Argentina

Il segreto dei suoi occhi, Juan José Campanella 2009

Il segreto dei suoi occhi (El secreto de sus ojos)
di Juan José Campanella, 2009

Le logiche che governano un premio come l’Oscar al miglior film in lingua straniera sono per me alquanto fumose, quando non misteriose: si tratta comunque, senza dubbio, di una delle statuette meno legate al film in sé, il quale è facile supporre non sia stato visto affatto da alcun giurato dell’Academy, ma più che che altro alla spendibilità sul mercato. Quest’anno, per esempio, due film come Un prophete di Audiard e Il nastro bianco di Haneke sono stati sconfitti da un thriller diretto da un poco conosciuto regista argentino – che però, dato assai importante, lavora più spesso negli states, dove ha diretto una ventina episodi di Law & Order e svariate altre cose per la tv.

Va quasi da sé, più che altro per schiaccianti motivazioni statistiche, che il film di Campanella non sia all’altezza dei suoi due magnifici contendenti, ma è con tutta probabilità quello dei tre più facile da "piazzare" – forse persino in un mercato cieco e pigro come quello italiano: perché se El secreto de sus ojos è sì fortemente inserito, attraverso l’uso del flashback, in un contesto storico ben preciso (quello del regime istituito da Isabel Perón dopo la morte del marito, la cui conoscenza è data pressoché per scontata), la Storia della nazione argentina è comunque il contorno, o più spesso il pretesto, per una vicenda dai contorni più vicini al genere, tra il melò iberico e il thriller politico d’autore più vicino al gusto nord-americano in cui, che si tratti di Storia o di fantasia, a un certo punto, non ha più nemmeno molto senso. A meno di essere argentini, suppongo.

In ogni caso dunque, il film vive su tutt’altro – prima di tutto sull’ingegnosa costruzione della tensione narrativa intorno a una vicenda intricata e sorprendente (in senso letterale: lo "svelamento", ormai quasi inevitabile ma punto dolente di molti film, coglie davvero di sorpresa) che ruota attorno a concetti non proprio leggerissimi, giustizia e Verità e via dicendo, ma anche sull’interpretazione dell’ottimo cast (in particolare Soledad Villamil) e su alcuni pezzi di bravura di Campanella. In cima a tutti c’è ovviamente il lunghissimo piano-sequenza centrale ambientato in uno stadio durante una partita di calcio, che ha fatto parecchio parlare di sé (più di tutto il resto del film messo assieme, va da sé) e pur se stilisticamente (giusto un po’) separato dal resto del film, è una cosetta effettivamente impressionante. Vale da solo il prezzo del biglietto? Non diciamo baggianate. Ma il film intero, quello sì.

Il film esce in Italia con Lucky Red il prossimo 4 giugno.

In Spagna è già in vendita in DVD e Blu-Ray.

La niña santa
di Lucrecia Martel, 2004

Secondo film dell’argentina Martel, prodotto sotto l’egida iberica dei fratelli Almodòvar, racconta delle vicende di alcuni personaggi nella cornice di un hotel termal-turistico invecchiato e decaduto. Mentre Helena – che gestisce l’albergo – cerca di ricostruire con il dottor Jano la sua vita sentimentale e sessuale dopo il divorzio, la figlia Amalia (nomen, omen), illuminata dalla strettissima dottrina cattolica a cui è sottoposta, decide di redimere l’anima dello stesso Jano dopo che l’uomo, nella folla, ha appoggiato il suo sesso al di lei fondoschiena. Come se non bastasse, una compagna di Amelia scopre di nascosto da tutti le gioie del sesso – non tradizionale – con il fratellastro cugino.

La possibile morbosità di un tale incrocio di vicende è tenuta lontana da una regia fredda e precisissima, fotografata in modo sublime, eppure molto accorata e vicinissima al pathos dei suoi personaggi, alla loro smania di perdono, o di peccato, o di salvezza (terrena). E dopo aver scoccato qualche freccia acida in direzione della confusione tra etica e morale cattolica – l’insegnante che cerca invano da settimane di insegnare alle ragazze il significato della chiamata, trovando un muro di incomprensione che si trasforma, a volte in ebetudine, a volte in disprezzo – la Martel conclude nel modo più disperato, inevitabile e frustrante possibile.

Con la consapevolezza cioè che il perdono della purezza di Amalia vale poco in una comunità-società alla ricerca dello scandalo a tutti i costi, della pecora nera da cacciare dal gregge, del capro espiatorio su cui travisare la trave che copre il proprio occhio. Perché se Jano è un personaggio sgradevole e incapace di controllare le sue "emozioni" di fronte alla bellezza di Amalia, egli è altresì l’unico a cui viene data, proprio dall’abbraccio casto e dalla perseveranza della giovane, una speranza.

Il film della Martel solleva questi e ben altri interrogativi, e il suo è un cinema maturo e adulto, sensibile e complesso, molto sottile ma a volte fuorviante e poco chiaro nel mostrare questo conflitto tra sacro e profano, tra desiderio e salvezza, tra malizia e santità. Ma La niña santa è anche il volto e il corpo immaturo di María Alche, la cui bellezza inusuale, improvvisa e ambigua dà a molte situazioni o scene, altrimenti risapute o banali, un incredibile vigore fotogenico.

[remainder]

E’ uscito venerdì nei cinema (con il rassicurante titolo "Tutto il bene del mondo") "Un mundo menos peor", il film di Alejandro Agresti presentato a Venezia Orizzonti.

Volevo solo, come ho fatto altre volte, ricordare che ne ho già parlato brevemente da Venezia.

Visto come ripiego dopo la porta-in-faccia della proiezione di Miyazaki, è stato una sorpresa. Sarà stata l’atmosfera, o la lingua originale (che vi potete scordare, se non siete fortunati), o la commozione di autore e attori (bravissimi, tutti) presenti in sala, ma a Venezia ho pianto come un bambino. Bello: andate a vederlo.

"Iberamericana ’04" – Volume 2

El tren blanco

di Nahuel Garcia, Sheila Perez Giménez e Ramiro Garcia, 2003

Documentario sui cartoneros argentini, uomini e donne che raccolgono carta dalla spazzatura per mantenersi. Il fulcro del film è chiaro, ed esplicitato spesso: qual è la possibilità per un uomo di non perdere la propria dignità in condizioni di povertà assoluta. E funziona alla perfezione anche come ritratto dell’Argentina dopo la crisi del 2001, con quei due inserti "storici" che agghiacciano: un assalto al supermercato e una celebre manifestazione di piazza, in cui ci scappa anche il morto. Intelligente, persino toccante.

"Iberamericana ’04" – Volume 1

Pyme (Sitiados)

di Alejandro Malowicki, 2003

Basato, si suppone, su una storia vera, il film argentino racconta di una fabbrica che va a chiudere (ma non racconta della sua chiusura), e della lotta da entrambe le parti per salvare il salvabile. Ammirevole il tentativo di umanizzare sia operai che padroni: il vero nemico sono le banche. Girato veramente da cani, ma scritto con una certa grazia.

Ferro 3 (Bin-jip)

di Kim Ki-Duk

Venezia 61 Concorso

Ho visto solo 4 film in concorso, ma ho trovato il mio Leone d’oro. Sa essere allo stesso tempo una dolcissima storia d’amore fatta di silenzio e sguardi, un’opera sulla ricerca dell’identità e sulla sua assenza, uno sguardo sospeso e ipnotico sullo stupore del mondo, un film sul visibile e sull’invisibile, sulla parola e sul silenzio. E bellissimo, anche esteticamente, con una fotografia splendida fatta di toni blu e bianchi. Una geniale soggettiva di un occhio dipinto, e un finale incredibile. Probabilmente il miglior film a Venezia quest’anno.

Izo

di Takashi Miike, Giappone

Venezia Orizzonti

Izo è una vera e propria esperienza, più fisica che visiva. Ci vuole pazienza, e stomaco. Ma quello che ne viene fuori, il discorso sull’irrazionalità umana, sulla guerra, è davvero straordinario. Il tutto inserito in una storia che mescola tradizione samurai (con rimandi a Kurosawa), cinema sperimentale (i filmati di repertorio a far da contrappunto) e soprattutto la mitografia nipponica (il rancore, i demoni). A tratti un po’ faticoso, e insostenibilmente violento: ma portatore di una visionarietà geniale, davvero unica e importante nel cinema mondiale.

Palindromes

di Todd Solondz, USA

Venezia 61 Concorso

Sinceramente mi aspettavo di più, da un autore come Solondz: Palindromi non è Happiness, il discorso è più diretto, la provocazione forzata e ricercata. Ma il cinismo coglie nel segno (e diverte) molto spesso, e il regista si conferma uno dei pochi cantori degli orrori americani, uno dei pochi ad avere il coraggio di sparare a zero su tutto e tutti, abortisti e antiabortisti, senza preoccuparsi del buon gusto (che non c’è), con insolito amore per gli inetti e i reietti della società. La Barkin era uno dei miei idoli sexy da giovanissimo: ieri sera l’ho vista, un po’ invecchiata, ma sempre bellissima.

Famiglia Rodante

di Pablo Trapero, Argentina

Venezia orizzonti

Poche parole: un film piccolo piccolo, divertente anche se un po’ scontato. Il bello di Trapero è che sa cogliere piccoli dettagli, regala perle sorridenti di cinema on the road. Affastella le sue storie corali, voci che si sovrappongono sotto l’effetto di una sceneggiatura-canovaccio: niente male.

Some gossip…

Mi sono fatto fare una foto con Takashi Miike e una con Kim Ki-Duk. Emotional.

Meno boria, kekkoz, meno boria.

Mare dentro (Mar adentro)

di Alejandro Amenabar, Spagna

Venezia 61 Concorso

Io adoro Amenabar, e forse solo per quello (o per il sonno dell’altra sera) quest’ultimo film è una sonora delusione. D’accordo, è impeccabile, girato benissimo, ma di un’ordinarietà (e un pelo di ruffianeria) che mi ha irritato e annoiato, come un prodotto confezionato apposta per ricevere premi a frotte. Bardem non mi convince, niente da fare (e dal vivo sembra un animale). Le vette sono davvero poche, come i voli immaginari di Ramon, o la sua camminata sognata (ma a quel punto si richiama l’ultimo Bellocchio…), o un bellissimo flashback all’inizio. Se si fa finta che non sia un brutto segno per quel geniaccio di un faccia-da-topo, è un bel film: ma tutte quegli applausi (un quarto d’ora) e le lacrime di tutto il pubblico e le critiche entusiaste sono a mio avviso un po’ esagerate.

Vanity fair

di Mira nair, USA

Venezia 61 Concorso

L’adattamento della bravissima (almeno tecnicamente) Nair dell’opera di Thackeray inizia molto bene, ritmata commedia in costume, e finisce in modo solare e piacevolissimo. In mezzo, almeno un’ora di mortorio, che segue pedantemente le regole del genere e fa davvero fatica ad interessare. Troppo lungo, in ogni caso, dura non assopirsi. La Witherspoon, per essere del Tennessee, sfoggia un talento posh non da poco.

Un mundo menos peor

di Alejandro Agresti, Argentina

Venezia Orizzonti

Sono rimasto fuori, causa code chilometriche, dal film di Miyazaki (porca vacca) e ho ripiegato su Agresti, imbestialito, e senza aspettative. E invece ho trovato un’opera delicata, sincera, interpretata con garbo e talento, scritta molto bene, divertente, e infine abbastanza commovente da meritare un’applauso e una stretta di mano ad Agresti (molto commosso) e alla bravissima Monica Galan. Oh. La sezione orizzonti, insieme ovviamente alle Giornate degli Autori!, fanno parzialmente dimenticare i tanti problemi (orari, entrate, accrediti) di quest’edizione.

Some gossip…

Segnalo solo quattro chiacchiere con il mio talentuoso compaesano Stefano Cassetti (qui da noi alle Giornate per Il giorno del falco, che ho perso) e un passaggio in macchina (quasi sul mio piede) di Pacino e Irons. Il buon Johnny Depp (un cencio pallido) solo da molto lontano. Julie Depardieu è partita da poco, e ora qui da noi c’è ospite la bravissima e simpaticissima Lili Taylor: vado a pasteggiare. Che faticaccia, eh?

Il tempo è quello che è. Lo stage mi porta via la maggior parte del tempo. E non ho tempo (né spazio) per postare granché. Ecco quello che sono riuscito a vedere ieri. Se passate dal Lido mi trovate QUI.

20 fingers (20 angosht)

di Mania Akbari, Iran/GB

Venezia Cinema Digitale

Piccolo film digitale iraniano. Sette episodi su mezzi di locomozione: il mondo si muove, ma è difficile smuovere le persone. Ovviamente (e giustamente) si parla della condizione della donna islamica, di integralismo, di emancipazione. Prodotto kiarostamico fino al midollo, è quello che ci si aspetta che sia, ma non è così pesante come si potrebbe pensare. Non male.

El amor, primera parte

di Registi Vari, Argentina

Settimana della critica

Sorta di tesi di laurea di quattro studenti di cinema argentini, e si vede: ci sono i sogni, la frammentazione del tempo, e tutti quei giochini che piacciono tanto a noi giovani studentelli. Tutto bene, però, perché si respira un’aria di libertà ammirevole. Commedia a volte fresca e divertente, a volte terribilmente malinconica. Di una sincerità travolgente. L’intento è una specie di antropologia del rapporto di coppia, con rimandi al cinema americano e francese, ma con un digitale temperato e senza fronzoli. Davvero ben riuscito, anche commovente. A mio parere, vendibile: speriamo di vederlo in italia.

Throw down (Rudao lunghu bang)

di Johnnie To, Hong Kong

Fuori concorso

Bellissimissimissimo. Al di sopra delle mie (già alte) aspettative. Grandissimo cinema.

Some Gossip…

Incontri ravvicinati con Mario Monicelli, un po’ meno con Spike Lee, un po’ meno ancora con Raul Bova. Ho pasteggiato con Michela Cescon. Gran donna. Baci a tutti dall’assolato lido veneziano.