Canada

Cosmopolis, David Cronenberg 2012

Ho visto “Cosmopolis” per la prima volta sette mesi fa e non ne ho mai scritto. Eccoci.

Cosmopolis
di David Cronenberg, 2012 

“Dove vanno tutte queste Limo durante la notte?” si chiede Eric Packer, protagonista del film che David Cronenberg ha tratto, sceneggiandolo personalmente, da un breve romanzo di Don DeLillo. Chi ha avuto la fortuna di vedere Holy Motors ha avuto una risposta assai più fantasiosa rispetto a quella data da Cronenberg, ma è comunque una curiosa bizzarria (notata, ovviamente, da chiunque) che due film così belli e così importanti, presentati peraltro fianco a fianco in concorso al Festival di Cannes, siano ambientati in una Limousine, in entrambi casi simbolo della decadenza di un potere legato all’immaginazione, un monumento che si trasforma in mausoleo. Pur replicandole con una certa fedeltà, Cronenberg fa sue le (limitate) pagine di DeLillo scavando a fondo nel personaggio contrastato e contraddittorio di Eric, un “re” della finanza miliardario, vittima di costanti minacce di morte, che nel corso di una giornata attraversa per un taglio di capelli una Manhattan in preda ai tumulti e tra un incontro e l’altro, ai piedi del suo trono, guarda in faccia la rovina del suo capitale, alla ricerca disperata e probabilmente vana di qualcosa che lo faccia sentire ancora vivo. Girato per gran parte all’interno della Limousine isolata acusticamente, sfruttata da Cronenberg con una regia brillante e imprevedibile, Cosmopolis è costruito su una sceneggiatura eccentrica, complessa e altrettanto soffocante, intenzionalmente verbosa, che non frena in alcun modo la formidabile e ipnotica messa in scena iperrealista e onirica del regista, di maniacale precisione – e che si conclude con un lungo, brutale dialogo (di circa 25 minuti) tra Eric e l’uomo che lo vuole uccidere. Arrivato dopo una serie di opere (apparentemente) più tradizionali, Cosmopolis è un film glaciale, stilizzato e magistrale che segna il ritorno del Cronenberg più intransigente e radicale, fin dalla definitiva, geniale scelta di casting di Robert Pattinson, che il regista carica ancora una volta di caratteri mortiferi: sotto la sua giovinezza, il suo fascino e il suo potere batte un cuore nero come la pece, o forse non batte più nulla.

The Moth Diaries, Mary Harron 2011

The Moth Diaries
di Mary Harron, 2011

Ci sono film che è davvero impegnativo sbagliare. La canadese Mary Harron, più di un decennio dopo l’ottimo American Psycho che, curiosamente, era un film facilissimo da sbagliare, adatta un romanzo vampiresco di Rachel Klein ambientato in un collegio femminile, ma stavolta tira fuori un terribile pasticcio dominato dal ridicolo involontario. Il peccato e lo spreco sono centuplicati dall’assoluta perfezione del casting: Sarah Bolger e Sarah Gadon, quest’ultima nuova musa della famiglia Cronenberg, sarebbero la scelta perfetta per rappresentare un’innocenza sull’orlo del tradimento e la gigantessa Lily Cole, con quel fisico e quel volto che hanno ben poco di umano, sembra nata per fare un ruolo di questo tipo. Ma non bastano tre belle facce se non c’è nessuno a dirigerle. E tutto il resto è clamorosamente sbagliato, dalla meccanica e puerile sceneggiatura alla leccata fotografia di Declan Quinn (uno molto bravo, altrove), buona giusto per quattro screenshot da postare su Tumblr – ma tutto ciò ha poco a che fare con il cinema. Interminabile e noiosissimo nonostante duri un’ora e venti, il film della Harron è così artificioso e fasullo da annullare qualunque tentativo di spacciarsi per sanamente morboso. Per fortuna, si dimentica in fretta.

A Dangerous Method, David Cronenberg 2011

A Dangerous Method
di David Cronenberg, 2011

Non c’è dubbio che la performance di Keira Knightley, eccessiva e volutamente sgradevole, insieme sgraziata e da prima della classe al corso di teatro del ginnasio, contribuisca non poco a definire A Dangerous Method. Allo stesso modo, è piuttosto chiaro che quella di contrapporre la recitazione algida di Michael Fassbender a quella sopra le righe dell’attrice è una deliberata scelta di direzione d’attori che va di pari passo alla narrazione e alle mutazioni incrociate dei due personaggi. Ma se questo contrasto sta al cuore del film (e nel primo impressionante colloquio-incontro tra i due regala uno dei momenti più personali e incisivi del film, ben più che le successive e più discusse sculacciate) alla lunga gli taglia le gambe: perché dopo un po’ il primo risulta più che altro legnoso, la seconda solo irritante. Cronenberg, dalla sua, fa davvero pochi tentativi per uscire dai vincoli dell’origine teatrale, A Dangerous Method non è certo un film brutto o insignificante, ma è piatto, inerte, ed è difficile riconoscere la mano di un autore così grande e potente; che sembra divertirsi a tratti con il rapporto tra Jung e la sua paziente/amante Sabina Spielrein (molto più che con quello tra Jung e Freud, interpretato da Mortensen con una maschera spessa che ne cela la sensibilità), ma troppo spesso abbandona il film a se stesso, schiavo della sua stessa insistita verbosità. Tra calligrafie e tediosi carteggi, guizzi improvvisi (lo svenimento di Freud, qualche focale doppia che interrompe il ritmo sonnolento del campo/controcampo, la bizzarria solo accennata dell’interesse di Jung per il paranormale, la passeggera comparsa di Cassel) rimessi però sempre a bada in fretta, avanza senza particolari sofferenze e si chiude senza lasciare molto di sé, con un’apertura inquietante alla prospettiva storica sul novecento a venire che appare però un po’ posticcia. Tutto sommato perdonabile, se non si trattasse di David Cronenberg. Ergo, imperdonabile.

La donna che canta (Incendies), Denis Villeneuve 2010

La donna che canta (Incendies)
di Denis Villeneuve, 2010

Comincia con il botto, il film del regista québécois Denis Villeneuve, vincitore di otto Genie Awards e nominato all’Oscar per il miglior film in lingua straniera: una sequenza suggestiva e inquietante, accompagnata in modo ben più che azzeccato da You and Whose Army? dei Radiohead, in cui alcuni bambini vengono “preparati alla guerra”, rasati come all’inizio di Full Metal Jacket ma senza più il permesso del distaccato disincanto. In questi due minuti folgoranti e incredibili è contenuta la chiave di volta di tutto il film, e non solo narrativamente: nello sguardo di un ragazzino incastonato in un lento carrello in avanti si ritrova già tutto il misto di disperazione e umanità che pervade la pellicola di Villeneuve.

Che è davvero un film di rara intensità, vorticoso e inesorabile, sbalorditivo e dolente, che ha il coraggio prima di tutto di sbattere in faccia alla Storia le armi del cinema puro, di essere virtuosistico e doverosamente spavaldo, trovando proprio nella forma, spesso eccellente, il modo ideale per raccontare una storia che intreccia i destini di personaggi costretti a fare luce sui segreti nascosti tra le parole non dette per poter dare pace al proprio passato. E così come il montaggio parallelo, che affianca la detection al film storico e il period movie alla tragedia greca, è preciso e implacabile, così lo sguardo di Villeneuve non lascia via di scampo né conosce tonalità di grigio, nel suo viaggio alla scoperta di un’eredità di violenza e morte che non potrà mai cicatrizzare. Ma che nasconde nel pianto e nella consapevolezza, della propria origine e della propria sorte, la possibilità estrema e definitiva di una scintilla di umanità.

La versione di Barney, Richard J. Lewis 2010

La versione di Barney (Barney’s Version)
di Richard J. Lewis, 2010

Ci si ritrova per l’ennesima volta a far accenno all’annosa e noiosa questione degli adattamenti da libri molto celebri e amati: è inevitabile, con un romanzo come quello di Mordecai Richler – che personalmente ho letto anni fa amandolo molto ma di cui (per mia fortuna o per mia sfortuna), non ricordavo più molti dettagli al momento della visione, una cosa che mi ha permesso di vederlo come un film a sé stante senza l’ansia del confronto.

Come sempre, di ragioni per far imbestialire i moltissimi fan del libro ce ne sono a bizzeffe: ma considerata l’effettiva difficoltà di tradurre in narrazione cinematografica la scrittura dello scrittore canadese, l’adattamento dello sceneggiatore Michael Konyves funziona piuttosto bene, semplificando in qualche modo la complessità narrativa di Richler ma trovando per essa una dimensione cinematografica e una struttura a flashback abbastanza canonica che calza bene sul personaggio e sulle sue vicende. I problemi del film non hanno insomma molto a che fare con il cosiddetto tradimento del testo (che molti vedranno, ma qui sto pronosticando a caso) ma riguarda semmai il suo essere un film fatalmente medio, un’interminabile “commedia amara” che nonostante si prenda i suoi tempi (130 minuti anche se a volte sembrano 260) riesce a essere persino frettolosa – soprattutto nella prima parte – per muoversi poi stancamente verso il finale – che è di fatto la parte migliore del film, un po’ perché Lewis, che fa il suo mestiere e poco più, si trova più a suo agio con il dramma che con la commedia e un po’ perché riesce finalmente a chiudere con un senso tematico forte (la riflessione sulla memoria e sull’identità) un racconto che si era trascinato per due ore dando troppo spesso l’impressione di una frammentarietà episodica e fine a se stessa.

L’unica cosa che si salva senza mezzi termini è Paul Giamatti e, per estensione, il “suo” Barney Panofsky, un personaggio strabordante, sgradevole e irresistibile al tempo stesso e un’interpretazione davvero encomiabile che (se riuscite ad accettare finalmente che Barney non potrà mai essere esattamente come l’avevate immaginato) dovrebbe mettere un punto alle preoccupazioni aprioristiche dei suoi detrattori. Peccato che il film non sia sempre in grado di contenerla a dovere.

Scott Pilgrim vs. The World, Edgar Wright 2010

Scott Pilgrim vs. The World
di Edgar Wright, 2010

Certe volte è solo questione di percezione, forse di prospettiva. Per alcuni Scott Pilgrim è un film con Michael Cera, per altri è un film di Edgar Wright. La distinzione nelle aspettative è tutta lì: in chi pensa o vuole pensare che l’attore tanto vituperato, spesso ingiustamente, possa essere considerato un fattore più che marginale all’interno della terza regia di uno dei migliori registi contemporanei dopo due enormità come Shaun of the dead e Hot fuzz. Personalmente, attendevo questa sua terza regia con una trepidazione senza pari: più di Inception, più di The Social Network. Sono quindi del tutto disposto a essere tacciato di pregiudizio: ero convinto che Scott Pilgrim avesse le carte per diventare il film dell’anno. Ora l’ho visto, e penso davvero che lo sia, il film dell’anno. L’avevo già deciso?

Posto che si tratta di un film immediatamente irresistibile e di fronte al quale, sinceramente, non riesco a immaginare si possa rimanere meno che abbagliati (se proprio non si deve stare per forza a battere le manine tutto il tempo come il sottoscritto) la cosa che ho trovato davvero sbalorditiva di Scott Pilgrim è il suo cercare e trovare strade nuove. Ci si lamenta spesso (altrove) di come il cinema contemporaneo non faccia altro che rimasticare ingredienti del passato, dissotterrare malinconie, redistribuire cliché? Edgar Wright parte dagli stessi presupposti, senza dubbio, ma l’inclusione del linguaggio dei videogame e del fumetto nella pellicola è totale, trasforma Toronto nel set di un platform indie visionario e delirante, mescolando l’orgia visiva con il linguaggio testuale delle disascalie, e pescando dalla loro sintesi anche tratti del tutto originali – come un montaggio che elimina dalla narrazione qualsiasi interferenza o momento di passaggio, concentrando tutte le energie sull’essenziale e facendone uno dei film più densi che si possano immaginare, evoluzione naturale di ciò che Wright aveva già mostrato in alcuni passaggi di Hot Fuzz. Tutt’altro che una commediola postadolescenziale per indie rockers: come i precedenti di Wright, è un film quasi sperimentale. Di certo è qualcosa di completamente diverso.

Detto questo, al di là di considerazioni che meriterebbero un’analisi più compiuta, Scott Pilgrim è un film mostruosamente divertente, scritto (da Wright insieme a Michael Bacall) con un’intelligenza e un’arguzia superiori alla media, spassosissimo come una commedia e adrenalinico come un action, con un ritmo travolgente, una colonna sonora stupenda e un cast strepitoso – tra cui spiccano Kieran Culkin, Jason Schwartzman, Chris Evans, Aubrey Plaza e ovviamente la stupenda (e stupendamente “normale”) Mary Elizabeth Winstead. Menzione d’onore per Ellen Wong, perché sennò la gente se ne dimentica. Insomma, un’autentica meraviglia visiva e narrativa che fonde effetti speciali perfetti a personaggi con un’anima e un cuore pulsante, uno di quei film che riguarderesti immediatamente una volta finito, uno di quei film per i quali bisogna inventare nuove definizioni. Per quanto vale, per quel che mi riguarda, un piccolo capolavoro. Altro che pregiudizi.

Poi c’è Michael Cera, sì. E sapete che c’è? È bravissimo. Oh.

Il film esce il 19 novembre 2010, lo stesso giorno della prima parte del settimo Harry Potter. Non potevo immaginare uno slot peggiore: probabilmente sarà un flop commerciale. Fate così: se siete d’accordo con me, anche parzialmente, sul valore e sulla bellezza di questo film, cominciate già da ora a spargere la voce. Mandate i vostri amici a vederlo. Magari funziona.

Suck, Rob Stefaniuk 2009

Suck
di Rob Stefaniuk 2009

All’interno dell’inarrestabile trend-invasione dei film e delle serie tv sui vampiri (o con i vampiri dentro), Suck non si distingue sicuramente per le sue ambizioni di mercato: scritto, diretto e interpretato da un attore comico semisconosciuto al di fuori dei confini del Canada, il film è una piccola commedia horror con un’attitudine da musical rock, tutta basata sulla metafora del vampirimo come “selling out” discografico (simile a quella di Jennifer’s Body, se vogliamo: non certo una delle più pregnanti), caratterizzata da un’umorismo sciocco e non troppo originale e da una messa in scena scombiccherata che, a modo suo, diciamola tutta, fa anche simpatia.

Di fatto, l’unico motivo di vero interesse in Suck è la partecipazione di alcuni celeberrimi musicisti, che regalano infatti i momenti migliori del film: Moby è un metallaro di nome Beef che lancia pezzi di carne cruda dal palco e chiama il suo pisello “Baby Beef”, Iggy Pop è un saggio produttore che si pruduce in perle tipo “let me tell you what I’ve learned in my many travels: always use a condom, and never trust a goddamn vampire”, Alice Cooper è un temibile e potentissimo vampiro che (a me) ricorda morbosamente il Dream del Sandman di Gaiman, e c’è anche Henry Rollins che fa Henry Rollins. Tutti e quattro fanno una fine ingloriosa: halleluja. Il resto del film, a parte qualche gag (la vampira che succhia il sangue di un impiegato un po’ nerd con una cannuccia e poi, sgamata, dice “it’s not what it looks like”) è abbastanza dimenticabile. Per tacere delle canzoni.

Assolutamente geniale, invece, l’idea di utilizzare per un flashback di Malcolm McDowell (sì, c’è anche lui, nel ruolo di un cacciatore di vampiri per vendetta con la benda nera da pirata sull’occhio; e non vi ho ancora detto che si chiama Eddie Van Helsing) alcune scene appositamente rimontate di un film del 1973, nello specifico O Lucky Man! di Lindsay Anderson. Gran bella trovata.

Non mi risulta sia prevista un’uscita italiana

Splice, Vincenzo Natali 2009

Splice
di Vincenzo Natali, 2009

In qualche momento non meglio precisato della seconda metà degli anni ’90, diventai un fan sfegatato di Vincenzo Natali. Come me, moltissimi miei coetanei e non solo. Era bastato un singolo film, una produzione canadese da 250 mila euro: si intitolava Cube. Senza dubbio ve lo ricordate. Poi Vincenzo Natali è andato un po’ fuori strada, il secondo film è uscito dopo cinque anni ed era brutto, il suo terzo film non l’ho visto, non credo l’abbia visto nessuno. Poi ha fatto il backstage di Tideland. Un regista finito? Non proprio. Perché poi, a 12 anni di distanza da Cube, ha fatto Splice.

Che è davvero una bellissima sorpresa, nonostante alcune voci dal Sundance ci avessero avvertito: una variazione sul tema della tracotanza scientifica, che già in passato ha prodotto autentici capolavori del genere, il film non si ferma certo alle conclusioni più scontate. Anzi, grazie a una caratterizzazione precisa dei personaggi e alla perfetta performance dei due attori protagonisti Adrien Brody e (soprattutto) la stupefacente Sarah Polley, Natali trasforma Splice dal divertissement un po’ nerd che poteva essere, e di cui forse mi sarei comunque accontentato, in uno dei film più misantropi (nonostante per la prima metà ti inganni convincendoti di essere solo misogino) e cupi (nonostante sia anche molto, molto divertente) degli ultimi tempi.

E se dalla distanza sembra giocare facile, magari con collaudati meccanismi da racconto breve (finale incluso), nello specifico Splice è un film che non vuole fermare proprio davanti a niente pur di dimostrare il suo assunto, molto più spavaldo di quanto si possa immaginare (a costo di andare a colpire allo stomaco e ai genitali le menti più candide, le quali sono quindi preventivamente avvertite), con un’attenzione alla progressione psicologica dei personaggi in relazione ai dettagli più carnali della mutazione che, ancora una volta, sembra guardare all’universo cronenberghiano, e con un’ironia beffarda e irresistibile che, a volte soffusa e sorridente e altre volte irrisoria e deflagrante, attraversa tutto il film. Un’ironia che conosciamo molto bene, e che suona come una consapevolezza inevitabile sul destino tragico dell’uomo che sfida la Natura e la sua stessa natura.

E questa volta esce in italia. Il tredici agosto. No, davvero.

Percy Jackson e gli Dei dell’Olimpo: Il ladro di fulmini, Chris Columbus 2010

Percy Jackson e gli Dei dell'Olimpo: Il ladro di fulmini (Percy Jackson & the Olympians: The Lightning Thief)
di Chris Columbus, 2010

Se questo è il materiale con cui si vuol mettere una pezza al fatto che la serie di Harry Potter sta per finire, stiamo freschi. Ed è così, a quanto pare: la presenza di Chris Columbus e la struttura stessa del racconto tratto dai libri di Rick Riordan non possono non destare qualche sospetto, anche se chiaramente si torna sempre alla struttura della fiaba, con poche variazioni.

Peccato che Percy Jackson sia un film così brutto, frettoloso, scritto a casaccio, sciocco, approssimativo e brutto a vedersi, perché l'adattamento della mitologia antica al gusto contemporaneo non è un male di per sé, anzi. La questione qui è che l'adattamento è impoverito proprio a causa dalla bruttezza del gusto stesso – o di quello che i produttori vogliono spacciare per tale.

Percy Jackson
 non fa insomma alcuno sforzo per mantenere un briciolo di credibilità, riuscendo a mandare in vacca persino la Medusa / Norma Desmond di Uma Thurman, e l'impressione, per ora non confermata dai fatti, che non ce ne libereremo facilmente, aumenta il fastidio. Così come la sequenza con Steve Coogan e Rosario Dawson agli Inferi, una trovata di setting e di casting che mostra le potenzialità del progetto un po' troppo tardi, quando ormai ci si è ampiamente sfasciati le palle delle penose battute del satiro / comic relief, che ovviamente non fanno mai ridere.

Una completa perdita di tempo: per un fantasy per soli adolescenti fatto come si deve, rivolgetevi a Cirque du Freak.

Parnassus, Terry Gilliam 2009

Parnassus (The imaginarium of Doctor Parnassus)
di Terry Gilliam, 2009

Mi sono reso conto che ci sono cose che concedo volentieri a Terry Gilliam e che non concederei quasi a nessun altro: la magia di Parnassus risiede forse proprio nel suo essere un film scombinato e scombiccherato? E inoltre, è un film sfortunato, mutilato, infine miracolato. L’artificio grazie al quale Gilliam ha risolto il dilemma della dipartita di Heath Ledger rivoltando la sceneggiatura e facendo ripartire da zero persino assunti di base del suo immaginario è geniale, ma non toglie che nel film, in ogni sua inquadratura, si senta il peso di un’assenza. Che non è soltanto quella dell’attore australiano, ma quella del film che era – come se dentro al corpo ciancicato di questo Parnassus si muovesse il fantasma di un Parnassus che non vedremo mai.

Per il resto, Parnassus è davvero il primo vero erede diretto di Le avventure del barone di Münchausen (con Christopher Plummer dove c’era John Neville e la splendida, ammaliante Lily Cole dove c’era una giovanissima Sarah Polley) ed è quanto di più lontano possa esserci dall’appeal commerciale di un Tim Burton ed è destinato, con il suo ritmo scivoloso e squilibrato, a fare arrabbiare il pubblico "medio" in caccia di volti da star – mentre sembra nato per fare la gioia di chi segue Gilliam da una vita: ci ritroverà quella stessa apparentemente ingenua e amabile spavalderia nel cantare le lodi della narrazione e nell’elogiare il potere dell’immaginazione, oltre che l’inimitabile modo in cui il regista ha sempre giocato con i piani del racconto, tra sonno e veglia, tra realtà e finzione, tra i baracconi di cartone di cui è fatto il mondo e la pulsione e il desiderio di cui sono fatti i sogni.

Trick ‘r Treat, Michael Dougherty 2008

Trick ‘r Treat
di Michael Dougherty, 2008

E adesso come faccio a convincervi che un film horror a episodi diretto da un regista alla sua prima prova dietro la macchina da presa è davvero bello? Devo esagerare? Devo dirvi che è una figata? Perché lo è.

Davvero, il primo film di Dougherty, recuperato sull’onda dell’entusiasmo espresso da Nanni sui 400 Calci e visto senza troppe aspettative, o almeno con quelle che si possono dedicare a un horror a episodi con un bambino-zucca sulla locandina, il film (che nonostante il plauso del pubblico dei festival ha avuto qualche difficoltà distributiva nel corso degli ultimi due anni, finendo infine direttamente sugli scaffali delle videoteche statunitensi senza passare dalle sale) è stato una sorpresa davvero esaltante.

Non tanto perché ci sono degli attori veri (l’eccellente caratterista solondziano Dylan Baker, il Tahmoh Penikett di Dollhouse e BSG, Brian Cox, Anna Paquin vestita da Cappuccetto Rosso ma anche la giovanissima e inquietante esordiente Samm Todd) o perché ci sono tot bambini che fanno una fine orribile o che la causano a loro simili – che sono buone ragioni, si capisce – ma soprattutto perché Trick ‘r Treat trasuda da ogni inquadratura una gran passione per il cinema di genere.

Dougherty insomma ce la mette tutta per divertire il pubblico, sia con i mezzi più convenzionali nel cinema del terrore (ma senza mai lontanamente sfiorare sensazioni di ridicolo: semmai con un’invidiabile ironia), sia con una struttura a incastro che trasforma il carattere episodico del film in una specie di burla orrorifica corale e circolare, che con la sua narrazione giocosa sposta l’interesse dallo spavento in sé alla sua, quasi sempre impeccabile, esecuzione.

Il film è uscito direttamente in DVD negli Stati Uniti qualche giorno fa. Ma se avete pazienza, anche l’edizione britannica arriva su Play.com tra un paio di settimane, costa pochi euro e li vale tutti.

Cry of the owl, Jamie Thraves 2009

Cry of the Owl
di Jamie Thraves, 2009

Tratto da un libro di Patricia Highsmith che aveva già ispirato un film di Chabrol con lo stesso nome negli anni ’80 (da noi Il grido del gufo), il film è una coproduzione paneuropea (Regno Unito, Francia e Germania) girata in Canada nell’Ontario, ed è il secondo lungometraggo di Jamie Thraves, regista inglese di molti bellissimi videoclip musicali tra cui almeno due notissimi capolavori del genere (Just per i Radiohead e The scientist per i Coldplay).

E quando un autore di videoclip si mette alla regia di un lungometraggio, la paura è sempre quella, che rimanga intrappolato trasferendo certe convenzioni di quel genere – ma Thraves è un regista intelligente, per nulla esagitato e scomposto, e infatti si muove in direzione opposta: il film è misurato, quasi compassato, e Thraves affronta la sua vicenda "gialla" con grande professionalità e senza alcuna concessione – consegnando semmai spesso la regia nelle mani della (sua stessa, e buona) sceneggiatura. Non traendone un film assolutamente memorabile, ma costruito con garbo e con un notevole senso del tragico, della predestinazione, del coraggio e della sconfitta.

Dal canto mio, l’ho recuperato soprattutto perché mi incuriosiva vedere all’opera un cast di protagonisti così bizzarro: Paddy Considine, sempre meraviglioso anche con questo inedito accento nordamericano, e Julia Stiles, che risulta misteriosamente adatta al suo ruolo – sempre se superate il fastidio per il fatto che reciti (o che, mi vien da pensare, sia indotta a recitare) come se leggesse la lista della spesa.


Cry of the owl non ha ancora una data d’uscita nel Regno Unito, e ci sta mettendo parecchio: le riprese sono avvenute alla fine del 2007. Nel frattempo, il film sta uscendo alla chetichella direttamente in DVD in altri paesi come Brasile, Germania e Repubblica Ceca. Difficile che trovi spazio dalle nostre parti.

Fido
di Andrew Currie, 2006

Avevamo davvero bisogno di un’altra commedia sugli zombie? Peraltro canadese? Il fatto che il film di Andew Currie, regista dall’aspetto simpatico giunto all’opera terza, non faccia porre questa domanda neanche per un secondo è già più che una vittoria, per Fido. Merito di un contesto oltremodo geniale: cioè, un "passato alternativo" post-apocalittico in cui i sobborghi residenziali colorati pastello degli anni ’50, altrove dipinti come illusioni metonimiche intorno a cui si cela la cupezza degli Stati Uniti del dopoguerra, sono effettivamente delle oasi rinchiuse al di fuori dalle quali l’Apocalisse non è affatto finita. Mentre dentro i recinti si consuma la più grande delle illusioni: la convivenza pacifica con la forza dirompente della morte.

E il contesto è talmente azzeccato da far dimenticare qualche difettuccio, al di là della confezione non ricchissima anche se del tutto soddisfacente: primo tra tutti, il fatto che una volta introdotte con divertita precisione le coordinate che regolano questo universo possibile, ovvero nella prima mezz’ora, il film smette del tutto di inventare, di reinventarsi – almeno fino al finale, in cui la natura del mondo fuori viene rivelata con improvvisa violenza. Per il resto, Currie e compagnia si limitano a un divertissement gastrico e riuscitissimo, perlopiù familiare e rassicurante ma con delle punte di ferocia simbolica che scatenerebbero l’entusiasmo di qualsiasi amante del cinema horror – o del cinema americano tout court. Non sorprende il fatto che lo sguardo sia "esterno": e cinico, in qualche modo. Forse ingenuo, ma profondamente sagace.

Davvero magnetica, e irriconoscibile, la presenza di Billy Connolly, nel ruolo che dà il titolo al film.

Il film non ha una data di rilascio italiana. Per procurarvelo, se non avete problemi di regioni, c’è già il dvd americano, a pochi euro. Se invece volete aspettare, dal 3 Aprile potete accaparrarvi l’edizione francese, oppure, dal 23 Aprile – se proprio siete ricchi e ambiziosi – quella giapponese, buffamente rititolata Zombino.

Grazie a Valido per la segnalazione/consiglio.

Away from her – Lontano da lei (Away from her)
di Sarah Polley, 2007

Schiacciato in una programmazione tanto entusiasmante quanto insolente, è scivolato tra le dita di molti questa bellissima opera prima della giovane e fascinosa attrice canadese Sarah Polley: ed è un peccato, visto che si tratta di un film veramente intenso e commovente, girato con grande semplicità ma anche con notevole carattere, e senza alcuna spocchia da esordiente prima della classe. Anzi, con l’intelligenza di evitare l’imbarazzo e gli scivoloni del poco utile piagnisteo in cui film simili in passato si sono immersi fino al collo.

Anzi, colpisce la capacità della Polley di spezzare i momenti di imbarazzo, non già con il cinismo e il distacco che altrove avrebbero funzionato, ma grazie proprio a un uso, seppur cosciente, di forme empatiche quali la tenerezza e il calore, ma anche di un’ironia leggera e funzionale (incredibile quanto perfettamente appropriato, ad esempio, l’intervento dell’ex commentatore sportivo nel momento più rischioso del film) e soprattutto una maturità ed un’umiltà incredibili per una regista esordiente. Aiutata in questa dalle performance davvero ineccepibili di Julie Christie (classe 1941) e di Gordon Pinsent (classe 1930), perfetti nella rappresentazione di un amore e di un addio che per una volta includono sentimenti di cui gli ultrasessantenni (e ultrasettantenni) al cinema vengono privati: non solo la malinconia e l’affetto, ma anche l’erotismo e il profondo senso di colpa.

Ma la cosa che colpisce più del film è il modo in cui la Polley è riuscita a trasformare l’incontro con la malattia in un vero e proprio viaggio nel tempo. La memoria, tema centrale del cinema dei nostri giorni, lo è anche in Away from her, dove diviene materia malleabile, delicata e relativa proprio come il tempo, la cui privazione lascia il protagonista sperduto e straniato, mentre osserva il mutare implacabile delle cose intorno a lui nell’attesa di un ultimo abbraccio che – forse – non farà mai in tempo ad arrivare.

C.R.A.Z.Y.
di Jean-Marc Vallée, 2006

Fattosi strada quasi a sorpresa spuntando dalla scorsa selezione delle Giornate degli Autori di Venezia, e lanciato nelle ultime settimane con una campagna pubblicitaria insolita, che ammicca soprattutto – e sbagliando il tiro – al pubblico più giovane (davvero tremendi gli spot radiofonici sulle frequenze nazionali), il film del 43enne regista canadese racconta la storia di un ragazzo che tra gli anni ’60 e gli anni ’70 vive la scoperta della propria identità in mezzo alla totale incomprensione del suo ambiente familiare, con un padre omofobo e quattro fratelli che sono più categorie mentali che veri personaggi, e sociale, il castrantissimo Quebec. Nel frattempo, già che c’è, ascolta della musica.

C.R.A.Z.Y., per quel poco che è stato visto – ora si attende il responso del pubblico italiano – è piaciuto davvero moltissimo. Mi aspettavo in realtà qualcosa di diverso, più vicino al cinema fanciullesco ed esagitato dell’Amelie di Jeunet o alla filologia esasperata di period film come Velvet Goldmine, vista anche l’importanza che la colonna sonora riveste. E invece C.R.A.Z.Y. ha almeno una dimensione tutta sua, abbastanza originale, che si barcamena tra le due indoli, tra un realismo estremo (come tutta la sequenza del funerale, lungi da me dirvi di chi) e l’epressione colorata e giocosa di una vitalità creativa, molte volte soffocata – un po’ come quella del suo protagonista. Ma non è per queste altalene stilistiche, non sempre azzeccate, che il film ha funzionato tanto. Ma perché, in tempi in cui la ruffianeria al cinema non si spreca, quella di C.R.A.Z.Y. ha davvero dello straordinario.

Come hanno scritto molti, "un buon film" e "molto godibile" lo è: ma spiace davvero che con una storia così non si riesca a dire nulla di davvero nuovo: un film che è risaputo fino alla nausea, e – mi ripeto – terribilmente ruffiano. Senza alcuna infamia, certo, perché tutto sommato si segue piacevolmente, è ben recitato e realizzato (e con pochi soldi, tolti i diritti per le canzoni); ma anche senza lode, perché vergognosamene compiacente in ogni piega della sua buona sceneggiatura stracolma di riferimenti mistico-cristologici. E se la buona fede di Vallée e soprattutto la sua sensibilità nell’approccio alla materia sono innegabili, lo sono anche tutti i cliché del caso, e un certo fastidio per un’occasione parzialmente sprecata (o per un eccesso di hype), troppo spesso affogata nella melassa.

Più stimolante semmai, seppur ancora banalotto, il percorso di fuga dalla realtà del giovane protagonista, dalle visioni adolescenziali (la scena del coro di Sympathy for the devil in chiesa sarà anche una bufala, ma è favolosa) fino a quel viaggio in terra santa (arricchita da uno dei più brutti zoom digitali che io ricordi), che dimostra una certa maturità degli autori nel sostenere che il viaggio alla ricerca della propria sessualità e della propria religiosità sono un tutt’uno, che si chiama identità. Sono certo che il pubblico giovane apprezzerà moltissimo: e come dargli torto?

Silent Hill
di Christophe Gans, 2006

A dispetto di un trailer che aveva fatto alzare a molti – me compreso – le orecchie dall’entusiasmo pregiudiziale, anche per la prestigiosa firma dello script a cura di Roger Avary, l’adattamento del celeberrimo videogioco della Konami non è stato accolto alla sua uscita nel migliore dei modi. Anzi. Eppure, così com’era successo nell’interessante versione cinematografica della nemesi storica di Silent Hill, ovvero il Resident Evil della Capcom diretto da Paul Anderson, anche il film del francese Gans fa meno danni di quanto si potesse temere. Questo perché, nonostante la durata davvero eccessiva (due ore di survival game che non fa nemmeno troppa paura sono un po’ indigeste) e una parte centrale in cui si tende a ripetersi e a fare dell’horror risaputo (molti si lamentano dell’eccesso di bimbe dai capelli lunghi neri, e non a torto: qui c’è pure l’odiosa bimba di Tideland), Avary e Gans riescono a cogliere più volte nel segno.

Il primo grazie a intelligenti invenzioni narrative che incastrano tra di loro le suggestioni di tutta la serie ludica non limitandosi a "rifare" il primo episodio (il non-incontro tra Rose e Chris nei corridoi della scuola, la polvere che sale da terra come i rewind di Rules of attraction, il flashback un po’ didascalico ma inquietante), restituendo così l’originale senso di inquietudine dell’opera originale e parlando (senza strafare, ovviamente) di come di fronte agli abissi dell’essere umano persino il diavolo sia un male minore. Il secondo grazie ad una messa in scena a tratti inetta e esagitata ma altre volte davvero fulminante (le infermiere-zombie, l’uomo con la testa a piramide e lo spadone), che inizia con la riproposizione della nebbiosità tipica del gioco e che termina con un pre-finale che più barocco non si può. Chiude il tutto un finale silenzioso e malinconico che sembra uscito da un film coreano, e che si fa apprezzare non poco.

Non sono qui a sostenere che tutto vada per il verso giusto, perché ci sono mucchi di banalità, cumuli di ingenuità e parecchia noia, frasi insulse e senza significato messe in bocca ai personaggi solo perché suonano bene o perché suonano minacciose. Siamo ancora lontani insomma da un’interazione artistica compiuta tra cinema e videogioco sul grande schermo, persino in casi (come Silent Hill, appunto) che si presterebbero alla perfezione. Forse la sintesi migliore la si è ottenuta non allontanandosi troppo dalle dinamiche videoludiche (e sto parlando di Advent Children). Ma senza dubbio lo spettacolo non manca di un certo fascino.

[Le Parole dello Schermo 2006]

Tideland
di Terry Gilliam, 2005

C’è una parola inglese, facilmente traducibile in italiano ma che nella nostra lingua non rende abbastanza bene, che meglio esprime il sentimento provato durante e soprattutto dopo la visione dell’ultimo film di Terry Gilliam. Premesso necessariamente che chi vi scrive è un fan accanito e che ho trovato I Fratelli Grimm un film divertente e molto riuscito, la parola che balena nella mente immediatamente è una sola: disappointment.

Tideland non è solo un film brutto e noioso: è un film di Terry Gilliam brutto e noioso. Bisogna tenerne conto, subito. E tenendo anche conto che questo è il film che Gilliam si è pagato con i soldi dei Grimm, bisogna chiedersi seriamente se il regista americano abbia ancora qualcosa da dire all’esterno dei meccanismi dell’establishment hollywoodiano che critica sempre così veementemente (e giustamente, visto il modo in cui l’hanno sempre trattato). Forse non è il caso di piangere lacrime amare solo per un film sbagliato, perché un errore può capitare a tutti. Anche se – nel caso di questo film – è appunto un tale unicum su cui forse è meglio sorvolare e dimenticare in fretta. Insomma, Tideland sarà anche autoriale, coraggioso, e gilliamiano quanto volete, ma se per "gilliamiano" intendete "solo inquadrature sghembe + grandangoli + qualche intervento animato", allora io ho un altro termine per voi. Ed è maniera.

Venendo al film, si tratta di un testo di partenza probabilmente ottimo, sia nell’idea dell’immaginazione al potere che è anche al centro (in modo non del tutto dissimile) dell’ultimo Del Toro sia per il gusto del macabro e dell’orribile che lo caratterizza (estremo persino per i canoni di Gilliam), che però a sua volta, forse per colpa di un’eccessiva attenzione a non tradire lo spirito del libro e la sua "altezza-bambino", si riduce per gran parte della durata ad una serie interminabile di dialoghi tra Jodelle Ferland, insopportabile bambina canadese che nasconde il suo posh imitando il bellissimo accento del sud degli states, e le sue stramaledette teste di bambola che tiene sulle dita.

C’è un bell’inizio, durissimo, con la bimba undicenne che droga il padre e ruba il cioccolato alla madre morta, c’è qualche svolazzo onirico degno del miglior sguardo visionario di Gilliam, c’è un’idea corretta, crudele, e raccontata con un piglio appassionato, sulle responsabilità del mondo degli adulti nei confronti degli innocenti e sulla salvezza legata alla fantasia e soprattutto allo storytelling, che si sa, è un tema pregnante nel cinema di Gilliam. Sul resto, è bene fare più silenzio possibile. Perché Tideland ha degli input eccellenti ma i suoi output sono tutti sbagliati. Ecco, è un film tutto sbagliato, un film che bisognerebbe riprendere in mano e rifare daccapo, a partire dal montaggio. E poi magari togliere Brendan Fletcher e mettere un attore vero.

Poi sono sicuro che questo film troverà qualche sparuto ammiratore, anche se l’accoglienza finora è stata meno che disastrosa. Per quanto mi riguarda, mi sento invece tradito, profondamente tradito. Brutto. Ma brutto brutto brutto, eh.

[biografilm festival 2006]

Selezione ufficiale, fuori concorso
The life and hard times of Guy Terrifico (Canada/2005)
di Michael Mabbott (86′)

Guy Terrifico, senza aver davvero inciso nulla di considerevole, era uno dei cantanti country più importanti della scena canadese. Questo prima di morire, ucciso durante un concerto. Aveva tutto: una chitarra con la foglia d’acero, una fidanzata corista petomane, una guardia del corpo violenta, i soldi di una lotteria, un albergo-locale, e una bella manciata di dipendenze. 30 anni dopo, una lettera misteriosa annuncia il suo ritorno: dunque non era morto? Anche se il film inizia con Kris Kristofferson che ricorda Guy su un palco, ci vogliono una manciata di secondi a capire che Guy Terrifico è una bufala. Insomma, almeno un mockumentary nel biografilm l’hanno infilato, e con mio sommo gradimento: il musicista Matt Murphy interpreta Terrifico come un comico navigato, molti mostri sacri del country ci mettono la faccia con ammirevole stoicismo, e Mabbott utilizza le forme più abusate del documentario sulla dissolutezza dei rocker, deridendole dall’interno, ma raccontando anche, per quanto possibile, la vita e le contraddizioni del suo personaggio. Si sono divertiti un sacco a girarlo, ne sono certo: il pubblico gradisce, a sua volta.

False verità (Where the truth lies)
di Atom Egoyan, 2005

Con un occhio, quello del canadese che vive la cultura del vicinato, e con l’altro, quello dell’outsider armeno che può permettersi un maggiore distacco, Egoyan racconta un triangolo sensuale di misteri e menzogne per parlare della cultura americana, della smania (e della paura) di apparire, dell’incapacità (e dell’impossibilità) di amare. La prima parte sembra uno Scorsese sotto tono (quello stesso uso degli spazi, gli stessi scatti di rabbia, la stessa voce off – però una voce sussurrata in una stanza), la seconda si accomoda sui più tipici dettami del film a incastro / film a sorpresa.

Peccato che il film di Egoyan sia allo stesso modo un film che funziona solo a metà: la sceneggiatura ondivaga tra passato e presente è ben concepita ma è confusa, e i suoi pezzi a volte sembrano appiccicati a casaccio, addirittura forzati nel finale; i dialoghi sono affascinanti ma peccano di presunzione e sono – spesso – eccessivamente letterari e didascalici, gli attori sono molto bravi (Bacon soprattutto Firth: la Lohman è una presenza angelica ma del tutto inconsapevole) ma alla lunga le loro performance sono ripetitive; i finali si susseguono – appunto, come da tradizione – stancamente e con un notevole calo d’interesse.

Comunque sia, grazie anche alle luci sovraesposte di Paul Sarossy e alla regia molto misurata di Egoyan (che pure sferra un attacco alla MPAA – coerentissimo con i temi del film – con scene di sesso assolutamente insolite per un film nordamericano), ne esce un ritratto delle bugie radicate in una cultura – che diventa poi un affronto alla sua ipocrisia omofoba – morbido e insinuante. Era forse consentito attendersi di più?

Styker

di Noam Gonick, Canada

Venezia Orizzonti

Ultimo giorno di festival, poco tempo da dedicare alla visione di film, una scelta a caso. Ma Stryker è un pessimo film, rovinato in primo luogo dalle interpretazioni degli attori, ma anche dalla terribile sceneggiatura (tra un fuck e l’altro, nemmeno un pensiero intelligente) e dalla regia di un piattume inumano. Tempo buttato via. Peccato, perché quello del giovanissimo (piromane e quindi anarchico) che guarda con distacco i reciproci razzismi di due bande rivali era un punto di vista interessante. Bleah.

Passaggi di tempo

di Gianfranco Cabiddu, Italia

Giornate degli autori

L’ultimo film visto in questo strano e incasinatissimo baraccone che è il Festival del Cinema di Venezia è un documentario. Non proprio un caso strano, vista l’attenzione ultimamente viene data a questo genere (ed è un documentario Darwin’s Nightmare, il vincitore delle Giornate degli Autori…).

Detto questo, il film di Cabiddu è proprio bello. E’ un documentario sul bellissimo progetto "Sonos e memoria" di Paolo Fresu, Elena Ledda e molti altri musicisti sardi (e non). Ma, da questo punto di partenza, monta e sale, fino a diventare un film sull’incontro tra uomini diversi per uno scopo comune, e infine nella seconda parte (bellissima) anche un ritratto della sardegna e delle sue tradizioni che tra vecchio e nuovo, filmati d’archivio e recenti mischiati insieme, vengono mostrate come elementi di una cultura affascinante e immutabile.

Nota: ieri sera, alla festa di chiusura del festival alla Villa degli Autori. Fresu e la Ledda ci hanno deliziato (splendidi, grandissimi, pelle d’oca). Lui era appollaiato a due metri d’altezza su una decina di cubi da arredamento. Io ero sotto di lui, a sperare che non mi cascasse addosso.