Belgio

Il ragazzo con la bicicletta, Jean-Luc e Pierre Dardenne 2011

Il ragazzo con la bicicletta (Le gamin au vélo) 
di Jean-Luc e Pierre Dardenne, 2011

Quando senti arrivare le note di una melodia, ad accompagnare le immagini del film, seppure per pochi secondi, pensi che questo non sarà il solito film dei Dardenne. In verità i due registi belgi con questo film proseguono impassibili la loro missione narrativa e morale, ma trovano nell’incontro improvviso tra Samantha e il dodicenne Cecyl una sorta di scintilla di umanità in un mondo crudele e folle e scelgono di raccontarla con le fattezze di una fiaba contemporanea; una dolcezza inattesa che diventa necessaria al di là della loro stessa volontà, intorno alla quale si chiude però la morsa di un mondo crudele in cui tutte le figure paterne (il padre di Cecyl, il fidanzato di Samantha, lo spacciatore, l’edicolante) rappresentano l’incapacità di assumere rischi e responsabilità, fino all’autentica abiezione; e anche se i Dardenne decidono di lasciare un po’ di luce – anche da un punto di vista prettamente visivo – questa non smussa gli spigoli appuntiti e arrugginiti del mondo, né smentisce la condanna dolorosa che sta a monte: stiamo assistendo a un mondo collassato sul suo stesso egoismo, questa è l’ultima speranza oppure l’ultimo respiro? Il ragazzo con la bicicletta è un emozionante, a tratti straziante romanzo di formazione, tenero e crudele, che conferma la vitalità e la caratura morale di due tra i migliori registi europei in attività, tornati qui – con un pizzico di evoluzione, all’interno di un’incrollabile coerenza – al massimo della loro forma. Un piccolo grande capolavoro.

Panico al villaggio, Vincent Patar Stéphane Aubier 2009

Panico al villaggio (Panique au village)
di Vincent Patar e Stéphane Aubier, 2009

La cosa più bella di Panique au village, sorprendente e frastornante piccolo film animato, vincitore del Sitges e del Future Film Festival e tratto da una serie animata belga ideata dagli stessi due registi del film, è che la sua strabordante bizzarria mantiene una coerenza quasi impensabile, fino alle estreme conseguenze. Una volta superato lo shock culturale della tecnica d’animazione e la reazione comica inarrestabile al "casting" (i protagonisti sono, di fatto, dei pupazzetti: un indiano, un cowboy e un cavallo) il film di Patar e Aubier scorre via che è una meraviglia per tutta la sua ora e dieci.

E non ci si pone quasi mai la domanda di cosa diavolo stia succedendo e di quali misteriose leggi fisiche governino il villaggio e i suoi abitanti, anche perché non c’è il tempo di farlo: Panique au village fa procedere la narrazione a un ritmo forsennato, rutilante e inarrestabile, avanzando per associazioni mentali che lasciano alle spalle il filtro della razionalità, con una narrazione che si avvicina quindi più a quella del sogno. Anche nel suo non conoscere limiti, siano essi quelli spaziali e temporali del mondo in cui si svolge la vicenda o quelli dell’assurdità più totale. Insomma, uno spasso bello e buono, una delle più belle sorprese della stagione. Peccato che alla sua uscita in sala in Italia, lo scorso giugno, sia passato quasi del tutto inosservato.

Se avete fretta di recuperarlo, il dvd francese è già in vendita.

Il matrimonio di Lorna, Jean-Pierre & Luc Dardenne 2008

Il matrimonio di Lorna (Le silence de Lorna)
di Jean-Pierre & Luc Dardenne, 2008

Euro. La prima inquadratura di Le silence de Lorna mostra la protagonista mentre conta dei soldi. E’ di fronte a un ufficio bancario. Parla con il commesso di un prestito che potrà fare, perché sta per diventare belga. La ragazza ha un accento straniero, dell’Est Europa – giustamente conservato nell’edizione italiana. Questo è solo un esempio, e uno dei pochi affrontabili con tale distacco, della maestria dei Dardenne. Roba da manuale, si potrebbe dire: eppure in pochi secondi non veniamo soltanto inseriti in un contesto (sappiamo che la protagonista è straniera, che è si sposata per il visto, che ci troviamo in Belgio, che c’è in gioco una somma di denaro), ma ci troviamo immediatamente di fronte a una figura che sarà il nucleo semantico di tutto il film: il denaro – e più precisamente l’Euro. Nonostante gli individui siano sempre al centro della loro riflessione, mai come in questo caso infatti il cinema dei Dardenne è inserito in un contesto sociale più ampio ed espanso, che si concentra non solo i rapporti tra i personaggi e tra i personaggi e l’ambiente, ma anche tra gli ambienti stessi, regalando un’immagine dei "confini umani", e – appunto – della loro mercificazione, che mette i brividi.

Il secondo colpo da maestri dei due registi è lo scarto ellittico che accade a metà film. Un vero e proprio singhiozzo narrativo, che fa il rumore straniante e surreale di un vinile che salta per un colpo di tosse (o un colpo al cuore), e da cui si dipana una seconda parte che, discendendo nell’inferno personale di Lorna, non lascia più alcuno scampo – ai suoi personaggi e allo spettatore. E al di là dell’effettiva e impressionante precisione con cui è concepito e realizzato questo film, crudele e spietato come in passato (forse di più) e a tratti persino più rigoroso, è impossibile prescindere dall’impatto emotivo che suscita la performance della ventinovenne Arta Dobroshi. Un’attrice semi-esordiente che riesce con la sua interpretazione (e con il suo ruolo: va detto, a onore di una sceneggiatura impeccabile come un dramma sociale e implacabile come un noir) a fornire un totale ribaltamento dei meccanismi empatici che sono in gioco generalmente con film simili – prima nella dimostrazione di un’amore improvviso e letteralmente impellente che travolge l’impossibilità della felicità che si leggeva nel suo sguardo in tutta la prima metà del film, sia nella sua graduale e tragica perdita di consapevolezza.

Irina Palm
di Sam Garbarski, 2007

Una delle cose più divertenti di Irina Palm è raccontarlo poi ai tuoi amici, che non sanno che cosa sia, e godersi le loro facce: vaglielo a spiegare, poi, che questa trama – che sembrerebbe una cosa maliziosetta e un po’ porcellona, a spiegarla a maglie molto larghe – appartiene a un film così quieto, sommesso, malinconico, delicato, piacevole.

Irina Palm è stato additato da molti come una delle maggiori sorprese europee dell’anno appena trascorso, un po’ perché il suo regista a quasi sessant’anni è ancora praticamente un regista esordiente, ma soprattutto per la presenza inusuale di Marianne Faithfull, che uno in un ruolo così – la donna di mezza età che appende dietro il muro forato dal "buco della gloria" i piccoli simulacri della sua coscienza piccolo borghese, come il quadretto, il thermos del té – non ce la vedrebbe, e invece quegli occhi piccoli, vispi e tristi calzano alla perfezione sul ruolo di Maggie, come uno splendido grembiule adagiato su un corpo invecchiato e pieno di (bellissimi o grigi) ricordi.

Al di là di lei, ci sono molte cose che rendono Irina Palm un film da recuperare: tra queste, senza dubbio è principale il modo in cui Garbarski riesce a giocare con i suoi personaggi (soprattutto in quelli, più didascalici, del figlio e della nuora di Maggie, ma anche nel bellissimo ruolo affidato a Miki Manojlovic), ribaltandone l’identificazione senza mai prendere in giro lo spettatore, ma conducendolo per mano nella storia, con un garbo inaspettato e almeno due scene da conservare immediatamente nella memoria: la prima "lezione" tenuta da Dorka Gryllus (presenza inconsapevolmente meravigliosa: amore a prima vista) e la "rivelazione" ("I wank men off!") alle amiche del quartiere, che nascondono i loro squallidi altarini dietro l’ipocrisia perbenista del té delle cinque.

L’enfant, Jean-Pierre e Luc Dardenne 2005

L’enfant – Una storia d’amore (L’enfant)
di Jean-Pierre e Luc Dardenne, 2005

L’ultimo film dei Dardenne, punta di diamante del cinema belga, non ha vinto la Palma d’Oro a Cannes 2005 per niente. I due registi confermano ancora una volta la purezza (la stessa di Sonia, nello scoprirsi madre) e la potenza del loro sguardo, continuando dopo il bellissimo La Promesse e lo splendido Rosetta a “stare incollati al volto e al collo dei personaggi”, e raccontando questa volta una strana storia d’amore in assenza, tra un ragazzo che impara a prescindere dall’oggettivizzazione del mondo (dove tutto ha un prezzo, tutto è merce), e la ragazza che gli insegna – suo malgrado – la sofferenza, l’amore, e il senso della vita.

La sequenza della “consegna”, fino alla scioccante parola “venduto” e la corsa all’ospedale, è tra le cose più forti e dolorose mai viste nel cinema due fratelli. Ma, fedeli alla loro linea di pensiero, pur lasciando a se stesse queste pedine antropologiche, non impediscono mai – anzi, fanno in modo – che ci sia per loro, esseri umani fino in fondo, spazio per un cambio di rotta, per una redenzione totale anche se improvvisa e strabordante come l’incontro – silenzioso, straziante, dolcissimo – che chiude il film.

Il loro è un cinema che non parla davvero del disagio, ma lo usa, il degrado, per acuire la portata delle scelte dei loro personaggi. Un cinema morale e umanista ma realista, consapevole della bruttezza del mondo ma altrettanto della bellezza che si nasconde tra le pieghe di un sorriso o di un pianto, di un dolore o di un perdono. Un cinema prezioso.

La promesse

di Jean-Pierre e Luc Dardenne, 1996

Il primo film dei Dardenne è più diretto, più "sceneggiato", e forse meno bello, del successivo Rosetta, ma contiene già tutti gli elementi del loro fare cinema. Quel mobilissimo stare incollati al volto e al collo dei personaggi, le macchine da presa come gocce di sudore, la tensione drammatica che fuoriesce da sè, da uno sguardo o da un gesto (bravissimi Rénier e Gourmet), da un’attesa o da una titubanza.

Un ritratto di un rapporto tra padre e figlio (non il primo, e non l’ultimo) di una durezza sconvolgente, e soprattutto sulla dolorosa ricerca (sacrificale) della pietà e della compassione. Della purezza, ormai perduta. E non c’è modo migliore per mostrare questo travaglio se non la crudezza del vero filtrata attraverso il melodramma, e una spietata misantropia ("tuo padre non è la sola merda di questo paese"), ma piena di sottesa speranza.

Da italico culto la sequenza del karaoke, con le note di "Marina": uno dei pochi momenti del film in cui si riesce a respirare (se si pensa a cosa si ha appena visto e cosa si sta per vedere). Snervante e disturbante, grazie al cielo. Un pugno nello stomaco e un coltello nel cuore. Essenziale.

Nota: casualmente, qualche link sui Dardenne su Finalcut