggioso e indipendente, facendo leva su temi e pulsioni attuali e universali (moltissime le possibili interpretazioni politiche del film, che lasciamo ad altri) e finendo per diventare perfetto per qualunque pubblico – un esempio per il cinema mainstream, fantastico e non. Infatti anche il film ha avuto un enorme successo: quasi 600 milioni di incasso in pochi giorni per “solo” 80 milioni di budget, e in due dimensioni. Se li merita, dal primo all’ultimo dollaro.

The Avengers, Joss Whedon 2012

The Avengers
di Joss Whedon, 2012

In tempi in cui il discorso sul cinema si è ridotto sempre più a un’opposizione tra aspettativa e realizzazione, come era possibile mantenere le promesse di un progetto come The Avengers? Stiamo parlando di un blockbuster su cui è stato puntato così tanto (in tempo e denaro) da trasformare in trailer i blockbuster che l’hanno anticipato e letteralmente annunciato, dal successo di Iron Man in poi. La risposta poteva essere la più banale: bastano più star e più soldi. La vera risposta è stata, invece e fortunatamente, la più inaudita. Ed era la risposta giusta. The Avengers in un certo senso rappresenta per la Marvel quello che The Dark Knight fu per la DC: l’idea di investire un enorme capitale non soltanto sul marchio e sulle proprietà, ma su una firma, su un “autore”, su una personalità forte capace di ottimizzare potenzialità meramente industriali e trasformarle in vero cinema. Questa persona è Joss Whedon, uno degli showrunner televisivi più idolatrati, creatore di serie come BuffyFirefly e Dollhouse.

Ed è proprio Whedon a fare la differenza, non solo per via della passione per il fumetto che trasuda da ogni singola idea e per la sua conoscenza approfondita della materia, superiore a quelli che l’hanno preceduto, ma perché comprende fino in fondo che fare un film-fumetto non può e non deve essere più semplice o automatico della media. Tutto il contrario: ogni singola vignetta richiama un’inquadratura curata e sensata, possibilmente creativa; ogni frase pronunciata in un balloon deve essere significativa, ben misurata, possibilmente irresistibile: il lettore può fermarsi, tornare indietro, rileggerla. Whedon costruisce il suo film così: isolando alcune grandi sequenze spettacolari (e lo sono davvero), ma concentrando tutta la sua attenzione sul resto, sulla sceneggiatura e sulla costruzione dei personaggi, anche a costo di chiuderli in una stanza – facendo scontrare le loro personalità ancor prima delle loro armi. Ma quel che conta è soprattutto l’equilibrio: The Avengers per sua natura trasforma l’egomania dei precedenti in coralità, ed era importante, necessario che tutti i protagonisti avessero qualcosa da dire, oltre che da fare. Whedon ci è riuscito in modo eccezionale, sfruttando al meglio chi aveva già dimostrato di funzionare da solo (come Stark e Thor), perfezionando o ridimensionando chi ne aveva bisogno (lo stesso Stark, Captain America), arricchendo moltissimo il Loki di Tom Hiddleston e costruendo da capo un personaggio finora marginale come Black Widow (una strabiliante Scarlett Johansson, che a questo punto merita un film tutto suo) anche se il suo contributo maggiore è quello sul difficile personaggio di Hulk: bastano pochi minuti per capire quanto sia azzeccata la scelta di Mark Ruffalo nel ruolo di Bruce Banner, e sarà il mostro verde al centro dei migliori momenti della seconda parte. Quando si comincia a spaccare, insomma.

Perché ovviamente la cura dei dialghi (quasi sempre ispirati e divertentissimi che si tratti di scambi veloci o di one-liner, e il film ne è stracolmo) e dell’intreccio narrativo non impedisce al film di tuffarsi nel divertimento puro: le sequenze di “combattimento” sono favolosamente congegnate e realizzate nel corso di tutto il film (e spesso riguardano lo scontro tra gli stessi eroi) ma quella conclusiva, lunghissima e annunciata già dai primi trailer, è un apocalittico royal rumble tra i grattacieli che fa impallidire quasi tutte le più scatenate sequenze d’azione che l’hanno preceduta. E fa letteralmente a pezzi la città di New York con un gusto quasi infantile per la distruzione che lascia senza fiato e a bocca aperta. Insomma, non si tratta più di mettere un cervello al servizio dello spettacolo, obiettivo già raggiunto da Favreau e Branagh, ma di trovare un’armonia perfetta tra intelligenza ed evasione, tra meccanica e passione. Whedon era la risposta giusta. E la sua risposta si è trasformata in qualcosa di bellissimo ed esaltante: di gran lunga il miglior film della Marvel prodotto finora, un punto di arrivo con cui i film a venire dovranno presto confrontarsi.

 

Knockout (Haywire), Steven Soderbergh 2011

Knockout – Resa dei conti (Haywire)
di Steven Soderbergh, 2011

L’approccio di Soderbergh al cinema d’azione non potrebbe essere più differente da quello dei registi che abitualmente se ne occupano, tanto che questo contrasto che è alla base di Haywire finisce per essere quasi il suo unico fondamento: un film su Soderbergh che gira un film di arti marziali. Il regista dopotutto si è costruito la fama di firma eclettica anche coltivando l’interesse per i canoni, flirtando con essi e violandoli con le sue ossessioni (con risultati assai altalenanti) e anche qui il procedimento è simile: Haywire segue un canonico percorso vendicativo di un’attraente spia mercenaria costretta a difendersi da un complotto costruito alle sue spalle, ma Soderbergh – che oltre a dirigere si occupa personalmente della fotografia e del montaggio, sotto pseudonimi – lo asciuga completamente rendendolo statico, nonostante non manchino ben coreografate scene di lotta o di inseguimento. Questa sorta di ricercato disequilibrio si ritrova già nella lottatrice Gina Carano, volto noto del mondo delle MMA: straordinaria in azione, ovviamente molto meno a suo agio nelle molte sequenze narrative – che finiscono per risultare agli occhi dello spettatore un riempitivo in attesa del prossimo assalto. Soderbergh probabilmente vuole far dialogare un cinema spionistico più “raffinato” – tappeto sonoro di David Holmes incluso - con il vero “cinema di menare”, ma si fa distrarre dalle sue manie e dalla sovrabbondanza del cast (ancora una volta dopo il riuscitissimo Contagion torna il metodo delle performance isolate; ma in questo caso non giova) e finisce per annoiare. Non mancano comunque le buone idee e le buone invenzioni (per esempio la fuga nel bosco in retromarcia, ma anche tutta la parte con il solito carismatico Michael Fassbender) e la Carano quando ci si mette è una gioia a vedersi, ma Haywire è più una curiosità, un singolare esperimento, che un film davvero compiuto.

Link: la stroncatura di Nanni Cobretti sui 400 Calci.

Diaz – Don’t Clean Up This Blood, Daniele Vicari 2012

Diaz – Don’t Clean Up This Blood
di Daniele Vicari, 2012

L’uscita a così breve distanza di Romanzo di una strage e di Diaz è curiosa e interessante per il modo in cui ci aiuta a osservare e distinguere due approcci radicalmente opposti a una materia sensibile e così delicata: il racconto cinematografico di un noto, bruciante fatto storico. E l’approccio scelto dal film scritto e diretto da Daniele Vicari e prodotto dalla Fandango di Domenico Procacci non potrebbe essere più distante da quello di Giordana e Tozzi, perché scaturisce da un’idea decisiva: che si possa fare un film profondamente politico senza rinunciare al Cinema.

Tutto quanto, in Diaz, discende da questo stimolo primario e ineliminabile, a partire dalla struttura corale che si impadronisce di molte testimonianze trasformandole in veri personaggi di un intreccio dal respiro corale e, ancora di più, dall’intelligente struttura che avvolge (e rinchiude) questi personaggi utilizzando un’immagine solo apparentemente poco significativa (una bottiglia lanciata che si frantuma cadendo a terra) come perno narrativo dell’intera opera. Un “simbolo” che vuole funzionare anche come rottura di una tensione intensa e a tratti insostenibile, montata con un occhio (ma anche entrambi) al cinema di genere, più specificamente all’horror: la costruzione che porta gradualmente verso il blitz è un’alternarsi di casualità e presagi che sembra provenire da un film di zombi – e l’orrore che segue, benché terribilmente reale, non è che una conferma.

Quest’ultimo è un procedimento a cui il pubblico del “cinema italiano impegnato” non è abituato, ed un’idea piuttosto radicale che va ben oltre la rilettura noir del gangsterismo italiano fatta da Placido, e che si sporge verso il pubblico con l’audace sfrontatezza di un pugno nello stomaco e di un calcio nei denti: perché se parte del coraggio di Vicari sta in una sorta di dichiarata autocensura (ci si ferma dove si crede sia giusto, e non gli si può certo dar torto: un autore risponde alle proprie, di esigenze) e nell’idea, probabilmente impopolare, che le colpe vadano redistribuite e che il manicheismo non contribuisca a proteggere gli innocenti, non si può dire che il suo sguardo sia ammorbidito o tenue. Diaz picchia duro e dove fa più male, non solo nell’esplosione della furia tra le mura della Diaz o nell’angoscia della prigionia di Bolzaneto (comunque impressionanti e durissime) quanto nella rappresentazione dell’assurdo che scaturisce dalla banalità, un punto nero che partorisce una voragine.

Ma nonostante la verità impugnata dagli autori non voglia avere solo a che fare con l’esattezza della cronaca, Diaz non si dimentica il contatto con la realtà e sceglie di mescolare in modo minuzioso alla ricostruzione (saggiamente realizzata fuori dall’Italia) alcuni autentici video girati proprio a Genova in quei giorni, chiudendo il cerchio su un’operazione che come poche altre ha saputo mescolare Storia e finzione; perseguendo sempre un obiettivo definitivamente civile ma con i mezzi e le armi che sono quelli del Cinema. Considerando i pochi anni, poco più di 10, passati da quel giorno, e tutti i rischi che ne conseguivano, quello ottenuto da Vicari è un risultato davvero insperato.

Diaz è un film spaventoso, bellissimo e doloroso – e un film necessario: non soltanto, come è più ovvio sostenere, per puntare il dito su una ferita mai rimarginata, ma anche per ricordare che un altro cinema (italiano) è possibile.

Romanzo di una strage, Marco Tullio Giordana 2012

Romanzo di una strage
di Marco Tullio Giordana, 2012

A discutere delle differenze con la Storia e delle inesattezze del Romanzo lascio che ci pensino gli storici, gli esperti, ma non c’è dubbio che in Romanzo di una strage è anche questa confusione tra linguaggi, ciascuno con le sue regole ed esigenze, ad agire come tratto distintivo, e cinematografico. Nonostante le visibili libertà che lo allontanano dai territori della docufiction, termine scomodato abbastanza a sproposito, è evidente che il film nasce da un’esigenza prettamente didattica e per capirlo non c’è bisogno di leggere le interviste agli autori. Il problema più profondo di Romanzo di una strage proviene forse da questa pulsione, quasi pedagogica e tendenzialmente inattuale, che ha contribuito più di ogni altra a trasformarlo in ciò che è diventato nelle mani del trio Giordana, Rulli e Petraglia: un film secco, rigidissimo, mai veramente noioso ma decisamente poco coraggioso, che deve dire un determinato numero di cose e non può dirne altre, finendo per mescolare verità e romanzo, atti giudiziari e licenza poetica, libera reinterpretazione e imitazione pedissequa, in modo fin troppo ordinato e compiuto. Quasi tutto il film sembra muoversi in punta di piedi per non svegliare nessuno, e quando alla fine osa spostare il baricentro dalla cruda relazione all’interpretazione storica, lo fa in modo terribilmente prosaico, per di più all’interno di una cornice onirica che ne annulla l’effetto. Un paragone con La Meglio Gioventù è azzeccato, ma soltanto in contrasto: là ci si appropriava di un contesto storico per raccontare uno straordinario feuiletton televisivo tutto incentrato sui suoi personaggi, qui ci si appropria di due personaggi realmente esistiti (ma rivisitati in libertà, come in fondo è giusto che sia) per esporre un fatto storico, o una possibile lettura di tale fatto. In tal senso Romanzo di una strage ha un grosso merito, quello di aver riportato con innegabile professionalità l’attenzione su una tragedia che sembra lontana secoli ma che ancora fa male; nel farlo Giordana si è però dimenticato in parte di costruirci intorno un film che potesse stare in piedi da solo e soprattutto che potesse risultare avvincente anche per chi, la Storia, se l’è dimenticata oppure non l’ha mai conosciuta. Il cast fa quel che può, ma Favino e Mastandrea sono ingabbiati nell’austerità del progetto, Gifuni fa un Aldo Moro vacuamente identico all’originale (o meglio all’idea più diffusa sul modello), Lo Cascio e Chiatti sono pressoché inutili come gran parte delle molte figure di secondo piano; alla fine i migliori sono il Ventura di Denis Fasolo e il Freda di Giorgio Marchesi – sembrano usciti da un altro film, più aggressivo e squilibrato, più vicino al genere ma non per questo meno “politico”. Da un film del quale qui non c’è traccia.

Biancaneve (Mirror Mirror), Tarsem Singh 2012

Biancaneve (Mirror Mirror)
di Tarsem Singh, 2012

Se c’è una cosa che ti puoi aspettare da un film di Tarsem, è l’inventiva scenografica che ha caratterizzato tutta la sua carriera, prima musicale e pubblicitaria e poi cinematografica. In realtà nel suo quarto film, ispirato alla favola dei Grimm, i cui elementi vengono “rimescolati” più che reinventati, questa impronta è limitata a una sola vera invenzione à la Tarsem, violazione delle leggi della fisica inclusa (lo specchio magico) e sostituita perlopiù dal lavoro dell’art department e della straordinaria costumista giapponese Eiko Ishioka, scomparsa da un paio di mesi e a cui il film è doverosamente dedicato.

La differenza sta tutta lì: come ai barocchismi si sostituiscono scenografie sontuose e abiti spettacolari, così la messa in scena è tutt’altro che fiammeggiante e risulta al contrario priva di vita, sterilizzata da fondali asettici e dall’eccessiva importanza del set rispetto alle istanze di regia. Dopotutto, stiamo parlando di un film asciugato di qualunque autentica inquietudine e unicamente volto a un innocuo anche se – ammettiamolo – gradevolissimo divertimento (al di là del giudizio assoluto, come live action cartoon non fa mezza piega), un film per cui vale la pena di estrarre dallo sgabuzzino l’espressione “per tutta la famiglia”: aspetto indiscutibile che se lo rende potenzialmente appetibile per qualunque fascia d’età, allo stesso tempo ne fa un film straordinario per nessuna di esse.

Mirror Mirror è infatti pieno di idee dall’enorme potenziale che però funzionano per poco, o solo fino a un certo punto: come i sette nani, simpatici ma per nulla memorabili, oppure le diverse meta-riflessioni sul mondo delle fiabe che non vanno molto oltre quanto già detto da Shrek e dai suoi innumerevoli epigoni – anche se tutta la riappropriazione dell’indipendenza eroica di Biancaneve, per quanto sbattuta in faccia al pubblico, è decisamente interessante. Il meglio lo darebbe Julia Roberts, ferocemente brava nel ruolo della stronza (un peccato perdersela in lingua originale), se non fosse che tutta la prima parte del film è troppo concentrata su di lei e sulla mansueta perfidia del suo battutario; molto meglio la seconda, in cui la protagonista diventa Lily Collins – che è una gran bella scoperta: deliziosa e perfetta per il ruolo, non le si chiede granché ma lo fa alla grande.

Nei cinema dal 4 aprile 2012