Biografilm 2006

[biografilm festival 2006]

Eventi speciali
Tupperware! (USA/2004)
di Laurie Kahn-Leavitt (63′)

Il modesto documentario della Kahn-Leavitt, sotto l’apparenza di un’apologia dell’inventiva postbellica e dell’imprenditoria femminile, è uno spot*. Per salvare questo film, bisogna ribaltarlo, estrarre cinque minuti verso la fine, e vederla così: Tupperware! racconta di una donna (Brownie Wise) che ha inventato un nuovo stile di vita per centinaia di donne, è la storia di un enorme inganno (perché dietro la Wise c’erano quasi solo uomini), di un’ingiustizia storica e sindacale (perché la Wise senza contratto viene estromessa da Tupper e sparisce per sempre), e soprattutto di centinaia di stronze che, di fronte ai soldini facili e pronti, hanno voltato le spalle alla loro ape regina. E’ una scintilla, sono cinque minuti di dubbio inseriti nella continua esaltazione delle scatolette e degli home parties in cui vengono vendute, ma voglio pensarla così. In tal caso diventa quantomeno interessante, altrimenti è persino imbarazzante. Davvero azzeccati però i titoli di coda con le "testimoni" che canticchiano l’inno Tupperware. Ti si incolla, maledizione.

*Inquietante la presenza della Tupperware all’interno dell’evento. No comment.

[biografilm festival 2006]

Selezione ufficiale, fuori concorso
The life and hard times of Guy Terrifico (Canada/2005)
di Michael Mabbott (86′)

Guy Terrifico, senza aver davvero inciso nulla di considerevole, era uno dei cantanti country più importanti della scena canadese. Questo prima di morire, ucciso durante un concerto. Aveva tutto: una chitarra con la foglia d’acero, una fidanzata corista petomane, una guardia del corpo violenta, i soldi di una lotteria, un albergo-locale, e una bella manciata di dipendenze. 30 anni dopo, una lettera misteriosa annuncia il suo ritorno: dunque non era morto? Anche se il film inizia con Kris Kristofferson che ricorda Guy su un palco, ci vogliono una manciata di secondi a capire che Guy Terrifico è una bufala. Insomma, almeno un mockumentary nel biografilm l’hanno infilato, e con mio sommo gradimento: il musicista Matt Murphy interpreta Terrifico come un comico navigato, molti mostri sacri del country ci mettono la faccia con ammirevole stoicismo, e Mabbott utilizza le forme più abusate del documentario sulla dissolutezza dei rocker, deridendole dall’interno, ma raccontando anche, per quanto possibile, la vita e le contraddizioni del suo personaggio. Si sono divertiti un sacco a girarlo, ne sono certo: il pubblico gradisce, a sua volta.

[biograflm festival 2006]

Winners & Losers
Crazy Legs Conti: Zen & the art of competitive eating (USA/2004)
di Chris Kenneally e Danielle Franco (75′)

Il sogno di Crazy Legs Conti, lavavetri newyorkese, è sempre stato quello di diventare un competitive eater a livello professionale, e di poter essere su quel palco a Long Island, accanto a quel ragazzo giapponese che mangia 50 hot dog in 12 minuti. Il documentario di Kenneally e Franco, che segue Conti e tutte le sue vicende para-alimentari nell’arco di un anno preciso, se si aggiunge la perseveranza che quel buffone di Conti mette nella sua missione, diventando prima campione mondiale di ostriche e poi regionale di hot dog (passando per i panetti di burro che però, poverino, sono un po’ pesantucci), è talmente assurdo da sembrare un mockumentary. Un film divertentissimo, e decisamente fuori dalla norma, che ritrae un mondo marginale di mitologici mangiatori professionisti dai nickname suggestivi come "affamato" e "aragosta", assolutamente folle se si pensa a quanti casini causino l’obesità e i problemi alimentari negli Stati Uniti (non Crazy Legs, che mangerà pure come la merda, ma fa ginnastica e palestra). Assolutamente da evitare dopo aver cenato o se si hanno problemi gastrici o intestinali: potreste attraversare la città accompagnati da rumori poco piacevoli. Si capisce. Intanto ho scoperto di essere un competitive eater: io, nella vita, mangio così. Long Island, aspettami.

[biografilm festival 2006]

Selezione ufficiale, in concorso
How to eat your watermelon in white company (and enjoy it) (USA/2005)
di Joe Angio (85′)

Tutta (o quasi) la storia di Melvin Van Peebles, leggendario regista che "inventò" la blaxpoitaton con Sweet sweetback baadassss song, regista teatrale, broker in borsa, maratoneta, donnaiolo, e molto altro ancora. Il documentario non si sofferma certo sulle zone oscure di Van Peebles (se ce ne sono), eccede con l’elegia, e ne racconta come di un grande artista del ’900, una delle figure più importanti, se non la più importante, della cultura afro-americana del secolo scorso. Al di là di questo, che è un difetto perdonabilissimo, How to eat your watermelon è un lavoro davvero ben fatto. Ma nel contesto del Biografilm "ben fatto" è dire poco: la presenza spassosa e sarcastica di Van Peebles varrebbe l’intero film, ma forse la differenza sta nel fatto che questa è una vita che vale davvero la pena di raccontare: non ci si annoia nemmeno per un minuto.

[biografilm festival 2006]

Selezione ufficiale, in concorso
La casa de mi abuela (Spagna/2005)
di Adan Aliaga (80′)

Marita e Marina, 75 anni e 6 anni, nonna e nipote. Si parla quindi del rapporto tra passato e presente, di ricambio generazionale, di ciclo della vita, bla bla. Aliaga ha molte buone intuizioni, soprattutto quando segue la bambina peregrinando sulla sua sgrammaticata vocetta off. La vecchina invece è una semplice vecchina scassapalle (Moira, dove sei?) che si lamenta dell’euro e della decadenza dei costumi. La casa de mi abuela ha il dono dell’immediatezza e della semplicità, a volte è poetico e divertente, ma più spesso prevale un effetto da filmino-fatto-in-casa assolutamente incredibile (come quando la bimba e la nonna ballano canzonacce pop dimenandosi nella stanza) oppure quella noia sonnacchiosa che ti fa appisolare volentieri. Piace, però, piace molto: per quanto mi riguarda, tazze e tazze di latte dalle ginocchia.

[biografilm festival 2006]

Selezione ufficiale, in concorso
You’re gonna miss me (USA/2005)
di Keven McAlester (91′)

Roky Erickson, frontman di una band da alcuni ritenuta di culto, i 13th floor elevator, ha fatto uso di qualsiasi droga dall’eroina allo speed, è stato internato per anni in ospedale psichiatrico dove ha ricevuto i conseguenti elettroshock, e poi chiuso per una dozzina d’anni da quella pazza rompicoglioni di sua madre in una casa dove per dormire tiene una manciata di apparecchi musicali accesi tutti insieme, senza nessuna cura medica né odontoiatrica. Insomma, adesso come adesso è ridotto davvero a uno straccio. Così, il suo fratellino preferito, l’unico quasi normale di tutta famiglia (quasi, visto che vive in una casa che sembra un mattoncino del Lego) denuncia quella pazza rompicoglioni di sua madre e le ruba la custodia di Roky. Quanto mi piacciono i documentari che scendono nel torbido familiare (con frasette da niente tipo "una volta mia madre ha visto mio padre a letto con mio fratello, ma non ho voluto indagare oltre"), che si fanno i cazzi altrui senza ritegno (con un doppiogiochismo pazzesco: fossi quella pazza rompicoglioni della signora Erickson mi incazzerei di brutto), e che giudicano facendo finta di essere distaccati. Un tantinello troppo lungo, ma si sopporta volentieri, vista l’intelligenza (anche strutturale: l’alternanza tra il Roky canterino e il Roky rimbecillito fa impressione) con cui McAlester organizza il tutto. E poi invece delle solite musichette cheap da documentario fatte con le tastierine Bontempi dall’amico del portinaio del regista, eh, qui ci sono i 13th floor elevator. Fa la differenza.

[biografilm festival 2006]

Morte ogni pomeriggio, in concorso
The self-made man (USA/2005)
di Susan Stern (57′)

Bob Stern è un capofamiglia che ha interiorizzato il sogno americano e ne ha fatta una religione laica: sicché, al sopraggiungere della malattia, decide che ha vissuto abbastanza e che non vuole finire i suoi giorni in ospedale, si fa riprendere dalla moglie e dal figlio in un video dove spiega alle altre due figlie perché si ucciderà. Poi mette a letto la moglie, esce dal porticato e si spara. Racconta tutta la vicenda la figlia Susan, misurando i toni e le parole nonostante il coinvolgimento, e riuscendo talvolta ad essere toccante. Però, al di là del fatto che l’eutanasia – che viene tirata ovviamente in ballo – è un’altra cosa rispetto a spararsi in testa di fronte alla propria famiglia, il film è purtroppo abbastanza povero, sia concettualmente che in quanto a stimoli, probabilmente per i toni elegiaci usati nel ritrarre la vita di quest’uomo, che, ad un certo punto, stonano un po’ con la realtà delle cose. Ma lì, ovvio, la questione diventa soggettiva e quasi politica. Jonathan Caouette ha dimostrato che parlando dei fattacci propri si può fare grande cinema. Susan Stern non ci è riuscita, nemmeno da lontano.

[biografilm festival 2006]

Incontro con Moira Orfei e proiezione del film
Moira Orfei. Amore e fiori (Italia/2005)
di Carlo Bevilacqua e Francesco Di Loreto (60′)

Vabbè, è chiaro che non mi aspettavo chissa cosa dal documentario-intervista alla moirona, però c’è un limite a tutto. Devo ammettere una cosa: che quando la moirona è in campo, non c’è più un cazzo che tenga, non ce n’è più per nessuno: questa donna avrà un miliardo di anni e le rughe tirate a metà schiena, ma ha uno charme ipnotico, rassicurante e inquietante al tempo stesso. Come se tutto d’un tratto la tua nonnina si fosse traformata in un personaggio di un film di John Waters. Grasse, grassissime risate: come fai a resistere a una che ti racconta che una volta sul set di un peplum rivoltò di schiaffi Jayne Mansfield perché faceva la sciantosa, aggiungendoci anche qualche uovo in testa? Grande, grandissima Moirona. Il film però è davvero indifendibile, prima di tutto per i tempi di lavorazione (tre anni per questa roba?) e poi perché è insopportabilmente autocompiacente, come se fosse un film su se stesso e non sulla meravigliosa moirona. Poi, per cosa, per quattro trovatelle gagliarde, tre animali in croca, e quattro tizi che saltano? Bello il circo, sì, ma che due palle.

[biografilm festival 2006]

Selezione ufficiale, in concorso
Sobhraj – Or how to be friends with a serial killer (UK/2004)
di Jan Wellman (70′)

Il documentario racconta a partire da un’intervista recentissima le tappe della vita spericolata di Charles Sobhraj, serial killer di genesi vietnamita, affascinante e colto, che all’incirca trent’anni fa ha ucciso una cinquantina di persone appropriandosi dei loro passaporti (e della loro identità), ma che non è mai stato condannato per omicidio, e che sta ora scontando una condanna a vita in Nepal, dove era probabilmente a smerciare con (uau) membri di Al Qaeda. Wellman prende nelle mani un personaggio che in quanto a sympathyness for the devil è davvero impagabile, una specie di Frank Abagnale ma più fascinoso e maligno, e fondamentalmente la spreca e la rovina. Nel senso: il regista racconta la sua storia anche con una buona dose di particolari, dettagli, suggestioni, luoghi, fatti, fotografie (anche cruentissime), riprende personaggi incredibili come "lo sherlock holmes di bombay", gente brutta sporca e cattiva (anche quando è buona), ex carcerati, amici di Sobhraj, gente che ne racconta come di una cosa divertente e buffa. Evviva. Ma monta il tutto nel modo più fastidioso possibile, come se gli avessero copiato il crack di Adobe Premiere e lui avesse trovato molto figo giocarci, ecco, con effetti tipo "ehi mettiamo questo fermo immagine sulla faccia buffa di questo noioso burocrate, che così è tanto buffa", senza farsi mancare nemmeno i flashoni spaventevoli, le musichette funky anni ’70 e (baratro dei baratri) metà della colonna sonora di Arancia Meccanica. Tanto per capirci. Che peccato.