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La grande coppa del decennale: tutti i vincitori

Eccoci qui: negli ultimi sette giorni avete votato e twittato in abbondanza i vostri registi preferiti dei primi dieci anni di questo blog. Francamente mi avete tolto proprio le parole per i prossimi dieci, quindi facciamo che andiamo subito al sodo.

tarantino

Miglior regista americano

Era la categoria con più nomi, ma la gara era poca: per quantità e qualità dei film del decennale, avrei scommesso sui primi tre (cioè quattro) nomi a occhi chiusi e avrei vinto. Ciò nonostante, Tarantino ha sbaragliato la concorrenza dei fratelli Coen e di Wes Anderson. Il quintetto qui sotto stava per diventare un sestetto: infatti Darren Aronofsky ha perso il suo posto tra i primi cinque per solo due preferenze in meno rispetto a Paul Thomas Anderson. Curiosità: il peggiore in gara è stato Sam Raimi, che non ha raggiunto nemmeno l’1%. Ed ecco la Top 5:

1. Quentin Tarantino – 16%
2. Wes Anderson – 9%
3. Joel & Ethan Coen – 8%
4. Clint Eastwood – 8%
5. Paul Thomas Anderson – 6%

nolan

Miglior regista europeo

La presenza di Christopher Nolan tra i registi europei vi ha gettati un po’ in confusione: come fai a non votare Christopher Nolan? Così, il regista si è preso addirittura un quarto delle preferenze, nonostante diverse sue opere siano, a tutti gli effetti, dei film americani. Pace: i registi con opere anglofone erano comunque avvantaggiati. La gara è stata abbastanza equilibrata, ma è chiaro che film come Drive ed Eternal Sunshine hanno fatto la differenza. E vi ringrazio personalmente per aver mandato Edgar Wright sul podio. Il peggiore in gara, invece, è stato Cristian Mungiu. Ecco i primi 5:

1. Christopher Nolan 25%
2. Nicolas Winding Refn 14%
3. Edgar Wright 13%
4. Michel Gondry 10%
5. Michael Haneke 7%

park

Miglior regista asiatico

Il primo posto più combattuto della coppa è stato quello tra il più popolare regista sudcoreano e il maestro assoluto dell’animazione giapponese, due giganti. Io stesso sarei stato in crisi, ma dai e dai avete deciso di premiare Park contro Miyazaki. Dietro di loro ci sono Kim Ki-duk e Ang Lee, mentre Ahsghar Farhadi fa il sorpassone a destra e infila a sorpresa l’Iran nella Top Five. E chi l’avrebbe detto, dieci anni fa? Il peggiore in gara è stato un altro coreano, Lee Chang-dong, il che mi spinge a invitarvi a recuperare presto i film di Lee Chang-dong. Ecco i primi 5:

1. Park Chan-wook 25%
2. Hayao Miyazaki 23%
3. Kim Ki-duk 16%
4. Ang Lee 11%
5. Ahsghar Farhadi 6%

sorrentino

Miglior regista italiano

Il miglior cinema italiano degli ultimi dieci anni viene spesso identificato con Sorrentino e Garrone, diventati quasi il giano bifronte dei film italiani che vorremmo vedere, di fronte a un panorama piuttosto sconsolante. E invece mi avete sorpreso, portando al secondo posto un altro dei registi beniamini di questo blog, ovvero Paolo Virzì, che batte di sostanza Garrone dopo aver gareggiato a poca distanza per i primi giorni. Nanni Moretti fuori dal podio per tre punti percentuali. Ecco il podio con le percentuali:

1. Paolo Sorrentino 42%
2. Paolo Virzì 19%
3. Matteo Garrone 16%

lars

Miglior regista tralasciato

Qui vi siete veramente sbizzarriti: nel form libero avete indicato un botto di registi. Alcuni erano già stati indicati nelle categorie precedenti, ma nella maggior parte dei casi avete segnalato nomi meritori o interessanti, che fossero eleggibili o meno. Anche qui, nessuna gara: Lars Von Trier, con cui io personalmente non ho un buon rapporto, è stato segnalato circa dal 10% di chi ha deciso di compilare il form, a sua volta circa il 15% dei votanti totali. Ok adesso la smetto di dare i numeri: i nomi finiti sul podio li vedete qui sotto.

1. Lars von Trier
2. Aleksander Sokurov
3. Joe Wright / Sofia Coppola

Tra i tanti registi da voi citati vale la pena nominare Rian Johnson, Wong Kar-wai, Jim Jarmusch, James Cameron, Harmony Korine, Steve McQueen, Guy Ritchie, Fatih Akin, David Lynch, Robert Rodriguez, Gareth Evans, Pietro Marcello, Shinya Tsukamoto, Noah Baumbach, John Lasseter, Derek Cianfrance, Martin McDonaugh, Leos Carax, Danny Boyle, Philip Gröning, Daniele Ciprì, Fernando Meirelles, Andrew Stanton, Stephen Frears, François Ozon, Béla Tarr, Giorgos Lanthimos, Shane Carruth, Emanuele Crialese.

Ne approfitto per scusarmi per le dimenticanze: Stephen Chow, Tetsuya Nakashima, Álex de la Iglesia, e chissà quanti altri.

up

Miglior film d’animazione

Qui la parola d’ordine è stata Pixar. È piuttosto evidente la vostra preferenza: quattro dei primi cinque film sono infatti produzioni Pixar, e non saprei nemmeno come o perché darvi torto. Sorprendente invece la vostra preferenza sulla filmografia di Miyazaki: Howl è terzo, mentre Ponyo è finito ampiamente fuori dai primi cinque. Dai ragazzi, su. Anche qui, mi sono dimenticato due titoli fondamentali, Frozen e Paranorman, ma non credo che avrebbero potuto fare granché contro lo strapotere di due capolavori come Up e WALL-E. Ecco i primi cinque:

1. Up – 20%
2. WALL-E – 18%
3. Il castello errante di Howl – 12%
4. Ratatouille – 10%
5. Toy Story 3 – 8%

Bene, io qui ho finito.

È stato bellissimo. Vi ringrazio uno per uno. Vi mando un cestino di natale immaginario pieno di cuori.

Ciao raga.

(Si allontana in lacrime)

Buffy: The Vampire Slayer, Joss Whedon 1997-2003

Come hai passato lo scorso autunno? Ho guardato Buffy. E basta, più o meno.

Non c’è una vera motivazione, ma non avevo mai visto Buffy. E non ne avevo visto nemmeno un episodio, pur essendo circondato da tanti anni (offline, ma soprattutto online) da persone appassionate o addirittura ossessionate dalla serie creata da Joss Whedon, andata in onda per sette stagioni tra il 1997 e il 2003. In verità, era un’intenzione che coltivavo da anni, ma trovalo tu il tempo di guardare 144 episodi di una serie iniziata sedici e terminata più di dieci anni fa. All’inizio di ottobre ho deciso che sì, forse un po’ di tempo ce l’avevo, ho fatto partire il pilot e niente, non ho più smesso per due mesi e mezzo.

Scrivere un post su Buffy, che a tutti gli effetti è la serie tv sulla quale sono state sono spese più battute nella storia di Internet, sembra una sciocchezza inutile e fuori tempo massimo. Ma come ogni prodotto culturale, Buffy può essere visto da prospettive diverse: se alcune forse tendono a prenderlo un po’ troppo sul serio, altre rischiano di sminuirne la spaventosa influenza sulla televisione futura, l’incredibile impatto emotivo, ma prima di tutto la qualità e il livello di sperimentazione dei suoi episodi e (in alcuni casi) di suoi interi archi narrativi. In Italia, fuori dai contesti più sgamati, Buffy è ancora vista (o ricordata, per meglio dire) come una serie un po’ “cheap” su una ragazzina che va a caccia di demoni e si innamora di un vampiro.

Quindi ho pensato, massì, scriviamo quattro righe su Buffy, che male fa. In fondo, non ho fatto altro per tutto l’autunno. Prendetela come una specie di guida alla consultazione: gli spoiler sono minimi, diciamo nei limiti del ragionevole. Chissà, magari riesco a convincervi.

“You were destined to die! It was written!” “What can I say? I flunked the written.”

Una delle prime cose che ho notato, guardando la prima stagione di Buffy, è quanto non sapessi assolutamente nulla di Buffy. Sulla trama delle sette stagioni conoscevo soltanto qualche dettaglio, quelli filtrati attraverso la conoscenza condivisa – quasi tutti riguardanti il personaggio di Willow. Per il resto: tabula rasa. È sorprendente, considerata la notorietà della serie, quanto io sia stato pressoché impermeabile agli spoiler. Fortuna mia.

La prima stagione, ve lo diranno persino i più fervidi fan di Buffy, è piuttosto dimenticabile. Più precisamente, contiene quasi tutti gli episodi più brutti della serie, quelli che le stagioni successive si sono divertite a citare in continuazione (in particolare “Teacher’s pet”, dove una professoressa è una gigantesca mantide religiosa). Ma c’è un aspetto che la rende fondamentale, lo leggerete un po’ dappertutto: la stagione è utile per inquadrare con precisione quello che Buffy non sarà, ma che avrebbe potuto essere. In ogni caso dura poco, visto che Buffy partì come midseason replacement dal destino incerto: dodici episodi e passa la paura. Non si tratta di tempo buttato: è quanto basta per fare conoscenza con Buffy, Willow, Xander, Cordelia, Giles e ovviamente con Angel, fino a un season finale che, con tutte le sue ingenuità, è già un bell’antipasto di quello che ci aspetta.

“From now on, we’re gonna have a little less ritual, and a little more fun around here.”

La seconda stagione di Buffy inizia con un episodio intitolato “When she was bad”, in cui la nostra eroina mostra nel giro di 40 minuti il peggio del suo carattere, per poi ravverdersi. È un segnale dei tempi a venire: non si può più dare per scontato nulla della natura dei personaggi, anche perché la serie ribalterà puntualmente le aspettative in modo sempre più radicale. Ma il momento più significativo della prima parte della stagione è soprattutto “School hard”, dove debuttano i personaggi di Spike e Drusilla. L’episodio, più dark, violento e disturbante della media (grazie alla magnetica presenza di James Marsters e Juliet Landau), non c’entra nulla con quanto abbiamo visto finora e segna un primo, fondamentale momento di svolta per la serie. Che, a dirla tutta, rimane per parecchie settimane sospesa in un limbo, quasi indecisa su quale delle due direzioni prendere, se quella di episodi più sciocchi come “Reptile Boy” oppure del bellissimo “What’s My Line?”, dove scopriamo per la prima volta che anche i buoni possono tirare tranquillamente le cuoia. A ripensarci, è un momento eccitante, in cui Buffy sembra percorsa da una vibrazione che riguarda il suo futuro artistico.

Per nostra fortuna, Buffy prende proprio la direzione giusta. L’episodio in cui le regole del gioco cambiano per sempre è in realtà un vero e proprio two-parter, composto da “Surprise” e soprattutto “Innocence”, uno dei momenti più centrali e importanti della serie, sia per lo sviluppo narrativo del rapporto tra Buffy e Angel (che rischiava di ficcarsi in un vicolo cieco, e invece deflagra all’improvviso) sia per l’evoluzione del personaggio di Buffy – mettendo in chiaro, da un giorno all’altro, che la serie muterà seguendo di pari passo la crescita della sua eroina. E che l’innocenza, appunto. ce la siamo lasciata alle spalle in una notte di pioggia. Da questo momento in avanti, la stagione e l’intera serie cambiano totalmente rotta: il punto più alto è certamente “Passion”, un episodio tragico e inaspettato dove Whedon mette in scena per la prima volta, con spietata precisione, la sua risaputa crudeltà. E se la seconda stagione viene spesso tralasciata, perché effettivamente ancora un po’ immatura, il suo season finale, che è un altro doppio episodio (“Becoming”, diretto da Whedon come quasi tutti gli episodi migliori) è semplicemente fantastico, e le sue ripercussioni segneranno Buffy e compagnia per molto tempo.

“I think I’ve finally figured it out. What my problem is. It’s Buffy Summers.”

Quando ho finito di vedere Buffy, mi sono subito chiesto quale fosse la stagione migliore. La più bella? Probabilmente la quinta. La mia preferita, quella che riguarderei cento volte? Certamente la terza. Perché è quella in cui Whedon e i suoi autori cominciano veramente a divertirsi. Ripercorrere anche soltanto i titoli di questa stagione è elettrizzante. Al terzo episodio, intitolato “Faith, Hope & Trick”, facciamo conoscenza con un nuovo personaggio irresistibile, che cambia con la sua presenza l’intera stagione, e non solo. Poi, che so, c’è “Homecoming”, quello dello “Slayerfest”. E poi c’è “Band Candy”, in cui tutti gli adulti di Sunnydale (inclusi Giles e la mamma di Buffy) si comportano come ragazzini sotto l’effetto di una magia. E poi c’è “Lovers Walk”, in cui Spike torna e si rivela come un assassino inguaribilmente romantico. E siamo a un terzo della stagione: il meglio deve ancora venire.

Il meglio, appunto, è un episodio che non può mancare in ogni Top 10, ma facciamo pure Top 5: “The Wish”, in cui un incantesimo mostra a Cordelia come sarebbe il mondo se Buffy non fosse mai arrivata a Sunnydale, è un episodio enorme che trasforma le premesse da film di Frank Capra in un’entusiasmante distopia horror. Pur essendo uno standalone (e quindi anche uno dei più gustosi da riguardare al di fuori del flusso narrativo) è anche un episodio-cardine in cui Whedon mette bene in chiaro il ruolo della protagonista nell’universo narrativo ed è quello in cui la serie mostra per la prima volta, o meglio per la prima volta con i motori al massimo, una totale consapevolezza di sé. E poi conosciamo Anya, e non è mica una cosa da poco.

L’aspetto autoriflessivo è al centro di moltissimi episodi della stagione, come il fenomenale “The Zeppo”, che regala a Xander il ruolo di protagonista mentre sullo sfondo si svolge una specie di parodia di episodio di Buffy. Oppure “Doppelgangland”, autentico sequel di “The Wish”, dove Whedon, a posteriori, mostra di avere le idee piuttosto chiare sul futuro della sua serie e dei persoanggi, in particolare Willow. Ma anche “Earshot”, in cui Buffy legge suo malgrado nei pensieri dei suoi concittadini: la terza stagione è tutta così, sceglie di guardare dentro se stessa, con una coscienza e un’intelligenza (e un senso dell’umorismo) che, ai tempi, si trovava in pochissimi prodotti televisivi. La stagione, però, è anche quella del “big bad” di turno: la sua storia si chiude con un season finale divertente, anche se più scontato degli altri, ma questo lungo addio ai corridoi della Sunnydale High è davvero esplosivo.

“Veruca was right about something. The wolf is inside me all the time.”

Proprio come Buffy fa fatica a integrarsi al college dopo la fine delle superiori, questa nuova annata delle sue avventure non è propriamente la più soddisfacente. I problemi della quarta stagione hanno a che fare con la costruzione di un nuovo contesto, dovuto anche all’abbandono di Cordelia e di Angel, diventati protagonisti di uno spinoff, con cui Buffy si incrocerà a più riprese. Se il ruolo della prima viene ricoperto sempre di più da Anya, che si conferma uno dei personaggi più azzeccati della serie, Angel resta per molto tempo il convitato di pietra di Buffy. E la questione amorosa diventa ancora una volta un grosso ostacolo per la sua crescita. Prima con il caso di Parker, il ragazzetti dagli occhi blu che seduce e scarica la Nostra, poi con l’arrivo di Riley, un personaggio che avrà anche i suoi bei momenti ma di cui, presto o tardi, vorremo liberarci, e in fretta.

È facile pensare alla quarta stagione di Buffy come “quella con la Initiative” (un’idea che porta un nuovo tipo di spettacolarità nella serie, forse troppo ambiziosa per i mezzi anche se indubbiamente originale: è comunque il terreno su cui Whedon e un futuro sceneggiatore di Buffy, Drew Goddard, molti anni dopo hanno costruito The Cabin in the Woods), ma a me piace ricordarla soprattutto come la stagione in cui Willow prende confidenza con la propria identità. La signorina Summers resta comunque il personaggio principale della serie e la chiave per comprenderne lo sviluppo, ma il cambio della guardia sentimentale che riguarda la signorina Rosenberg, anche grazie alla strepitosa Alyson Hannigan, è a tutti gli effetti ciò che rende memorabile questa stagione, in particolare nell’arco compreso tra due episodi struggenti, “Wild at heart” e “New moon rising”.

Anche in questa annata, però, non mancano episodi memorabili che continuano il percorso “meta” della precedente. In particolare il divertentissimo “Something blue”, che ancora grazie a un incantesimo trasforma per un episodio il rapporto tra Buffy e Spike, mettendo in scena, di fatto, uno dei più clamorosi casi di fanservice dell’intera serie, oppure “Superstar”. Quest’ultimo è un episodio apparentemente sciocco, ma ha due funzioni necessarie sul lungo periodo: reintrodurre il personaggio di Jonathan e soprattutto mostrare (in modo molto più concreto che in “The wish”) come l’intero universo di Buffy possa essere tranquillamente rimodellato – ed è una delle basi fondamentali della stagione successiva. Non è finita: qui troviamo anche il migliore tra gli episodi di Halloween di Buffy (intitolato “Fear itself”), il più divertente tra quelli dedicati a Giles (“A new man”, in cui il “watcher” si ritrova nel corpo di un demone), così come il peggiore episodio, forse, di tutte le stagioni (“”Where the Wild Things Are”). Ma prima di tutto, troviamo “Hush” e “Restless”.

“Hush” è uno dei due-tre episodi più famosi della serie, è il fiore all’occhiello della quarta stagione, e si merita tutta la sua fama. Ideato da Whedon, pare, come reazione piccata a quelli che sostenevano che la forza di Buffy fosse soltanto nella brillantezza dei dialoghi (e non dico altro), è inquietante, spaventoso e divertentissimo, un vero capolavoro dark con una messa in scena degna di un vero film e due “cattivi” indimenticabili – forse il più straordinario standalone della serie, nonostante Whedon ne approfitti, anche stavolta, per far progredire i rapporti tra i personaggi. “Restless”, invece, è un season finale atipico, totalmente onirico, bizzarro e pieno di presagi: inquadra la qualità più transitoria della stagione, altalenante ma in definitiva indispensabile.

“There’s just a body, and I don’t understand why she just can’t get back in it and not be dead anymore.”

Se la quinta stagione di Buffy è veramente la più bella, non è soltanto per “The Body”. È questa la stagione dove troviamo l’equilibrio perfetto (e insuperato) tra le dinamiche di genere e una maggiore maturità delle storie, quella in cui c’è il grande mistero di Dawn (una delle scelte più ardite di Whedon, uno che non si trattiene certo di fronte alle scelte ardite) e in cui c’è Glory, la nemica più bella e spietata di Buffy. È anche l’anno in cui si alza il tiro, dove troviamo Buffy alle prese con una forza incombente che, per una volta, potrebbe non essere in grado di sconfiggere. È la stagione dei grandi sacrifici e degli amori impossibili, quella di Buffybot e di “Fool for love”, dove scopriamo finalmente tutta la verità (o quasi) sulle origini di Spike.

Certo, “The Body” fa la differenza. È difficile spiegare di cosa si tratti senza rivelarne la natura: gli “spoiler alert” forse hanno una data di scadenza minore di 14 anni (andò in onda nel febbraio 2001), ma sarebbe un peccato dire di più, perché rischierei di smorzarne l’effetto emotivo. Mi sono chiesto più volte che razza di impatto possa aver avuto su chi, in quegli anni, seguiva la serie nel modo in cui è stata concepita, dopo aver raggiunto in quattro anni quel livello di confidenza con i personaggi. Quindi non dico altro. È soltanto una delle più incredibili, devastanti ore di tv a cui assisterete, in assoluto. Hai detto niente.

“Bunnies. Bunnies. It must be bunnies!”

Nelle prime cinque stagioni di Buffy, abbiamo potuto vedere più volte come i personaggio potessero avere diverse facce, come la loro simpatia o il loro eroismo potessero trasformarsi, all’occorrenza, in modo scherzoso o minaccioso, rivelando i lati più oscuri delle loro personalità. La sesta stagione di Buffy è quella in cui tutti (tranne Tara, se vogliamo dirla tutta) danno il peggio di sé, persino un personaggio “candido” come Xander. Tanto che l’intero corso non ha nemmeno bisogno di un canonico “cattivo”, sostituito in apparenza da tre nerd (che abbiamo già conosciuto in precedenza) che non sembrano avere granché di pericoloso. La crudeltà di Whedon, ovviamente, ci fa mordere la lingua per averlo soltanto pensato.

La cupezza dell’intera stagione è introdotta fin dai primi episodi, ed è la diretta conseguenza del bellissimo season finale della precedente (“The Gift”: sarebbe un peccato non citarlo, almeno una volta) e delle scelte fatte in seguito dagli amici di Buffy. La sesta è indubbiamente la stagione più adulta di Buffy, la più funebre e forse anche la più faticosa: le sue qualità sono forse meno immediate che in stagioni come la terza o la quinta, ma ha una capacità maggiore di costruirsi e crescere in funzione del finale: dall’inaspettata e tragica chiusa di “Entropy” in poi, tutti gli spunti sollevati nei 18 episodi precedenti esplodono, portando a un quartetto entusiasmante e terribile – forse il migliore, di certo il più emozionante season finale dell’intera serie.

Eccezione meritevole è il geniale “Once more with feeling”, indubbiamente l’episodio più famoso di Buffy, tanto che forse non ha bisogno di presentazioni nemmeno per chi non ha mai visto un minuto della serie: è quello in cui i personaggi cantano come in un musical, per effetto di un incantesimo. Imitatissimo ma impareggiabile, costruito su un pugno di canzoni favolose (scritte dallo stesso Whedon, che teneva così tanto a questo episodio da “cedere” il ruolo di showrunner per scriverlo e che si sfogherà ancora con il sublime Dr. Horrible) è ancora una volta un episodio tutt’altro che “isolato” rispetto alla trama orizzontale. Ed è l’esempio definitivo di quello che Buffy riusciva a essere se stuzzicato nei punti giusti: complesso, incantevole e perfetto.

“A little tale I like to call: Buffy, Slayer of the Vampyrs.”

Inutile girarci troppo intorno: la settima stagione di Buffy è estenuante. Gran parte degli sforzi sono votati a rimediare i danni fatti durante la stagione precedente (invano, visto che se ne fanno di nuovi), per il resto la staticità e l’accumulo di personaggi secondari (non tutti soddisfacenti), oltre all’intangibilità di un “cattivo” che non ha nemmeno un corpo suo, finisce per farla rivoltare su se stessa in una sorta di auto-omaggio – evidente fin dal primo episodio, in cui il “First” si incarna in tutti i “cattivi” delle stagioni precedenti. Buffy è sempre stata, lo si è detto, una serie estremamente consapevole, sia di se stessa che del suo rapporto con l’esterno: qui la differenza la fa la presenza di Andrew ma che ha proprio questa funzione: conscia (ma diciamo pure troppo conscia) di essere arrivata alle battute finali, Buffy ha scelto di invitare in casa Summers un vero fan della serie, per vedere l’effetto che fa. A tratti è ingombrante, è vero, ma ”Storyteller” è l’episodio più divertente della stagione.

Autoriflessione a parte (inclusa quella di un altro bellissimo episodio, “Conversations with Dead People”) per il resto la settima stagione cerca di conservare il più possibile un tono austero, plumbeo e minaccioso. Non c’è tantissimo tempo per scherzare, e l’assenza di ironia (forse anche per via della maggiore assenza di Whedon, che torna per dirigere il gran finale) non aiuta: ma a patto di sopportare gli interminabili monologhi della protagonista ai danni delle sue malcapitate ospiti (una caratteristica della stagione che, da un certo punto in poi, gli autori stessi cominciano a prendere in giro) quest’ultima grande sfida di Buffy nasconde anche alcuni tra i caratteri più maturi e adulti del suo personaggio. E ancora una volta, nulla è mai scontato.

C’è il tempo, ovviamente, per infilare qualche episodio degno di nota, come “Selfless” in cui finalmente anche Anya ottiene una “origin story” degna del suo personaggio, ma la stagione si gioca tutto con ultimi cinque episodi, da quando (in “Dirty girls”) appare il Caleb di Nathan Fillion fino alle ultime battute di un finale spettacolare: dopo aver arrancato e tossicchiato per una ventina di episodi, Buffy si chiude davvero in grande stile. In fondo, i difetti dell’ultima stagione hanno un lato positivo: forse si è chiusa davvero nel momento giusto? Forse aveva dato tutto quello che poteva dare?

Non lo sapremo mai.

“Yeah, Buffy? What are we gonna do now?”

Per me, una delle cose più divertenti di quest’esperienza è stato condividerne dei frammenti in rete, soprattutto su Twitter, raccogliendo di volta in volta gli stimoli di chi ci era passato prima di me, in un modo o nell’altro. Questo è solo la riga in cui vi ringrazio per avermi fatto compagnia.

E sì, prima o poi mi deciderò a iniziare Angel. Ma quella è tutta un’altra storia.

La grande coppa del decennale

Oggi questo blog compie DIECI ANNI.

In questi dieci anni sono cambiate un sacco di cose: per cominciare non siamo più su Splinder, io non ho più 22 anni ma 32 (ed è decaduto da un pezzo il mio diritto a definirmi “giovane cinefilo”), ma sotto a tutto quello che mi accadeva in questi dieci anni correva un blog che è andato avanti quasi di vita propria e che, a parte i cambi di layout, i traslochi, i litigi, è rimasto più o meno sempre uguale a se stesso. Ne ho anche un altro, ma è partito tutto da qui. Molti affrontano il rapporto con i propri blog con una sorta di cinico distacco, io invece so di poter dire che aprire questo blog è stata una delle decisioni più azzeccate che io abbia fatto, ha contribuito a modo suo a cambiarmi la vita, anche radicalmente, un pezzo per volta. Quindi voglio festeggiare, perché essere arrivato fin qui è una figata e basta. E voglio festeggiare con voi, perché c’eravate pure voi.

Quindi ho pensato a un sondaggino nostalgico per fare il punto di questi dieci anni di cinema e dei registi che hanno cambiato la nostra vita in questo periodo assurdamente lungo. Ovviamente è un gioco e va preso come tale, tanto più che la selezione è basata solo sui miei giudizi e sulle mie visioni e, per semplicità, sulle uscite nelle sale italiane. Se il vostro regista del cuore non è presente, in fondo è presente un piccolo form e potete metterci chi vi pare.

Tra parentesi è indicato un massimo di tre titoli per ogni regista: sono questi i film che lo rendono “eleggibile”. Importante: si possono votare più nomi per categoria, le quantità massime sono indicate sopra.

Adesso tocca a voi. UPDATE: LE VOTAZIONI SONO CHIUSE.

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Condizione: almeno due film usciti in sala in Italia tra il 2004 e il 2013.

Nota: per semplicità, la categoria non contiene solo gli statunitensi, ma l’intero continente americano.

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Condizione: almeno due film usciti in sala in Italia tra il 2004 e il 2013.

Nota: pur avendo una doppia cittadinanza e lavorando perlopiù in co-produzioni anglo-americane, Christopher Nolan è nato in Inghilterra dove ha studiato e cominciato la sua carriera, per questo motivo è inserito in questa categoria.

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Condizione: due film tra il 2004 e il 2013, di cui almeno uno uscito in sala in Italia.

Nota: Bong Joon-ho e Takeshi Kitano non sono inclusi perché, incredibile a dirsi, nessun loro film è stato distribuito in sala in Italia tra il 2004 e il 2013.

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Condizione: almeno due film usciti in sala tra il 2004 e il 2013.

Menzione d’onore per il miglior regista neozelandese:
Peter Jackson (King Kong, Il signore degli anelli: Il ritorno del re)

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Qui puoi scriverci il nome che vuoi.
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Condizioni: il film dev'essere uscito in sala in Italia tra il 2004 e il 2013.

Avete votato? Cliccate sul bottoncino e dichiarate il voto ai vostri amichetti. Non siate timidi!

Per chi se lo fosse chiesto: le locandine in alto sono quelle dei dieci film che ho messo al primo posto nei miei dieci “classificoni” di fine anno.

Il grosso grasso raccoglitore dei post in attesa dell’autunno 2013

Nell’impossibilità di dedicare, come da tradizione decennale del blog, un singolo post per ciascuno dei molti film “in attesa” delle ultime settimane, ho deciso di mettere insieme una serie di titoli che forse necessitano di meno spazio. Non è una questione di qualità: qui ci sono film belli, bellissimi, deludenti, brutti e bruttissimi. Ma ho preferito mantenere il singolo post per cose meno “visibili”, raccogliendo qui undici titoli che sono già stati trattati in lungo e in largo da mezzo mondo, e sui quali c’è davvero poco da aggiungere. Sono approssimativamente in ordine sparso.

Now you see me di Louis Leterrier
La vera dote di questo caper con gli illusionisti, curioso quanto sciocchino, che prende a man bassa dalla tradizione del genere e in assenza di una sceneggiatura decente fa soprattutto leva su un buon gruppo di attori (ciascuno con il suo corredo di tic e faccette), è la coscienza della sua stessa pacchianeria. Leterrier è un regista dalle mani pesantissime, cerca di girare scene roboanti facendo girare i dolly a casaccio, mentre il plot è schiavo della sua (non proprio imprevedibile) sorpresa finale, che chiude un po’ troppo comodamente un intreccio complicato fino all’assurdo. Ma, appunto, Now you see me non si prende mai veramente sul serio (lo mostra lo stinger sui titoli di coda, che quantomeno lascia a bocca buona) e le performance del cast lo rendono godibile, con tutti i limiti del caso. Certo, chi si aspetta The Prestige potrebbe rimanere scottato e non c’è dubbio che, visto il fascino dei talenti in campo (e la produzione di Kurtzman & Orci) Now you see me sia stata un’occasione sprecata.

World War Z di Marc Forster
Mettersi ad analizzare le differenze tra il bellissimo libro di Max Brooks e il film di Marc Foster può portare fuori strada, lo sappiamo bene. Dopotutto, i due testi hanno ben poco in comune, giusto il titolo. Per il resto, World War Z è un film ordinariamente spettacolare, ben realizzato nonostante una lunghissima gestazione che ha fatto levitare il budget in modo impressionante, ma è prima di tutto un’opera vittima di un grande fraintendimento culturale: non si può realizzare un film di zombi che non faccia paura. Non è solo una questione di dettagli cruenti, di sangue o di budella, né tantomeno di zombi che corrono o che vanno lenti: a sparire del tutto è l’angoscia che il genere romeriano si porta dietro da sempre. E l’enorme potenziale di un film di questo tipo, con l’intera umanità messa di fronte alla propria estinzione, pur con l’efficacia di alcune scene di massa, viene trasformata in un film in cui un cinquantenne belloccio si sposta da una location all’altra e gli succedono delle cose, fino alla più scontata delle conclusioni.

In Trance (Trance) di Danny Boyle
Danny Boyle dalle nostre parti è un regista molto maltrattato, spesso a mio avviso ingiustamente, ma stavolta se l’è proprio cercata: In Trance è uno dei più brutti film usciti quest’anno, un thriller psicanalitico presuntuoso e totalmente implausibile, diretto con un abuso di stile sotto al quale si trova il nulla assoluto, con due star (James McAvoy e Vincent Cassel) che fanno a gara a chi recita peggio e un soggetto che vuole apparire scaltro accatastando un colpo di scena sopra l’altro e dando l’impressione di prendere lo spettatore per cretino. Terribile.

Monsters University di Dan Scanlon
Ricordiamo tutti perfettamente il momento in cui ci siamo resi conto che la Pixar non era infallibile: l’uscita di Cars 2 nel 2011. Ora che abbiamo avuto il tempo di metterci il cuore in pace, possiamo affrontare con più serenità l’idea di un sequel, anzi un prequel, di un altro dei loro capolavori. La buona notizia è che Monsters University è un film veramente divertente, dove lo staff della Pixar si può veramente sbizzarrire (in un mondo popolato di mostri, le possibilità sono infinite) sfruttando i passi da gigante fatti dalla tecnologia in una dozzina d’anni. Quella cattiva è che, al di là delle innumerevoli trovate della sceneggiatura, il film non riserva alcuna vera sorpresa, è gentile e innocuo, e non aiuta il fatto che, di questa avventura, conosciamo a menadito il seguito.

Facciamola finita (This is the end) di Evan Goldberg e Seth Rogen
Originato da un cortometraggio di parecchi anni fa in cui Seth Rogen e Jay Baruchel (amici di vecchia data anche nella vita reale) sono sopravvissuti alla fine del mondo, il film diretto dallo stesso Rogen con il sodale Goldberg è una delle più originali varianti dell’ossessione apocalittica che ha investito la cultura pop negli ultimi anni. Gli attori del cast, quasi tutti appartenenti alla cosiddetta “Apatow Mafia”, interpretano loro stessi – o meglio, si sono inventati una versione di loro stessi che si mescola con la percezione degli spettatori, attivando un corto circuito inaudito tra finzione e realtà. Il talento del cast per l’improvvisazione e la bravura di Goldberg e Rogen come dialoghisti ne fanno uno dei film più citabili dell’anno, e senza dubbio uno dei più divertenti: il meglio lo danno Jonah Hill e Danny McBride (e Michael Cera), la sequenza del massacro iniziale è una carneficina esilarante e liberatoria.

La vita di Adele di Abdellatif Kechiche
È uno dei film che più ha fatto discutere quest’anno, quasi solo per le ragioni sbagliate: racconto sensuale, tenero, doloroso di un amore che inizia con uno sguardo rubato e termina tra le lacrime e il muco, La vita di Adele racconta la banalità del quotidiano con il vigore di un poema epico. Con l’intransigenza degli autori sperimentali e un’intensità a tratti insostenibile, Kechiche sceglie un approccio ossessivo mascherato da naturalismo, sotto al quale c’è l’intenzione di essere disposti a tutto pur di trovare un lampo di verità nelle storie dei suoi personaggi, nella scoperta della propria sessualità e in quella della propria fragilità. Gira tutto a due spanne dal cuore, con lo schermo riempito dai volti enormi come pianeti. Prende tempo, va a cercare le risposte non solo nei momenti di svolta ma anche nei dettagli apparentemente marginali. È l’unico modo per raccontare tutto, non lasciare indietro niente: la delicatezza e il tormento, la gelosia e la furia, la passione e il dolore. Con questo meraviglioso, imperfetto, strabordante film, modellato sull’abbagliante Adèle Exarchopoulos, Kechiche ha trasformato l’impianto di un dramma sentimentale in un’esperienza cinematografica radicale e irripetibile.

Thor: The Dark World di Alan Taylor
Nell’ormai popolatissimo panorama del Marvel Cinematic Universe, il Thor di Kenneth Branagh è stata una delle più belle sorprese: era riuscito a evitare i rischi di un’invasione del fantastico nel mondo tecnologico di Tony Stark con romanticismo, umorismo, e Natalie Portman. Questo sequel, non avendo una vera ragione d’essere (se non quella di rimettere insieme Thor e Jane Foster) cerca in tutti i modi di non buttare tutto quanto alle ortiche trasferendo buona parte dell’azione dalla Terra allo sgargiante fantasy del regno di Asgard. Se ci riesce, lo deve soprattutto al Loki di Tom Hiddleston, che distribuisce pacchi di carisma rubando la scena a tutti – ma facendo, in realtà, più danni al film che altro: di lui, quando non c’è, si sente troppo la mancanza. Per il resto a The dark world manca una messa a fuoco che non sia l’autoironia (a dire il vero, l’elemento più funzionale del film), l’intreccio è poco stimolante (quando si riesce a interpretare un passaggio qualunque del bla bla dei dialoghi) per non parlare del cattivo (sono dovuto andare su Google per ricordarmi il suo nome) ma almeno l’ormai imperativo scontro finale riesce a inventarsi un artificio creativo per rendere meno noiosi i soliti interminabili minuti di botte.

Blue Jasmine di Woody Allen
Dopo la disastrosa debacle di To Rome with love, erano in molti a scommettere sulla fine artistica di Woody Allen. Succede ogni volta, e magari non sarà nemmeno l’ultima. Per fortuna è andata diversamente. E non pago di tornare a dirigere un bellissimo film, Allen ha stupito tutti tirando fuori la sua anima più nera: nonostante sia di fatto una commedia, dall’umorismo acuto e sprezzante indirizzato alla divisione tra le classi (con un’attenzione particolare per l’ipocrisia della borghesia arricchita sulle disgrazie altrui), Blue Jasmine è anche uno dei titoli più cupi della sua intera filmografia. Con l’aiuto di un’incredibile Cate Blanchett, di un ottimo cast di contorno e di una sceneggiatura assolutamente perfetta che utilizza in modo ingegnoso i meccanismi del flashback (in fondo la crisi di Jasmine ha anche a che fare con una trasgressione violenta della linearità del tempo), Allen racconta in modo asciutto e spietato la storia di un devastante decadimento psicologico, svelandone gradualmente le cause, e lasciando al pubblico le conclusioni in un finale di profondissima amarezza, aperto ma tutt’altro che incompiuto. La dimostrazione che Woody è ancora vivo e che i suoi artigli sono affilatissimi.

Hansel & Gretel – Cacciatori di streghe di Tommy Wirkola
Nella sua Norvegia, Tommy Wirkola si era fatto notare per la capacità di giocare con il grottesco, prima in Kill Buljo (un demenziale omaggio a Tarantino) e poi in Dead snow, dove il regista mostrava anche di avere un buon talento per l’horror. Nel suo esordio americano, patrocinato da Will Ferrell e Adam McKay, non si trova purtroppo granché di quella artigianale singolarità e Hansel & Gretel finisce per essere l’ennesima stanca variazione moderna sul tema delle fiabe in cui gli unici motivi di interesse sono la fenomenale presenza scenica di Gemma Arterton e farsi lanciare addosso della roba in 3D.

Prisoners di Denis Villeneuve
Dopo aver diretto il clamoroso La donna che canta, il regista canadese si sposta nei vicini Stati Uniti per raccontare la storia di un rapimento. Costruito su un tema classico del thriller americano, rispetto alla norma Prisoners è un film che accetta molti meno compromessi, da un punto di vista morale ma anche produttivo – ne è indice la durata, che supera le due ore e mezza. Il suo più grande limite risiede proprio in questa scelta, visto che tutta la tensione accumulata nelle prime due ore di film viene mozzata da una sgraziata parte finale, capace di banalizzare il complesso percorso morale dei personaggi, in particolare lo scontro tra Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal. Tutto ciò che viene prima, comunque, non viene totalmente invalidato: Prisoners resta un film di grande atmosfera, anche grazie alla mano riconoscibilissima di Roger Deakins, uno dei pochi direttori della fotografia capaci di strapparti il cuore dal petto con un carrello in avanti. Se il film ha tanti difetti, alcuni difficili da perdonare, il suo è un lavoro davvero magistrale.

Lo Hobbit – La desolazione di Smaug di Peter Jackson
La sontuosa trilogia che Peter Jackson ha tratto dal breve libro di Tolkien reinventandolo e trasformandolo in un autentico prequel del Signore degli Anelli supera l’ostacolo del capitolo centrale con le ossa meno rotte rispetto al precedente. La desolazione di Smaug perde meno tempo a inseguire la propria coda, ha personaggi più interessanti (anche se molti “in prestito” dai film precedenti e incollati seguendo un progetto francamente difficile da digerire) e un paio di sequenze davvero spettacolari – quella con i ragni giganti, dove rivediamo finalmente Jackson alle prese con l’horror, e il virtuosistico inseguimento nelle botti – ma non riesce a eliminare la sensazione di minestra allungata senza un vero motivo che non sia l’abitudine dei fan assuefatti alla trilogia dell’Anello. È un film migliore del primo, senza dubbio, ma non è abbastanza.

duemilatredici: i miei dischi dell’anno

Questi sarebbero tipo i miei album stranieri del duemilatredici:

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1. Chvrches 2. Waxahatchee 3. Laura Marling 4. Beyoncé 5. Haim 6. Daft Punk 7. Vampire Weekend 
8. Arcade Fire 9. John Grant 10. Torres 11. Arctic Monkeys 12. Caitlin Rose 13. Goldfrapp 14. Tegan and Sara
15. Janelle Monàe 16. Frightened Rabbit 17. David Bowie 18. Justin Timberlake 19. Lorde 20. James Blake 21. AlunaGeorge
22. The National 23. Charli XCX 24. Nick Cave 25. Kanye West 26. Veronica Falls 27. Miley Cyrus 28. MS MR

E questi sarebbero tipo i miei album italiani del duemilatredici:

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1. Baustelle 2. Amari 3. Paletti 4. I Cani 5. Perturbazione 6. Cosmo 7. Fitness Forever
8. Elio e le Storie Tese 9. Baby K 10. Lava Lava Love 11. Elisa 12. Andrea Nardinocchi 13. Erica Mou 14. Viola 

 

R.I.P. Roger Ebert (1942 – 2013)

Ebert

“So on this day of reflection I say again, thank you for going on this journey with me. I’ll see you at the movies.” (Roger Ebert, 1942-2013)

duemiladodici: i miei 20 album dell’anno

  1. Frank Ocean – Channel Orange
  2. Jessie Ware – Devotion
  3. Chairlift – Something
  4. Lianne La Havas – Is your love big enough?
  5. Regina Spektor – What we saw from the cheap seats
  6. Maria Antonietta – s/t
  7. Ellie Goulding – Halcyon
  8. Colapesce – Un meraviglioso declino
  9. Marina & the diamonds – Electra heart
  10. Heike has the giggles – Crowd surfing
  11. Sharon Van Etten – Tramp
  12. Grizzly Bear – Shields
  13. First Aid Kit – The lion’s roar
  14. Cat Power – Sun
  15. The XX – Coexist
  16. La Sera - Sees the light
  17. Lana Del Rey – Born to die
  18. Rihanna – Unapologetic
  19. Miguel – Kaleidoscope dream
  20. Bat For Lashes – The haunted man

R.I.P. Tony Scott (1944-2012)

Tony Scott si è tolto la vita ieri a Los Angeles. Aveva 68 anni.

R.I.P. Chris Marker (1921 – 2012)

È morto il regista francese Chris Marker, poco dopo aver compiuto 91 anni.

Il suo film più noto è il mediometraggio La Jetée: un assoluto capolavoro.

R.I.P. Ernest Borgnine (1917-2012)

Ernest Borgnine è morto ieri a Los Angeles, aveva 95 anni.

Nel video: il segmento del film 11 settembre 2001 diretto da Sean Penn.

R.I.P. Nora Ephron (1941-2012)

La sceneggiatrice e regista Nora Ephron è morta a New York all’età di 71 anni.

The Woman in Black, James Watkins 2012

The Woman in Black
di James Watkins, 2012

Un horror inglese prodotto dalla Hammer, una volta abituatisi alla melodia della frase, sembra davvero un caso di condizioni produttive che influenzano artisticamente un’opera. Dopotutto, per sua stessa natura il film di James Watkins, alla sua seconda prova come regista dopo Eden Lake, sembra presentarsi come erede ufficiale di una lunga tradizione, quella di uno dei marchi per eccellenza del cinema di genere. Un horror d’altri tempi, insomma, volutamente desueto e “analogico”, in cui il montaggio sonoro e il make-up, le silhouette e la nebbia sono ben più funzionali degli effetti speciali odierni per provocare emozioni e spaventi. Il film non fa nulla per allontanare questa impressione: tratto da un libro di Susan Hill di una trentina d’anni fa e ambientato nella provincia inglese all’inizio del secolo scorso, è un ricettario, compiuto e piuttosto godibile, della ghost-story britannica che trae il massimo vantaggio da una sceneggiatura (di Jane Goldman, collaboratrice di Matthew Vaughn fin da Stardust) semplice e anch’essa volutamente inattuale e da una fotografia (di Tim Maurice-Jones, ex sodale di Guy Ritchie) che utilizza in modo intelligente la peculiare ambientazione storica e geografica. Curiosamente, il film non ha il suo culmine nella parte finale ma in una tesa e lunghissima sequenza centrale (quella in cui Arthur passa la notte nella casa stregata), perfetta antologia di trucchi e stilemi del genere, dalle apparizioni improvvise ai classici minacciosi scricchiolii. Verso la fine il film finisce per prendersi un po’ troppo sul serio, rinuncia a un po’ della sua gradevolissima obsolescenza (talvolta sembra persino strizzare l’occhio al j-horror) e chiude in modo poco convincente; ma rimane un suggestivo esercizio di stile, che peraltro permette al bravo Daniel Radcliffe il primo passo di una – probabilmente ardua – fuga dalla maledizione del typecasting.

Quella casa nel bosco (The Cabin in the Woods), Drew Goddard, 2011

Quella casa nel bosco (The Cabin in the Woods)
di  Drew Goddard, 2011

Chi si diletta scrivendo di film, e talvolta anche chi ci si guadagna da vivere, viene messo periodicamente di fronte a un piccolo dilemma: quanto raccontare della trama? In che modo? Con quale precisione? Dove finisce una premessa narrativa e inizia uno “spoiler”? E soprattutto: ha davvero senso? La risposta, come spesso accade con questi argomenti, suona più o meno: dipende. Proprio per questo, scrivere di Quella casa nel bosco è un’impresa davvero atipica. Non tanto perché Drew Goddard o il produttore e co-sceneggiatore Joss Whedon abbiano chiesto a tutti e a più riprese di non raccontare nulla, ma perché il film si configura in modo tale per cui sarebbe davvero un peccato non accontentarli.

Ci sono indubbiamente modalità, anche online, entro le quali si può dare per scontata la visione del film e discutere fino in fondo delle sue implicazioni; non credo però che questo post sia il luogo adatto. Per quanto mi riguarda, il modo migliore di parlarne sarà quindi di parlarne il meno possibile, consigliandolo ad amici che potrebbero essere in grado di apprezzarlo – voi tutti inclusi, va da sé – limitandomi a spiegare loro che Quella casa nel bosco è tutt’altro e molto più che un horror su una casa in un bosco.

Nel frattempo, a vostro rischio e pericolo, un elenco di cose che forse si possono dire:

  • Goddard e Whedon sono riusciti a trovare un equilibrio straordinario tra riflessione sul genere e la messa in scena del genere stesso. The Cabin in the Woods funziona insomma benissimo sia come film fantastico che come esercizio metanarrativo, e non sacrifica mai fino in fondo il puro divertimento per il gioco intellettuale o lo sberleffo.
  • la brillante sceneggiatura è il punto di forza assoluto del film, non soltanto per il modo in cui è strutturata, ma per la ricchezza di dialoghi acuti e spesso esilaranti, per come centellina i dettagli di ogni situazione fino a rivelarla in tutta la sua natura, per la naturalezza con cui riesce a manovrare registri diametralmente opposti.
  • nonostante il budget relativamente ridotto (circa 12 milioni) la confezione è curatissima; la fotografia è a cura di Peter Deming, quello di Mulholland Drive.
  • il motivo per cui è meglio che non sappiate niente non ha veramente a che fare con veri twist narrativi, con i più classici “colpi di scena”, come spesso accade nei film che vi chiedono di non essere raccontati. In verità, saprete di cosa si tratta entro pochi minuti. A quel punto non vi resterà che godervi lo spettacolo.
  • è un film più intelligente e divertente che realmente spaventoso: non abbiate timore.
  • per gli amanti di cinema horror invece si tratta di un passaggio obbligato: al di là delle conclusioni in sé a cui giunge attraverso lo sviluppo della trama, il film è realizzato pensando a loro, con un gusto per il dettaglio e per la citazione che obbligherà a ripetere la visione più e più volte. Lo faremo ben volentieri.
  • Quella casa nel bosco è uno spasso tale che, se anche io volessi prendermi il lusso di dirvi il perché e il percome, non saprei davvero dove cominciare.

Dark Shadows, Tim Burton 2012

Dark Shadows
di Tim Burton, 2012

Da qualche anno a questa parte, quando si parla di Tim Burton è bene specificare da quale parte della barricata ci si trovi. L’orribile Alice in Wonderland da una parte e il meraviglioso Big Fish dall’altra sono forse gli unici due suoi film degli ultimi 15 anni a mettere d’accordo quasi tutti: per il resto, molti suoi fan nel corso del tempo si sono allontanati a causa di alcuni titoli che avrebbero “tradito” il cuore più amato della sua filmografia, diventando ripetitivi, meccanici e fasulli. Giusto per capirci, io me ne resto dall’altra parte della barricata: per esempio, considero Sweeney Todd un grande musical sanguinario penalizzato forse da musiche poco più che mediocri, La Sposa Cadavere era il mio “numero tre” tra i film usciti nel 2005, La Fabbrica di Cioccolato e Planet of the Apes sono due film riusciti solo a metà ma troppo spesso ingiustamente maltrattati. Difendere Tim Burton però non è un’impresa semplice, richiede dedizione e pazienza, anche perché il regista americano non fa nulla per distanziarsi dalle manie che gli vengono attribuite.

Mi piace immaginare, anche se sono già del tutto certo che non accadrà, che Dark Shadows possa tornare a riportare la pace tra difensori e detrattori. Tratto da una “soap con vampiri” degli anni settanta, un curioso oggetto vintage quasi del tutto dimenticato e riesumato con un affetto privo di eccessiva riverenza, il film è infatti davvero un gran divertimento. Al di là di una gestione dei registri forse un po’ pasticciata – ma quantomeno trascinata da una vivacità che Burton sembrava aver perduto – sa giocare con i cliché del period movie e con quelli dello stesso gotico burtoniano, mescolando in modo inusuale i consueti omaggi cinefili agil stilemi della soap opera televisiva. Lo sceneggiatore Seth Grahame-Smith, diventato una penna richiestissima dopo il caso di Pride and Prejudice and Zombies, non si preoccupa troppo di nascondere le metafore agli occhi del pubblico e preferisce sfoggiare una repertorio comico da time travel che sfrutta ogni variante della sua premessa (l’uomo settecentesco alle prese con le bizzarrie degli anni settanta) e porta con sé dalla sua esperienza letteraria una straordinaria dote – quella di non prendersi mai del tutto sul serio, anche al momento della resa dei conti. Una dote di cui, dopo il ridicolo involontario di Alice, si sentiva il bisogno come dell’aria.

Dal canto suo, il ricchissimo cast riesce a compiere l’impresa più ardua che gli veniva richiesta, ovvero quella di arginare l’ingombrante presenza di Johnny Depp. Se l’attore è certamente ancora popolarissimo ed è la “star” attraverso cui il film viene venduto al pubblico in tutto il mondo, non c’è dubbio che nel tempo sia diventato il maggior argomento d’attacco nei confronti dei film più recenti di Burton. E non sempre a torto. Risaputo make-up a parte, Depp fa il suo lavoro con classe e abnegazione, ma in Dark Shadows c’è ben altro: Michelle Pfeiffer, che comprende meglio di tutti gli altri come funziona il linguaggio di una soap, e recita di conseguenza; Helena Bonham Carter, che prima di essere la musa del regista è un’attrice con una mimica strepitosa e un invidiabile intuito comico; Chloe Moretz, che si impegna un po’ troppo ma all’occorrenza sa riscattarsi; la graziosa Bella Heathcote, che con quella faccia non poteva che finire nei panni dell’eroina emaciata in un film di Tim Burton. Ma soprattutto c’è Eva Green: grazie a lei la biondissima e demoniaca Angelique Bouchard è il personaggio più riuscito del film e tra i più memorabili della filmografia burtoniana, ruba la scena a tutti ogni secondo in cui è in campo con una bellezza abbagliante e un sorriso perfido e malefico. Un amore a seconda vista.

Tra gli aspetti che colpiscono di più in Dark Shadows c’è però sicuramente la magnificenza visiva, che ne fa uno dei film di Burton più “belli a vedersi”: il direttore della fotografia Bruno Delbonnel ha alle spalle un curriculum davvero notevole (da Amelie al Principe Mezzosangue fino al Faust di Sokurov) e qui conferma la sua enorme bravura e la sua elasticità assecondando le visioni del regista (per dirne una, il fantasma di Josette arriva dritto dalla Sposa Cadavere) non limitandosi a riempire il film di carrelli e dolly virtuosistici ma facendo respirare un senso di cura quasi ossessiva per ogni singola inquadratura, dalla saturazione dei colori alla posizione dei corpi e degli oggetti nello spazio, che lascia spesso ipnotizzati – e che richiede di essere goduta sul grande schermo. Splendente superficie senza alcuna profondità? Non proprio. Si potrà obiettare che Dark Shadows è più che altro un gioco, a tratti volutamente sciocco, che a volte sacrifica il pathos per una (buona) risata: ma è anche un film in cui Burton recupera una spontaneità, un equilibrio nella gestione tecnico-artistica e un senso dell’umorismo che non gli riconoscevamo da tempo, nonostante l’impegno preso per difendere la sua buona fede. La barricata resta alta, vedrete, ma stavolta non avrebbe nemmeno bisogno del nostro aiuto.

21 Jump Street, Phil Lord & Chris Miller 2012

21 Jump Street
di Phil Lord & Chris Miller, 2012

“Teenage the fuck up!”

Negli ultimi anni, molti film hanno cercato di riportare sullo schermo la migliore tradizione dei buddy movie polizieschi. Il tentativo è sempre più o meno lo stesso: fare una commedia che non sia una parodia ma dove funzioni anche il lato puramente action. I risultati sono alterni: ha fallito Kevin Smith con il suo Cop Out, è andata decisamente meglio ad Adam McKay e Will Ferrell in The Other Guys. Ma se Hot Fuzz di Edgar Wright rimane un modello insuperato da imitare, 21 Jump Street è forse il film che si avvicina di più al suo equilibratissimo miscuglio di omaggio affettuoso e divertimento puro.

Chi avrebbe mai scommesso su un film come 21 Jump Street? Un lungometraggio tratto da una serie tv conclusa più di vent’anni fa e che solitamente viene ricordata per aver lanciato Johnny Depp? Peraltro un film comedy tratto da una serie drama? E tutto ciò dopo il disastro (artistico, si intende) dello Starsky & Hutch di Todd Phillips? Per fortuna a scrivere il film c’è Michael Bacall, che viene – guarda il caso – da Scott Pilgrim di Wright, e per fortuna a dirigere ci sono Phil Lord e Chris Miller, ex ragazzi-prodigio della tv, responsabili del sorprendente film d’animato Piovono Polpette. Insomma, poteva essere l’ennesima sciocchezza ridanciana prodotta in un clima di zero creatività in cui finisce a scavare nei fondi di magazzino della cultura televisiva americana (vedi alla voce Land of the Lost); invece, a sorpresa, 21 Jump Street è uno dei film più esilaranti della stagione.

In parte anche perché è completamente consapevole del tipo di operazione che rappresenta, lo fa presente fin dalle primissime battute, e se non perde l’occasione per sottolineare ogni cliché (un esempio per tutti, il capitano della squadra degli infiltrati che si presenta dicendo “I know what you’re all thinking: Angry Black Captain!”) non li ridicolizza mai fino in fondo ma in qualche modo li abbraccia, come si fa con un vecchio amico a cui si vuole bene nonostante tutto. L’arrivo dei due poliziotti infiltrati nella high school è poi l’occasione per ribaltare in modo geniale gli stereotipi del liceo americano: leggere fumetti è diventato popolare, essere un jock manesco ti condanna all’emarginazione sociale. Cos’è successo nel frattempo? ”Fuck you, Glee!” risponde Channing Tatum.

Uno dei meriti maggiori di 21 Jump Street è stato proprio intuire, portare alla luce e sfruttare fino in fondo il potenziale comico di “COLLO” Tatum, tutt’altro che mera spalla dell’ormai navigato e qui dimagritissimo Jonah Hill: i due formano una coppia comica perfetta e capace di autentiche meraviglie – con il supporto di un ricco cast di contorno tra cui spiccano Dave Franco, Ice Cube, Ellie Kemper, Rob Riggle e l’adorabile Brie Larson. Bacall e il duo di registi ci mettono tutto il resto: da una parte una lista interminabile di dialoghi incredibilmente spassosi e immediatamente citabili (“stop fuckin’ with Korean Jesus! He’s busy with korean shit!”), dall’altra una cura superiore alla media delle sequenze più movimentate (che siano inseguimenti, sparatorie o viaggi lisergici sotto effetto di droghe sintetiche) che a tratti  ricordano proprio il mondo cartoonesco dentro cui Lord & Miller si sono fatti le ossa.

Una gran bella sorpresa.

Scialla!, Francesco Bruni 2011

Scialla!
di Francesco Bruni, 2011

In un’annata non troppo entusiasmante per il cinema italiano, Scialla! ha saputo difendersi piuttosto bene, a partire dalla vittoria (scontata) di Controcampo Italiano a Venezia, col favore di molta critica, a quella del David come miglior regista esordiente. In verità, come sappiamo bene, Bruni è tutt’altro che un “esordiente”: ha scritto tutti i film del suo amico Paolo Virzì, quasi tutti quelli di Mimmo Calopresti. Scialla!, uscito giusto in tempo per il suo cinquantesimo compleanno, è la sua opera prima dietro la macchina da presa, ma vent’anni di lavoro non si cancellano in un soffio: per questo motivo, ben più della messa in scena (anche se la fotografia del veterano Arnaldo Catinari ha qualche buona intuizione, soprattutto intorno al personaggio di Luca) al centro del film c’è il soggetto, in cui un ex professore disilluso e sciatto scopre la vera identità del ragazzetto a cui dà ripetizioni di lettere. Qualche volta la sceneggiatura scopre troppo le carte, rivelando uno scheletro narrativo rigidissimo, ma alcuni dialoghi hanno un’invidiabile freschezza – anche grazie all’ottima intesa tra il giovane Filippo Scicchitano e Fabrizio Bentivoglio, che sfoggia un accento veneto forzato ma stranamente sensato – ed è vincente a modo suo la scelta di Bruni di mantenere per tutta la durata del film un registro così lieve, pressoché inoffensivo, da qualunque punto di vista lo si guardi. Così, persino gli ostacoli più violenti finiscono per risultare tutt’altro che minacciosi: dalla sua, il gangster colto cinefilo è una buona vecchia idea, giusto a un passo dalla macchietta (ma Vinicio Marchioni se la cava, e c’è pure spazio per una in-joke su Romanzo Criminale), peccato che poi finisca per diventare il deus ex machina di turno. Scialla! è un film che, se non graffia né va in profondità, almeno lo fa per sua stessa scelta: la sua preoccupazione è quella di raccontare una storia semplice e sensibile, priva di sensazionalismi e di rischi, con un umorismo quieto e abbastanza insolito per la commedia italiana. Nonostante tutto, ci riesce abbastanza bene. In fondo è un’opera prima. Il ragazzo si farà.

Chronicle, Josh Trank 2012

Chronicle
di Josh Trank, 2012

Negli ultimi anni, si è diffusa in modo capillare, soprattutto nel cinema fantastico e nel cinema horror, la moda del cosiddetto found footage; un artificio tecnico e narrativo al tempo stesso attraverso il quale si possono anche compensare, magari in modo autoriflessivo, le proprie ristrettezze di budget. Sono però pochi (e quasi tutti usciti anni fa, per esempio Cloverfield, Redacted, Rec) i film che hanno saputo utilizzarlo in modo intelligente, sensato. Chronicle in tal senso rappresenta una svolta quasi epocale.

In una nuvolosa e suggestiva Seattle ricreata tra Vancouver e Cape Town, tre studenti delle superiori (tra cui uno solitario ed emarginato, con una tragica situazione famigliare e una fresca ossessione per la sua telecamera) scoprono per caso in un bosco fuori città una profonda cavità, il cui misterioso contenuto dona loro straordinari poteri telecinetici – e non solo, come vedremo in seguito. Chronicle è di fatto costruito come una origin story, ma quella che dalla distanza potrebbe sembrare l’ennesima variazione del tema super-eroico declinato nel mondo delle high school americane diventa nel suo implacabile e cupissimo sviluppo uno dei più originali e trascinanti romanzi di formazione degli ultimi tempi.

La sceneggiatura brillante e colta, solidissima anche se non sempre sottile, del 25enne figlio d’arte Max Landis accorpa noti contrasti sociali dell’immaginario high school, riferimenti geek, implicazioni filosofiche, ma partendo di base da una domanda ben chiara, che suona all’incirca: cosa succederebbe davvero se un adolescente ottenesse dei superpoteri? Tutti spunti che l’esordiente Josh Trank sfrutta con dedizione e passione, ma anche con innegabile fiuto; perché tra i grandi punti di forza, al di là dello stratagemma filmico in sé, è infatti l’uso che ne viene fatto e la sua centralità nel racconto. Dopotutto il film si chiama Chronicle e si apre sulla decisione di Andrew di “filmare tutto”: non si tratta di un pretesto ma di un concetto saldato alla psicologia dei personaggi, e quella della telecinesi come direzione della fotografia è un’idea autenticamente geniale che contribuisce a cambiare le regole del gioco dall’interno.

Ma al di là delle considerazioni necessarie sull’intelligenza, sulla scaltrezza e sulle implicazioni metanarrative di un film come Chronicle, da un certo punto in poi il talento artistico in campo e il gusto per lo spettacolo puro prendono totalmente il sopravvento. E fanno terra bruciata. Grazie alla bravura (ma anche al casting perfetto) degli semisconosciuti attori principali e a uno spirito strenuamente apocalittico, la seconda metà di Chronicle mette gradualmente da parte il tono più ironico e scanzonato dei dialoghi di Landis e si lancia in un crescendo drammatico, esplosivo, irresistibile che a molti ha ricordato quello di Akira e in cui la moltiplicazione degli strumenti di ripresa non fa che amplificare le notevoli ambizioni di tragica grandezza del film.

Chronicle fa molto di più che “spendere poco e guadagnare molto” (costato 12 milioni, ne ha già incassati più di 60 in Nord America e il doppio in totale) né si limita a percorrere strade già percorse dai suoi predecessori. Al contrario: ci riporta alla centralità delle idee, della bravura, della cura del racconto, dei personaggi. E ci lascia senza fiato in gola.

Nei cinema dal 9 maggio 2012

Hunger Games, Gary Ross 2012

Hunger Games (The Hunger Games)
di Gary Ross, 2012

Aver letto il libro da cui è stato tratto un film non è affatto necessario per giudicare o comprendere quest’ultimo; anzi, spesso può portare fuori strada. Ma in alcuni casi può essere utile per inquadrarlo, quantomeno per avere un punto da cui partire, soprattutto se si parla di un imponente successo letterario come quello del libro di Suzanne Collins, che io stesso mi sono sorpreso a divorare in poco tempo. Pur trascinandosi dietro l’etichetta “young adult”, è un libro fluido e lucido, immaginifico e incalzante, in cui l’autrice mostra un’abilità notevole nell’applicare il gusto per il sincretismo culturale (dai miti greci ai reality show, passando per i classici della fantascienza distopica) senza limitarsi, come nel caso di Twilight, ad applicare una “cornice” di genere a convenzioni reazionarie.

Molto fedele al suo testo originario fino a dove è narrativamente plausibile (adattato dalla stessa Collins insieme al regista e al Billy Ray di Breach, risponde in modo agile al passaggio dal racconto in prima persona), il film trova a sorpresa nel Gary Ross di Pleasantville una guida intelligente e non banale (vedi la prima parte ambientata nel Distretto 12, tutta camera a mano e primissimi piani) e qualche difficoltà si riscontra solo nelle scene più movimentate, a tratti un po’ confuse. Per il resto, Hunger Games è un divertimento solidissimo e appassionante, con alcune scelte di casting incredibilmente azzeccate (Harrelson in primis, ma anche Lenny Kravitz e Stanley Tucci funzionano benissimo) e dominato per tutta la sua durata dalla formidabile presenza scenica della sua protagonista. Tra le attrici più dotate (e più belle, diciamolo) della sua generazione, Jennifer Lawrence riesce a trasmettere tutte le sfumature del personaggio di Katniss Everdeen senza mai forzare la mano, regalando una performance memorabile che sembra quasi un complemento della Ree Dolly di Winter’s Bone.

Due pesi, due misure: Hunger Games, così come il libro, non è un’opera radicale o rivoluzionaria; ma è un film che riesce a bilanciare in modo perfetto le esigenze del target a cui sarebbe dedicato (senza sottovalutarne la maturità o l’intelligenza) con un gusto per il puro racconto che Hollywood spesso trascura, costruendo insieme all’attrice un personaggio femminile autenticamente eroico, coraggioso e indipendente, facendo leva su temi e pulsioni attuali e universali (moltissime le possibili interpretazioni politiche del film, che lasciamo ad altri) e finendo per diventare perfetto per qualunque pubblico – un esempio per il cinema mainstream, fantastico e non. Infatti anche il film ha avuto un enorme successo: quasi 600 milioni di incasso in pochi giorni per “solo” 80 milioni di budget, e in due dimensioni. Se li merita, dal primo all’ultimo dollaro.

The Avengers, Joss Whedon 2012

The Avengers
di Joss Whedon, 2012

In tempi in cui il discorso sul cinema si è ridotto sempre più a un’opposizione tra aspettativa e realizzazione, come era possibile mantenere le promesse di un progetto come The Avengers? Stiamo parlando di un blockbuster su cui è stato puntato così tanto (in tempo e denaro) da trasformare in trailer i blockbuster che l’hanno anticipato e letteralmente annunciato, dal successo di Iron Man in poi. La risposta poteva essere la più banale: bastano più star e più soldi. La vera risposta è stata, invece e fortunatamente, la più inaudita. Ed era la risposta giusta. The Avengers in un certo senso rappresenta per la Marvel quello che The Dark Knight fu per la DC: l’idea di investire un enorme capitale non soltanto sul marchio e sulle proprietà, ma su una firma, su un “autore”, su una personalità forte capace di ottimizzare potenzialità meramente industriali e trasformarle in vero cinema. Questa persona è Joss Whedon, uno degli showrunner televisivi più idolatrati, creatore di serie come BuffyFirefly e Dollhouse.

Ed è proprio Whedon a fare la differenza, non solo per via della passione per il fumetto che trasuda da ogni singola idea e per la sua conoscenza approfondita della materia, superiore a quelli che l’hanno preceduto, ma perché comprende fino in fondo che fare un film-fumetto non può e non deve essere più semplice o automatico della media. Tutto il contrario: ogni singola vignetta richiama un’inquadratura curata e sensata, possibilmente creativa; ogni frase pronunciata in un balloon deve essere significativa, ben misurata, possibilmente irresistibile: il lettore può fermarsi, tornare indietro, rileggerla. Whedon costruisce il suo film così: isolando alcune grandi sequenze spettacolari (e lo sono davvero), ma concentrando tutta la sua attenzione sul resto, sulla sceneggiatura e sulla costruzione dei personaggi, anche a costo di chiuderli in una stanza – facendo scontrare le loro personalità ancor prima delle loro armi. Ma quel che conta è soprattutto l’equilibrio: The Avengers per sua natura trasforma l’egomania dei precedenti in coralità, ed era importante, necessario che tutti i protagonisti avessero qualcosa da dire, oltre che da fare. Whedon ci è riuscito in modo eccezionale, sfruttando al meglio chi aveva già dimostrato di funzionare da solo (come Stark e Thor), perfezionando o ridimensionando chi ne aveva bisogno (lo stesso Stark, Captain America), arricchendo moltissimo il Loki di Tom Hiddleston e costruendo da capo un personaggio finora marginale come Black Widow (una strabiliante Scarlett Johansson, che a questo punto merita un film tutto suo) anche se il suo contributo maggiore è quello sul difficile personaggio di Hulk: bastano pochi minuti per capire quanto sia azzeccata la scelta di Mark Ruffalo nel ruolo di Bruce Banner, e sarà il mostro verde al centro dei migliori momenti della seconda parte. Quando si comincia a spaccare, insomma.

Perché ovviamente la cura dei dialghi (quasi sempre ispirati e divertentissimi che si tratti di scambi veloci o di one-liner, e il film ne è stracolmo) e dell’intreccio narrativo non impedisce al film di tuffarsi nel divertimento puro: le sequenze di “combattimento” sono favolosamente congegnate e realizzate nel corso di tutto il film (e spesso riguardano lo scontro tra gli stessi eroi) ma quella conclusiva, lunghissima e annunciata già dai primi trailer, è un apocalittico royal rumble tra i grattacieli che fa impallidire quasi tutte le più scatenate sequenze d’azione che l’hanno preceduta. E fa letteralmente a pezzi la città di New York con un gusto quasi infantile per la distruzione che lascia senza fiato e a bocca aperta. Insomma, non si tratta più di mettere un cervello al servizio dello spettacolo, obiettivo già raggiunto da Favreau e Branagh, ma di trovare un’armonia perfetta tra intelligenza ed evasione, tra meccanica e passione. Whedon era la risposta giusta. E la sua risposta si è trasformata in qualcosa di bellissimo ed esaltante: di gran lunga il miglior film della Marvel prodotto finora, un punto di arrivo con cui i film a venire dovranno presto confrontarsi.

 

Paradiso Amaro (The Descendants), Alexander Payne 2011

Paradiso Amaro (The Descendants)
di Alexander Payne, 2011

Sono passati dodici anni dal sorprendente Election, ma sembra una vita: dopo SchmidtSideways, Alexander Payne aggiunge un altro tassello a una filmografia furbetta e deprimente che si nasconde dietro una patina indipendente, tra molte virgolette. Il successo – di critica e di pubblico – di un film del genere si spiega da sé (per quanto possa risultare fastidioso e stucchevole, è indubbiamente ben scritto, la conclusione è silenziosa e azzeccata) ma è davvero un peccato che Payne utilizzi l’elemento più interessante del film (gli scenari aperti dal libro di Kaui Hart Hemmings sono davvero originali e inediti per il modo in cui vorrebbero smitizzare l’ambientazione hawaiana) solo come metafora facilona e maschera pretestuale di una storia famigliare risaputa e ruffiana, che punta alla lacrimuccia con spudorata scaltrezza, confondendo l’avvilimento con la commozione. Clooney dal canto suo, come al solito, si sforza di uscire dai panni del sex symbol limitandosi a vestirsi e pettinarsi male, ma è fin troppo affascinante: bravo, certo, ma fuori ruolo.

La migliore in scena, e in generale, è invece la deliziosa Shailene Woodley, già protagonista della serie tv La vita segreta di una teenager americana: intensa senza mai strafare, dotata di una bellezza inusuale ma ipnotica, è protagonista di una delle scene più celebrate del film (quella in cui urla sott’acqua) ed è quasi una rivelazione, in attesa di un film capace di sfruttare meglio il suo talento.