Australia

Sleeping beauty, Julia Leigh 2011

Sleeping beauty
di Julia Leigh, 2011

Dovendo stilare una lista delle maggiori delusioni del 2011, ai primi posti potrebbe esserci Emily Browning, giovane australiana dal volto angelico che, dopo una breve carriera da child actress, aveva colpito tutti nel ruolo di Violet Baudelaire in Una serie di sfortunati eventi. Ai tempi era forse tutta presenza scenica, pure fotogenia, ma la promessa per il futuro era notevole.

Ma la colpa non è del tutto sua, povera ragazza: i due film a cui ha partecipato quest’anno come protagonista, sulla carta, erano occasioni preziose: come si può dire di no al nuovo film del regista di Watchmen, anche se accettare significa vestirsi come il cliché soft-porno della scolaretta sexy per buona parte del film? E come si può dire di no a un film che può vantare il beneplacito dell’illustre conterranea Jane Campion, anche se accettare significa non vestirsi affatto per una buona parte del film? Sul bruttissimo Sucker Punch si è già detto più del necessario; Sleeping Beauty, d’altra parte, è un film che va in una direzione completamente opposta con il suo stile asciutto ed essenziale (camera fissa, ripetitività nelle inquadrature e nelle scene, fotografia nitida e calligrafica), nel raccontare la storia di una studentessa-prostituta che finisce a lavorare per una professionale maîtresse, la cui specialità è proporre a ricchi anziani ormai impotenti delle “belle addormentate” (chimicamente) con cui giacere, e solo giacere, per una notte.

Ma al di là della messa in scena (raramente davvero funzionale e interessante) Julia Leigh si invischia tra velleità psicologiche, digressioni massacranti, un ritratto affettato dei personaggi (le tre cose insieme nel caso del pesantissimo monolog0 del primo cliente) e nel ritrarre questo inquietante ribaltamento dei meccanismi della passione resta vittima del proprio disgusto – spesso molto esplicito – nei confronti di un decadimento quasi apocalittico delle leggi del desiderio. Vorrebbe essere una riflessione sul possesso (e sul potere) della (e sulla) bellezza, ma finisce per essere tanto confuso quanto compiaciuto. E mortalmente noioso.

Una delusione, quindi? Il film lo è senza dubbio. Emily Browning, invece, non fa che stare al gioco, mettendocisi del resto con una devozione impavida che la Leigh non merita. E la sua performance, dimessa, quasi distratta, è l’altra faccia di quella compiuta ripetutamente dal personaggio: la sua esplosione finale, corrotta da un finale che tronca un film proprio nel momento in cui ottiene un’anima finora assente, lo mostra con precisione. Così come mostra che, al di là della sua bellezza, c’è davvero del talento. Ora serve soltanto qualcuno che, da dietro la macchina da presa, sia in grado di metterlo a frutto.

Animal Kingdom, David Michôd 2010

Animal Kingdom
di David Michôd, 2010

L’australiano Animal Kingdom è stato uno dei film più acclamati all’ultimo Sundance, e all’accoglienza unanime della critica si è affiancato anche il Gran Premio della Giuria per i film internazionali. Ma l’opera prima di David Michôd è tutt’altro che un abbaglio da festival: anzi, è uno dei film più interessanti della stagione, tanto più perché si tratta di una sorprendente opera prima. Un gangster movie decisamente sui generis che riesce a raccontare una storia incredibilmente drammatica e tragica sulla potenza inesplicabile dei legami di sangue senza farsi tentare dai cliché sia del dramma famigliare che del gangster movie stesso.

La forza travolgente del film, oltre che dalla perfezione dell’articolata e precisa sceneggiatura, divisa quasi in atti ma caratterizzata da un’inarrestabile spirale di violenza, viene ovviamente dal cast di attori australiani, tra cui spicca la veterana Jacki Weaver (la sua “nonna Smurf” è una nuova “Bloody Mama” tagliente e indimenticabile) ma ciò che più colpisce è il talento di Michôd, che già dalle primissime sequenze impone al film un ritmo avvolgente e insieme inquietante, e un modo del tutto originale di guardare al mondo attraverso il filtro distorto del protagonista J (a cui affida uno straniante ed efficacissimo flusso di coscienza in voice over) che riesce a trasformare piccoli gesti in movimenti epici e minacciosi, lavorando contromano e in sottrazione nelle esplosioni di violenza. È lui la grande sorpresa del film: perché la sequenza iniziale con il protagonista che guarda Deal or No Deal mentre gli infermieri cercano di rianimare la madre in overdose e l’incredibile finale (che ovviamente non racconto) sono due autentici colpi di genio, ma in mezzo ci sono quasi due ore e sono intensamente nere, nerissime, e non lasciano scampo.

E c’è anche Guy Pearce. Con i baffi.

Il film esce nelle sale il 30 ottobre, distribuito da Mikado. Non fatevelo scappare.

The Loved Ones, Sean Byrne 2009

The Loved Ones
di Sean Byrne, 2009

A mettermi la pulce nell’orecchio era stato, come spesso accade in questi casi, il buon Nanni Cobretti dal Frightfest londinese. Ma The Loved Ones aveva già un biglietto da visita di tutto rispetto, tra cui materiali promozionali (trailer, locandine) eccezionali e uno spunto narrativo che non può far gola a qualunque appassionato: proprio perché il “prom”, il ballo di fine anno, è un oggetto così noto e risaputo nel cinema americano e soprattutto nel cinema di genere, cosa ne avrebbe potuto trarre un regista australiano esordiente che viene dalla Tasmania?

Bene, tanto qualunque fossero le aspettative, il film di Sean Byrne ha provveduto a ribaltarle e travolgerle con una forza deflagrante: The loved ones è uno degli horror più belli ed eclatanti degli ultimi tempi, un’opera piccola e indipendente ma che sa infilare la mano e i coltelli nei piedi e nel cuore, strizzando e perforando, riuscendo a fare tesoro in modo tanto allucinato quanto preciso di molte lezioni del miglior cinema horror (la provincia, la famiglia, la perdita, le case nere, le cantine e i loro scheletri) facendole esplodere dall’interno, con un’ambiguità e un’inquietudine che molti registi hanno dimenticato per inseguire i gusti di un pubblico addolcito e pigro. Senza strafare però, senza l’ansia del primo della classe né quella di esagerare con i dettagli gore: il film è senza dubbio impressionante e a tratti spaventoso, ma è anche sorprendentemente equilibrato nel bilanciare la rappresentazione con il fuoricampo, come se Byrne avesse già una sua morale a cui rispondere. Non mi sorprenderebbe, visto che l’interesse del regista, una volta tralasciati gli aspetti più sanguinari, va nella direzione della rappresentazione di un irresistibile incastro amoroso e affettivo che riesce a essere a suo modo (e in ogni direzione possibile) anche disperatamente romantico – e che trova nella figura terrificante di Lola e nella performance di Robin McLeavy lo sfogo estremo e violento di un intero immaginario. In tal senso, quello della doppia traccia (l’intreccio “principale” da una parte, l’appuntamento dell’amico con la ragazza dark dall’altro) potrebbe sembrare l’aspetto più debole del film ma in realtà mostra con efficacia, sia nel disseminare false tracce che nel dare infine soluzioni illuminanti, che nulla, davvero nulla in The Loved Ones è lasciato al caso.

Ma il film non ha nemmeno bisogno di caricarsi o di essere caricato, visto che conquista fin dall’incredibile incipit. D’altra parte, la sequenza finale è tra le più belle che si possano immaginare dopo un’ora e un quarto passata a stringersi le ginocchia al petto.

Non è prevista un’uscita italiana. L’edizione inglese è già in commercio in DVD e Blu-ray.

Bright star, Jane Campion 2009

Bright star
di Jane Campion, 2009

Ho sempre avuto l'idea che Jane Campion sia una regista a cui piacciono le sfide, che nel suo lavoro sia quindi importante la componente di rischio, calcolato o meno. E che poi vada bene o meno. Bright star per esempio è un film che non sceglie per nulla la via più facile – tutt'altro: già aprire con un film una finestra sulla vita privata di un artista, un poeta come John Keats poi, non è cosa facile, né tantomeno lo è raccontare la sua poesia. O qualunque poesia.

E poi, come già il capolavoro Ritratto di signora, l'approccio al film in costume è in realtà più inusuale di quanto sembri a un primo approccio, così come rappresenta una rottura il rifiuto della Campion, anche sceneggiatrice, di adattare al gusto contemporaneo una storia d'amore così imprevista, inattuale e platonica, eppure stranamente universale, comprensibile e "umana". Mettendo in scena un film tanto sussurrato e quieto quanto dolente nell'accettazione dell'assurdità della vita, un film in cui le azioni cedono il posto alle parole, così come i rimpianti e i ricordi prendono il posto della stessa vita.

Un'opera peraltro visivamente superba e sfrenatamente romantica, che trova nelle interpretazioni del cast uno dei suoi punti di forza, in primis Abbie Cornish nei panni di un personaggio in cui le aspirazioni di indipendenza sociale e il puro sentimento amoroso sembrano andare di pari passo – fino a confonderne i confini. Bright star rappresenta in ogni caso una sorpresa graditissima, perché è il ritorno, in grande stile anche se con toni quasi timidi, intimi e introversi, di una grande autrice che nell'ultimo decennio, complice un film sbagliato come In the cut, ha faticato a ritrovare la sua strada. Bentornata, Jane Campion.

Il film doveva uscire a febbraio, poi l'uscita è stata rimandata all'ultimo momento: arriverà nelle sale con 01 il 23 aprile 2010. Difficile però immaginare come se la siano cavata con l'edizione italiana: le poesie saranno tradotte ex novo? Se possibile, consiglio quindi come sempre la visione in lingua originale: il dvd inglese esce oggi e costa poco.

Daybreakers, Michael e Peter Spierig 2009

Daybreakers
di Michael e Peter Spierig, 2009

Quanti sono i punti di vista da cui si può osservare l'immaginario vampiresco per poterne sfruttare al massimo le potenzialità commerciali? I fratelli Spierig provano a impostare una prospettiva interessante, adulta e radicata nella fantascienza più che nell'horror, quella del ribaltamento in cui i vampiri hanno vinto e gli umani hanno perso. Ma nonostante la buona idea, il loro film è brutto è dimenticabile, crolla sotto il peso di una messa in scena artificiosa e mortificante, di una fotografia tutto stile e niente ciccia, di personaggi di cui non te ne può fregare di meno, e di una scrittura poverissima tutta conflitti famigliari inespressi e schiocchi metaforoni sociologici, che nel territorio del genere non fa che prendere a piene mani da territori già esplorati, meglio, in passato. Ethan Hawke si impegna per bissare la sua mesta e memorabile performance in Gattaca, invano. L'idea degli umani "coltivati", uno dei dichiarati punti forti del film sia vivisamente che narrativamente l'avevamo vista, uguale uguale, in un altro film (indovinate quale) e non fa più alcun effetto. Un punto d'onore ad alcune scene horror particolarmente cazzute e sanguinolente, in particolare alla scena, finalmente un po' eccessiva e personale, della propagazione dell'antidoto in una squadra di poliziotti-vampiri (non si dice altro) ma c'è davvero poco altro, pochissimo, di cui essere contenti.

Nei cinema dal 26 marzo 2010

Australia, Baz Luhrmann 2008

Australia
di Baz Luhrmann, 2008

Se dovessero fare una classifica dei film più anticipati del decennio, di cui insomma si è più chiacchierato, nel bene e nel male, nel corso degli anni prima dell’uscita ufficiale, Australia farebbe la sua porca figura: le riprese interminabili, la Kidman incinta che sviene sul set, le sostituzioni del cast, il budget enorme, gli sgravi fiscali, ognuno aveva il suo motivo per cui parlare. Dal canto mio, l’interesse principale era vedere come se la sarebbe cavata un regista come Luhrmann, che il suo meglio lo dava nei set ricostruiti, con un film così dichiaramente "aperto".

La cosa fondamentale da capire di Australia, film di quasi tre ore, è la sua netta bipartizione: quasi come fossero due capitoli di una saga epica, la prima e la seconda parte differiscono enormemente, per coesione tematica e – qui viene il punto – non solo. La prima metà è infatti un godurioso western dell’outback australiano, avventuroso e romantico (a tratti persino commovente), in cui Luhrmann prende di petto il kolossal, e ribadendo il suo insolente e divertito disinteresse nel confronti dei gusti contemporanei, costruisce un film corposo e appassionante come nessuno ha più il coraggio di fare da tempo. Riuscendo a scendere a patti con il gusto del kitsch, c’è davvero da divertirsi – ma dopotutto è Baz Luhrmann, e anche se Australia è quanto più diverso da Moulin Rouge! mi potessi attendere, non vi aspetterete mica un film misurato e cauto?

Ma come accennavo poc’anzi, c’è un ma: la seconda metà. Dopo la scena centrale del ballo, infatti (con un’apparizione di Hugh Jackman ripulito che scommetto scatenerà grandi risate tra chi non ha voluto/saputo apprezzare la prima parte) il film prende una piega diversa, e diventa un cupo ma plasticoso drammone storico-bellico con soldati, aerei, bombe, giapponesi. Nell’ansia di ricostruire più o meno fedelmente una pagina dimenticata della seconda guerra mondiale, a Luhrmann sfuggono di mano i personaggi (che si limitano a perdersi e ritrovarsi all’infinito), gli sfugge di mano il fascino senza tempo che i campi lunghi e le riprese a volo d’uccello della prima ora e mezza riuscivano a suggerire e restituire, e con essi gli sfugge di mano il film stesso – avvinghiandosi a un genere che, forse, semplicemente non è roba sua.

Da quel punto in poi, il peso dell’orologio comincia a farsi davvero difficile da sostenere, ed è difficile non dirsi delusi di questo cambio di rotta, nonostante i bei momenti non manchino anche verso la fine e il tono continui a essere lo stesso. Tutto sommato però Australia è per me un film difficile da deprecare anche nei suoi momenti più difficili, per la sua dichiarata ed esasperata passione, per il suo essere sbilanciato e sopra le righe – ma ho la netta impressione che chi lo disprezzerà lo farà con toni ben più accesi della mia timida ma affettuosa difesa.

Questa volta davvero: se non avete intenzione di vederlo in sala, lasciate perdere del tutto.


Nei cinema dal 16 Gennaio 2009

L’inizio del cammino, Nicolas Roeg 1971

L’inizio del cammino (Walkabout)
di Nicolas Roeg, 1971

Il primo film del regista inglese, dopo 10 anni di direzione della fotografia (tra cui spiccano La maschera della morte rossa e Fahrenheit 451) e dopo la co-regia di Sadismo (Performance) dell’anno precedente, racconta del viaggio nelle immense e immutabili aree selvagge australiane di una giovane e bellissima ragazza e del suo fratello minore, rimasti soli nel deserto dopo che il padre è impazzito, mettendosi a sparare loro e suicidandosi infine dando fuoco all’auto. Verranno soccorsi da un aborigeno intento a svolgere il suo "walkabout" (rito di iniziazione per cui i sedicenni rimangono sei mesi da soli) che li condurrà attraverso un percorso di immersione nella natura e – in senso più inconscio per i personaggi, palese per noi – di rifiuto nei confronti di una civiltà ritratta in veri e propri segmenti intermedi con piglio grottesco (gli scenziati italiani arrapati) quando non crudele (la fabbrica di statuine, i bracconieri).

Tra i più sorprendenti (e amati) esordi della storia del cinema inglese, il film di Roeg non solo dava un’ideale continuazione a certe istanze sollevate grazie all’avvento e al termine della New Wave britannica, ma allo stesso tempo le superava grazie a uno stile fiammeggiante e personalissimo che rende Walkabout un incredibile quanto inquietante spettacolo, soprattutto per l’eclettismo e la ricchezza linguistica che, in alcuni casi, si trasformano in ricercata ridondanza. Un uso memorabile dello zoom (soprattutto nella prima mezz’ora, per rivelare la solitudine della natura intorno ai due personaggi), ma anche di panoramiche, moltissime macro (sulla fauna selvaggia), grandangoli, persino tendine, fino ad arrivare – nella sequenza dei bracconieri, geniale e quasi insostenibile – a fermi immagine e reverse, e più in generale una varietà di piani e campi che sorprende ancora oggi.

Il film possedeva insomma un coraggio nella sperimentazione inusuale sia per un debutto sia per i tempi, che tradiva sia la sua esperienza di direttore della fotografia (in ogni singola inquadratura si respira il tentativo di far parlare l’ambiente in relazione ai personaggi, e non solo viceversa) sia aspirazioni di deciso ordine teorico – come nella celebre sequenza in cui Roeg utilizza un "montaggio intellettuale" associando la caccia e l’uccisione di un canguro all’opera di taglio di un macellaio. Ma Walkabout non è solo questo: è anche un film di impressionante e immediato impatto estetico ed emozionale, e la stupefacente storia di una scoperta di sé attraverso la scoperta della natura – e, dentro di essa, del pericolo, della paura, della più profonda sensualità, e della morte.

Non esiste un’edizione italiana in DVD. Si può ripiegare sulla edizione inglese o su quella tedesca (entrambe economiche ma senza sottotitoli inglesi) ma se non avete problemi con le Regioni vi consiglio di accaparrarvi la solita edizione Criterion (una delle prime uscite della storica Collection) che è ovviamente di qualità incomparabile alle altre edizioni in circolazione.

La splendida Jenny Agutter aveva 18 anni quando il film uscì, ma 16 anni quando lo girò: con questo sotterfugio, Roeg si permise di includere in montaggio una quantità di scene di nudo – alcune delle quali sottilmente morbose anche se sempre del tutto funzionali – che oggi sarebbe del tutto impensabile. Se la cosa vi tocca, siete avvertiti. Allo stesso modo: se vi impressionano, anche minimamente, gli animali morti nei film, statene alla larga.

Happy feet
di George Miller, 2006

A sorpresa, il terzo film d’animazione del 2006 dopo i coniglioni della Aardman e le automobiline della Pixar è un film di produzione Australiana. Ancora più a sorpresa, è un film di uno studio all’esordio nel lungometraggio, la Animal logic. Di più: è un film a cui non avrei dato un soldo, nonostante il buon nome di George "Mad Max" Miller, che ha pur sempre creato Babe. E infine, per concludere: è un film animato con gli animali, categoria da me ultimamente disprezzatissima. Ma nonostante gli animaletti, gli occhioni blu della diabolica versione pinguina di Elijah Wood, e la quantità di cucciolosismi e cucciolosità presenti, la visione di Happy feet è davvero un piacere. E non solo perché è tecnicamente in-cre-di-bi-le. E notare la sillabazione: non dico altro.

E come diavolo fa? Prima di tutto, azzecca l’uso del musical luhrmanniano: non solo l’incipit con Kiss, che fa venir voglia di alzarsi ad applaudire e a tirare petali di rosa sullo schermo, ma il fatto stesso che ci siano continuamente animali che cantano e ballano (anche in gruppo) e che io non mi innervosisca affatto (anzi), vuol dire davvero molto. Secondo, azzera quasi completamente le tendenze citazioniste di Dreamworks et. al. (che solo pochissime volte riesce bene) e ricostruisce la piacevolezza del racconto su basi più concrete, come per esempio i personaggi. Per esempio – almeno nella versione originale – il quintetto di pinguini sudamericani capitanati da Robin Williams è strabiliante.

Ma ciò che funziona al meglio in Happy feet è la capacità di trasmettere dei forti messaggi, politici nel senso più profondo del termine, a una platea più variegata possibile, senza sfociare mai in facile retorica ecologista, ma utilizzando come arma il semplice buon senso, e senza strizzare troppo l’occhio a destra e a manca. Mica per niente più di un Conservatore negli States si è indiavolato. Beh, se non si sanno divertire, fattacci loro. E poi dai, quando all’inizio Mumble casca su Gloria, in pochi istanti mimano almeno (dico almeno) tre posizioni del kamasutra. Ho le prove*.

A questo punto, vi importa davvero che il film sia così lineare e ingenuotto? Per dire, a me no. Peccato per l’ultima parte, un po’ scialacquata, con una riconciliazione – ma decisamente onirica – a sostituire l’angoscia di una lotta senza speranza contro l’intervento umano sulla natura. Altra cosa, se il film si fosse chiuso su quella spaventosa, inquietante e – facendo il paio con An inconvenient truth – quasi horrorifica immagine della Terra dall’alto. Ma ce lo facciamo andare bene pure così.

*le prove, appunto (link sconsigliato ai più piccini)

Superman returns
di Bryan Singer, 2006

Al suo sesto film, sbarcato giusto in tempo dalla nave degli X-men prima che affondasse del tutto, Bryan Singer si trova a dirigere un film che, nonostante il budget enorme e l’hype degli ultimi mesi (e quindi difficile da sbagliare, almeno economicamente), poteva essere un salto nel buio, o meglio un buco nell’acqua. Al di là delle leggende metropolitane sulla “maledizione di Superman”, fare un film sull’uomo d’acciaio non è cosa da tutti. C’è in ballo la mitologia, la religione, e una ridicola calzamaglia azzurra.

Ma come già Sam Raimi prima di lui con l’uomo-ragno della Marvel, Singer riesce ad aggirare i rischi legati alla rappresentazione filmica della bidimensionalità dei fumetti DC, e confeziona un grande spettacolo di intrattenimento ed effetti speciali, un filmone ultra-pop, catastrofico ed emozionante, ingenuotto e confezionato per le masse sulla base di schemi oliatissimi quanto perfetti (Superman che arriva sempre all’ultimo momento, per dirne una), ma che fa intravedere nello spiraglio tra una CGI e l’altra una visione del mondo che non sarà inedita ma che è meno banale di quanto ci si aspettasse, e che a volte (Lois Lane che sviene sul tappeto giallo, la stessa che galleggia nell’aereo, l’affondamento della nave, eccetera) si trasforma in una ricercatezza che è solo di Singer, e che rende forse Superman returns il suo film più personale dai tempi del magnifico I soliti sospetti. E di sicuro il più compiuto e divertente.

La cosa più interessante è forse il modo in cui viene approcciata la materia cristologica, presente sì già nel personaggio, ma su cui il film calca ancora di più la mano. Abbiamo un figlio mandato sulla terra a “mostrare la luce” al volonteroso ma debole popolo umano, abbiamo la morte con tanto di “crocefissione stellare”, abbiamo la resurrezione con tanto di tomba vuota ospedaliera e sudario abbandonato. Abbiamo persino una via crucis nel fango e nella kriptonite, unico tratto davvero dark di un film altrove coloratissimo, ironico e piacevolmente plasticato.

Si può discutere quanto si vuole su queste tendenze messianiche del cinema hollywoodiano contemporaneo (già presenti in moltissimi film superomistici recenti, vedasi Spiderman 2), ma che tutto questo cristianesimo spinto non sfoci nel ridicolo è già qualcosa. Anzi, è di più: Superman returns, persino nelle pieghe più geek (le battute che ammiccano agli appassionati, come la citazione ironica della famosa “è un uccello, è un aereo”, oppure il nome di Gotham City che spunta da un telegiornale), e persino in quelle più morbose, un film riuscitissimo.

Merito di un reparto tecnico pazzesco (coinvolte diverse industrie di effetti speciali), di una sceneggiatura di ferro (con una sorpresa che è ovvia fin dal primo minuto ma che stordisce per metà film) per di più piena di ottimi dialoghi – quasi tutti in bocca al cattivo – e merito appunto anche di quest’ultimo, un gigionissimo Kevin Spacey che, per quanto criticato da qualche parte, è un Lex Luthor crudele e magniloquente.

Kate Bosworth con i capelli castani è decisamente più bella che in versione bionda, ma continua a non convincermi del tutto. Comunque meglio di Margot Kidder. Brendan Routh, dalla sua, è talmente legnoso che il cristone digitale che ogni tanto lo sostituisce è quasi più espressivo.

Il film è stato proiettato ieri in anteprima in moltissime sale italiane, la sua data d’uscita ufficiale è il 1 Settembre.

Chopper
di Andrew Dominik, 2000

Di Eric Bana tutti sanno che è australiano, e che è fico: da dove sia spuntato questo ragazzo con la faccia da provinciale sempliciotto e il carisma dell’uomo vero ha da puzza’, da dove abbia cominciato il comedian a mostrare il suo innegabile talento recitativo, il trait d’union insomma, è presto detto: da Chopper. Sfortunatamente pochi lo sanno, perché Chopper, film molto celebre in Australia – vista l’enorme notorietà dell’uomo la cui vita racconta – e ben diffuso nei paesi anglofoni, da noi non è nemmeno uscito in sala. E’ uscito in Dvd. E’ uscito in Dvd in edicola.

Eppure Chopper, a prescindere dal suo interesse storico e dal valore filmico, entrambi notevoli pur senza troppi capelli strappati, mette sul tavolino tutte le carte giuste per un cult sublime: la storia durissima (anche visivamente: qui non ci sono i fuoricampo di Tarantino, sulle orecchie strappate) di un carcerato violento e bizzarro che diventa un romanziere da milioni di copie, vista attraverso la prospettiva di un uomo che ha interiorizzato la sua paranoia e ne ha fatta una tattica vincente sulla società (ma non su se stesso), trasformandosi in una leggenda di fronte ad un mondo che sembra modellato alla perfezione per accogliere la sua patologica mitomania, con i media pronti a celebrare – smitizzandola falsamente con l’illusione della sua poca lungimiranza – la bellezza e il fascino della sua sregolatezza.

Mark Brandon "Chopper" Read è un personaggio multisfaccettato e complesso, che Bana rende alla perfezione con un’intepretazione maniacale, di impressionante precisione, che Dominik riprende con una classe non indifferente – e non solo per un esordiente – giocando moltissimo sugli spazi (come le celle marmoree e spaziose, il buio delle case dei reietti, che siano poveracci o di successo) e anche sui rimandi cinematografici. Taxi Driver in primis: ma se Read è davvero il Travis Bickle del secolo che nasce, la sua rabbia non ha però bisogno di esplodere.

No, la sua rabbia rimane lì, chiusa in una cella insieme a lui, e ne esce solo sotto le forme culturali epresse dalla perversa scopofilia dei media, grazie al culto della persona e dei suoi trademark (le fotografie dei fan in posa fatte sul luogo del delitto). Culto che Read stesso però provvede a deridere: un personaggio sì evidentemente bipolare, ma non privo di una sua folle coerenza – anche morale – e cosciente di essere, lui in persona con le sue cicatrici e i suoi tatuaggi, un segno dei tempi.

Ovviamente il doppiaggio italiano fa pena. Questa volta persino più del solito. Un peccato.

Per saperne di più sul vero Mark Brandon Read, la solita
Wikipedia.

Il Dvd non costa pochissimo, ma nemmeno un’enormità: date un’occhiata ai prezzi.
Altrimenti c’è l’opzione Play.com: 10 eurini e vi arriva a casina [anche se probabilmente senza sottotitoli...].